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"Edilizia e ambiente, ecco dove si può creare lavoro", di Luciano Gallino

Il nuovo governo ha dichiarato di volersi impegnare a fondo allo scopo di creare lavoro. Nel perseguire tale proposito dovrà compiere diverse scelte, alcune che gli sono note perché presenti da tempo nella discussione su questo tema, altre pressoché ignorate ma non di minore importanza. Il suo problema è quindi duplice: evitare di fare le scelte sbagliate tra quelle note, ma anche individuare scelte originali, attinenti a situazioni di cui al momento sia il governo sia i commentatori che lo spronano ad agire per creare lavoro sembrano ignorare.
Prima di toccare queste ultime, è opportuno un cenno a una scelta che sarebbe sbagliata, ma ha già fatto capolino in alcuni interventi del presidente Enrico Letta. Consisterebbe nel rispolverare l’idea che la flessibilità dell’occupazione – tradotto: una maggior facilità di licenziare, o di assumere tramite contratti di breve durata – serva a creare un maggior numero di posti di lavoro. La flessibilità è un ritornello diffuso dall’Ocse quasi vent’anni fa, con l’ausilio di un marchingegno chiamato Epl (acronimo inglese che sta per “legislazione a protezione dell’occupazione”). Quanto più elevato l’indice Epl osservato in un paese, dicevano i rapporti Ocse a metà degli anni Novanta, tanto più alto il suo tasso di disoccupazione. Circa dieci anni dopo, dietrofront: un altro rapporto Ocse diceva che gli studi empirici condotti su tale correlazione portavano a risultati contrastanti, e per di più la loro solidità era dubbia. Altri rapporti hanno concluso che il rapporto tra rigidità della protezione dell’impiego e il tasso di disoccupazione è assai ambiguo. Ad onta della sua inconsistenza, il ritornello dell’Ocse ha fatto presa in molti paesi e un risultato lo ha sicuramente avuto. Con il rapporto Virville in Francia, le leggi Hartz in Germania, le riforme del mercato del lavoro italiane del 1997, 2003 e 2012, tutte effettuate all’insegna della flessibilità, o sono stati creati milioni di precari, oppure quelli che erano già precari sono stati mantenuti in tale stato. Parrebbe dunque giunto il momento di congedare definitivamente l’idea di flessibilità.
La situazione che impone oggi nuove scelte sul fronte dell’occupazione e delle politiche economiche è la sostituzione del lavoro umano con le tecnologie elettroniche.
È in corso da decenni, ma negli ultimi tempi ha fatto registrare sia una straordinaria accelerazione, sia una prepotente espansione in settori lavorativi e professionali che sembravano esserne immuni. Si sa qual è l’obiezione: la tecnologia crea tanti posti di lavoro quanti ne distrugge. Su tale assunto chi scrive ha espresso dubbi in un testo di quindici anni fa. Quel che sta succedendo con la diffusione mostra che esso non regge più. Recenti studi americani (per esempio Ford 2009, MacAfee e altri 2011) arrivano alla stessa conclusione: la tecnologia continua a creare posti di lavoro, ma ne sopprime molti di più. La differenza l’hanno fatta microprocessori sempre più potenti e minuscoli, e programmi (o software) sempre più complessi e intelligenti. Per cui da un lato il lavoro umano continua a venire espulso dalle fabbriche perché le auto, le lavatrici e i televisori li fabbricano oramai i robot, controllati da computer costruiti da altri computer. Dall’altro, la novità è che sia mansioni impiegatizie di medio livello, sia attività professionali di fascia alta sono sostituite da macchine. Non scompaiono soltanto l’impiegata del check-in all’aeroporto, il bigliettaio in stazione, la cassiera del supermercato, perché una macchinetta permette (o impone) al cliente di fare da solo, ovvero il libraio o il negoziante soppiantato dalla vendita in rete. Scompare anche il praticante con laurea e master di uno studio da avvocato, perché adesso c’è un software che in pochi secondi trova qualunque articolo di qualsiasi legge; il giovane architetto che trasformava in un dettagliato disegno tecnico lo schizzo del maestro, perché un computer lo fa meglio di lui; il matematico che disegnava complicati algoritmi per le transazioni di borsa computerizzate, perché ora che la sua banca ha acquistato un nuovo programma, di matematici gliene bastano due in luogo di dieci; l’insegnante delle medie che perde il posto insieme a metà delle colleghe, perché la sua materia gli studenti adesso la imparano con un sistema di e-learning che assegna pure i voti e fornisce consigli per studiare meglio. Risultato: senza scelte originali un tasso di occupazione intorno o al disotto del 5 per cento, il meno che si possa chiedere a una società decente, al posto dello scandaloso 12 per cento di oggi, l’Italia non lo rivedrà neanche fra trent’anni.
Con i suddetti sviluppi della tecnologia non siamo affatto dinanzi alla fine del lavoro, quale preconizzava Jeremy Rifkin dieci anni fa. Siamo dinanzi alla necessità di concepire in modo radicalmente diverso la creazione di occupazione e l’allocazione di questa a differenti settori produttivi. L’obiettivo primario dev’essere quello di creare posti ad alta intensità di lavoro. C’è soltanto da scegliere. Ci sono gli acquedotti che dalla sorgente al rubinetto perdono metà dell’acqua che convogliano e i beni culturali che cascano a pezzi. Ci sono milioni di abitazioni ancora costruite in modo da consumare energia in misura cinque o dieci volte superiore a quella necessaria per assicurare lo stesso livello di comfort e le scuole da mettere a norma per evitare che cacini
schino in testa agli studenti. Ci sono migliaia di chilometri di torrenti e fiumi, e decine di migliaia di chilometri quadrati di boschi e terreni da sistemare affinché ogni volta che piove non ci scappi il morto e siano distrutte case e officine. C’è la metà almeno di ospedali da ristrutturare perché oggi terapie e degenze richiedono spazi organizzati in modo diverso rispetto a quando furono costruiti, mezzo secolo fa, e forse la metà degli edifici esistenti, in mezza Italia, che dovrebbero venire protetti dal rischio sismico con le tecniche oggi disponibili.
Tutto ciò significa milioni di posti ad alta intensità di lavoro, e qualifiche professionali che vanno dal manovale al perito all’ingegnere, che aspettano di venire creati a vantaggio dell’intero paese. Ci si potrebbero impegnare migliaia di piccole imprese, di cooperative, di artigiani, in parte forse coordinate da imprese pubbliche o private più grandi. E qui cade una seconda scelta originale che il governo dovrebbe decidersi a fare. È inimmaginabile che un’attività del genere si possa avviare con qualche riduzione d’imposta o qualche incentivo alle imprese che assumono e simili. È necessario un piano. Un piano che miri a collegare la creazione rapida di occupazione alla necessità di effettuare una transizione regolata di masse di lavoratori verso settori produttivi diversi da quelli tradizionali, dove essi saranno sempre di meno, e perché no a una idea un po’ più alta del paese in cui si vorrebbe vivere.

La Repubblica 10.05.13

"La questione dei salari", di Silvano Andriani

Mentre si intensifica il bombardamento contro le politiche di austerità e vengono demolite, anche ad opera del Fondo monetario internazionale, le ricerche che avevano finora dato ad esse una parvenza di scientificità, sorgono dubbi anche su una risposta alla crisi basata quasi esclusivamente su politiche monetarie ultraespansive. Politiche tipo quelle adottate dalle banche centrali statunitense, inglese ed ora anche giapponese. Ormai quasi nessuno più nega che la politica della Federal reserve sia la causa della migliore performance dell’economia statunitense rispetto a quella europea, ma il fatto è che questa enorme immissione di moneta non si traduce in un adeguato aumento della domanda e tanto meno in un adeguato aumento degli investimenti: il livello di formazione del capitale è stato nel 2012 nettamente inferiore a quello del 2007 sia negli Stati Uniti che in Europa, mentre in Giappone è rimasto ancora nettamente inferiore a quello precedente 1′ inizio della depressione negli anni 80. Tutto ciò appare ancora più sorprendente quando, come in Usa, Inghilterra e Germania a causa dei bassissimi tassi di interessi e di un blocco delle retribuzioni che dura da anni gli utili delle imprese hanno raggiunto record storici. Ma piuttosto che aumentare gli investimenti le imprese preferiscono usare i surplus in altro modo. Le imprese statunitensi, ad esempio, hanno usato gran parte degli utili per acquistare azioni proprie facendone salire le quotazioni o per acquistare altre imprese: esse nel 2012 hanno acquistato 400 miliardi di azioni proprie ed hanno speso ben 1600 miliardi per acquisizioni di nuove imprese. Il riacquisto di azioni proprie da parte delle imprese e la tendenza delle banche ad usare, a causa del proprio inadeguato livello di capitalizzazione, l’enorme liquidità che viene loro offerta dalle banche centrali non per finanziare l’economia reale, ma per acquistare titoli è alla base della straordinaria dicotomia fra andamento dei mercati finanziari le cui quotazioni hanno dovunque raggiunto livelli record a l’andamento generalmente negativo dell’economie reali, che lascia temere la formazione di nuove bolle speculative. Le imprese sono piene di liquidità, quelle statunitensi ne posseggono, secondo The Economist, 1800 miliardi di dollari e quelle europee 1000 miliardi di euro, ma non investono adeguatamente in quanto esse, per dirla sempre con The Economist, «trovano difficile accrescere organicamente i profitti vendendo più beni», il che semplicemente vuol dire che il problema è il livello della domanda. Chiunque ormai dovrebbe sapere che un imprenditore non aumenta la capacità produttiva perché ha fatto buoni profitti o perché i tassi di interesse sono bassi, lo fa se ritiene che ci sarà un aumento della domanda e con le politiche di austerità prospettive di aumento non se ne vedono. Ma questo è un problema che dura da tempo. Da tempo il blocco generalizzato delle retribuzioni nei Paesi avanzati, cioè il fatto che il reddito della maggioranza delle famiglie non aumentava, ha creato problemi di domanda; essi sono stati aggirati consentendo, con politiche monetarie permanentemente espansive e politiche creditizie corrive, un pesante indebitamento delle famiglie, indebitamento che poi è all’origine della crisi finanziaria. Rilanciare un tale meccanismo sarebbe molto pericoloso, anche se in parte ciò sta avvenendo: in Usa sono ripartiti i mutui subprime e nel 2012 essi sono aumentati del 30% rispetto all’anno precedente. Il collegamento dell’aumento delle retribuzioni reali all’aumento della produttività fu stabilito per primo da H. Ford che capì che senza un aumento della domanda da salari la formidabile crescita della produttività generata dalla meccanizzazione dei processi produttivi non sarebbe stata sostenibile. Tale collegamento diventò, attraverso le politiche dei redditi, un canone della politica economica riformista, elaborata soprattutto dai governi socialdemocratici scandinavi che si diffuse poi in tutti i Paesi avanzati. Basta dare un occhiata ai dati per vedere che nei «trenta anni gloriosi», successivi alla Seconda guerra mondiale, mentre si diffondevano in tutti i Paesi avanzati i consumi di massa e si edificavano le strutture dello stato sociale, livello del debito pubblico e di quello delle famiglie rispetto al prodotto lordo non sono aumentati. È inutile nascondersi dietro un dito, bisogna tornare a parlare di distribuzione del reddito. Non si può pensare che la domanda possa crescere sempre e soltanto attraverso il bilancio pubblico o immettendo grandi quantità di moneta che non si sa bene chi dovrebbe usare. Anche la metafora del denaro sganciato dagli elicotteri sulla gente, inventata a suo tempo da M. Friedman, può alla fine servire ad eludere il problema. Del resto in Inghilterra il dibattito, per merito del Labour Party, sta focalizzandosi sulla pre-distri budon, cioè sulla distribuzione del prodotto tra capitale e lavoro. Adottare politiche dei redditi mantenendo un accettabile grado di liberalizzazione dei mercati richiede un coordinamento sovranazionale delle politiche distributive e, per quanto più direttamente ci riguarda, di quelle dei Paesi europei. Oggi non tutti i Paesi dell’Unione potrebbero adottare lo stesso collegamento tra salari e produttività, esso andrebbe differenziato tra Paesi creditori e Paesi debitori, ma coordinate in modo da assicurare una crescita della domanda e la riduzione dei divari di competitività fra i diversi Paesi. Meraviglia che finora questo argomento non sia entrato a fare parte nell’agenda europea; prima vi entrerà meglio sarà.

L’Unità 10.05.13

"Un futuro per L'Aquila preda dell'indifferenza", di Salvatore Settis

L’Aquila è ancora in Italia? Il sindaco Cialente ha ammainato la bandiera italiana dalla sua città in rovina e riconsegnato la fascia tricolore al capo dello Stato per esprimere «preoccupazione, rammarico e mortificazione» per l’abbandono in cui giace la città deserta, dove da ottobre, nonostante il (buon) provvedimento Barca, non arriva un centesimo per la ricostruzione, paralizzando i cantieri e consegnando i cittadini a una condizione di «scoramento, sfiducia, rabbia, disperazione, povertà». «Lo Stato ci ha abbandonati», scrive il sindaco; «nella nostra Costituzione si respira la responsabilità istituzionale e democratica che si esprime nei diritti e nei doveri delle istituzioni e dei cittadini. Questo spirito non lo vedo nel comportamento dello Stato». Domenica 5 maggio, più di mille storici dell’arte di ogni età (università, soprintendenze, licei…), auto-convocati per un’idea di Tomaso Montanari, si sono raccolti all’Aquila da tutta Italia per vedere con i propri occhi, e denunciare al Paese, il colpevole abbandono del centro storico a oltre quattro anni dal sisma. Echeggia, in questa presenza civile e nelle parole del sindaco, un aspro contrasto fra i principi della Costituzione e il comportamento dei governi.
In nessun luogo come all’Aquila è evidente il nesso fra le rovine materiali di un centro storico e la rovina morale e sociale che minaccia la nostra società. Qui il degrado civile si rispecchia in un doppio disastro, il terremoto e la pessima gestione del dopo-terremoto, che ha privilegiato la costruzione delle cosiddette
new towns abbandonando il centro storico, deportando gli abitanti non nelle ridenti città-giardino promesse da Berlusconi, ma in quartieri-ghetto privi di spazi per la vita sociale. Pensava già a questo il costruttore Piscicelli, quando la stessa notte del sisma se la rideva con un suo compare progettando cemento e affari? E perché il deputato Pdl Stracquadanio dichiarò alla Camera che «L’Aquila era una città che stava morendo indipendentemente dal terremoto, e il terremoto ne ha certificato la morte civile», se non per giustificare la deliberata distruzione del tessuto sociale? Dobbiamo dimenticare queste infamie in nome di una umiliante “pacificazione” che ci costringa all’amnesia?
È di fronte agli eventi straordinari (come il sisma) che si mettono alla prova le regole del vivere civile: perciò abbandonare L’Aquila sarebbe il sinistro prologo della morte della tutela in Italia. Almeno due volte, in un’Italia assai meno prospera di questa, L’Aquila fu abbattuta da un terremoto, e prontamente ricostruita. Il suo centro storico, tra i più preziosi d’Italia, è il frutto di un atto di fondazione, l’aggregazione di comunità di cittadini che dai “99 castelli” del territorio confluirono nel Duecento in una sola città: un gesto di sinecismo, diremo con parola greca (
synoikismos, “darsi una casa comune”). La stessa parola che per i Greci descriveva l’origine di città come Rodi o Atene. Il sinecismo dell’Aquila è il massimo esempio medievale di un processo aggregativo di natura economica, etica e civile: le singole comunità mantennero il nucleo identitario d’origine nelle chiese e nei nomi dei quartieri, così contribuendo a definire l’idea italiana di città-comunità. Perciò svuotare il centro per disseminare gli aquilani nelle campagne è un gesto violento quanto il terremoto, capovolge il sinecismo nel suo rovescio, la deportazione.
Inutilmente la formula inglese new towns tenta di dare una patina colta a questa operazione brutale. Le New Towns furono un esperimento urbanistico iniziato nel 1947 a Londra, per controllarne la crescita. Furono accuratamente pianificate a partire dagli spazi sociali, dai trasporti, da un calibrato rapporto città-campagna: l’esatto opposto di quel che offrono le bugiarde new towns di Berlusconi, che hanno devastato i suoli agricoli senza creare spazi per la vita sociale. E questo all’Aquila, dove gli Statuti medievali prescrissero agli abitanti di realizzare collettivamente, uti socii, gli spazi pubblici (la piazza, la fontana, la chiesa), prima di insediarsi uti singuli nelle loro case! Ma la scelta perversa di quel governo resiste alla prova degli anni, e le rovine della città si sommano a quelle della società, alla crescita dei disagi, della disoccupazione, delle malattie mentali. L’Aquila si allontana dall’Italia e dal mondo. Con gli aquilani, vien messa al bando dalla città la maestà della legge, la verità della Costituzione. I nostri centri storici «sono vita, non si possono perdere senza sentirsi mutilati, menomati nello spirito; le rovine sono come cicatrici dello spirito, dove rimane la cecità e l’amnesia, irrimediabile» (Calamandrei).
Perché non è stata fatta una legge speciale per L’Aquila? Perché non si possono dirottare su questa città-martire i soldi che bastano per acquistare un aereo militare, per costruire un chilometro di Tav? Le promesse di aiuto dei paesi del G8 hanno prodotto finora ben poco: ma perché non si può lanciare la ricostruzione dell’Aquila (necessaria comunque) all’insegna di un grande centro di ricerca e formazione specializzato in interventi in aree sismiche, dalla prevenzione al restauro? Un centro come questo avrebbe da subito un ruolo internazionale, contribuendo alla ricostruzione di quella che rischia di restare una Pompei del XXI secolo, ma senza trasformarla in un theme park, in una Disneyland che ne offenda la storia. Il ministro dei Beni culturali, Massimo Bray, ha dato un gran bel segnale con la sua visita all’Aquila domenica; il nuovo governo vorrà, salvando questa città in ginocchio, riaffermare la priorità costituzionale della tutela? «Non c’è più tempo per aspettare domani», dicevano (anzi gridavano) decine di cartelli nelle mani degli studenti, domenica 5 maggio.

La Repubblica 10.05.13

A rischio i lavori in 400 scuole “È colpa del patto di stabilità”, di Flavia Amabile

Quattrocento scuole potrebbero anche non poter riaprire all’arrivo del prossimo anno scolastico, è il grido d’allarme del presidente dell’Unione province italiane, Antonio Saitta. Ci sono sempre meno soldi, l’assistenza e la manutenzione degli edifici dove sono collocate le scuole superiori è sempre più difficile, ha spiegato.

Le cause sono molto chiare secondo il rappresentante dell’Upi: «Molti istituti non potranno inaugurare nel prossimo autunno le attività a causa del patto di stabilità e dei tagli imposti dalla spending review». Secondo una rilevazione effettuata dalle Province sul piano programmatico delle opere scolastiche, gli enti nel 2013 avevano definito gli impegni di spesa per gli investimenti nelle scuole per oltre 727,9 milioni di euro.

Ma, «a causa dei tagli imposti e degli obiettivi del patto di stabilità, che – ha sottolineato il presidente dell’Upi Antonio Saitta stanno azzerando la capacità di programmazione in opere e infrastrutture, le Province sono state costrette a ridurre gli impegni di 513,2 milioni di euro».

Pertanto, ha concluso il presidente dell’Upi, «potranno essere realizzate nel corso di quest’anno opere per un ammontare complessivo di soli 212 milioni di euro». Quindi, solo un terzo delle spese programmate per le opere nelle scuole superiori potrà essere realizzato.

Il grido d’allarme ha ancora maggiore rilievo se si considera che proprio la neo-ministra dell’Istruzione, Maria Chiara Carrozza, ha indicato l’edilizia scolastica come il primo tema di cui occuparsi. Ma di qui a parlare di apertura a rischio è diverso. Dal Miur, infatti, ridimensionano le parole delle province considerandole un «allarme eccessivo». Il regolare avvio delle lezioni «dipende dal personale della scuola e quello lo assegniamo noi». Del resto, aggiunge, «la situazione di 400 istituti non mette in pericolo la normale apertura dell’anno scolastico e l’avvio delle lezioni».

A sostenere la battaglia delle province, invece, ci sono i dirigenti scolastici. «Quello delle Province è un grido d’allarme assolutamente fondato e opportuno», spiega il presidente dell’Associazione nazionale presidi, Giorgio Rembado.

I dati dell’Upi parlano chiaro: a rischio ci sono 400 istituti sparsi lungo tutto lo stivale che avrebbero bisogno di interventi di manutenzione da realizzare durante l’estate. In mancanza di disponibilità immediata di fondi i lavori non verranno effettuati. Dal 2008 al 2012 – ricorda Saitta le Province hanno destinato alle scuole 10,4 miliardi di cui 8 per il funzionamento e 2,4 per investimenti in nuovi edifici, messa in sicurezza ed interventi strutturali. Dal governo, invece sono arrivati «zero euro» alle scuole e il 24% di tagli alle spese delle province per il funzionamento mentre l’Upi ha continuato a destinare «il 18% dei propri bilanci alle funzioni per le scuole».

La Stampa 10.05.13

Ghizzoni: “Apprezzabile la proposta Cancellieri, ma non basta”

Femminicidio: la ministra propone un braccialetto elettronico per controllare gli stalker. “Bene le misure per tenere sotto controllo i persecutori, ma per sconfiggere quello che è diventato un crimine di stato, servono atti che modifichino alla radice, a partire dalla scuola, un contesto diffusamente maschilista”. Questo il commento della neo vice-presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei deputati Manuela Ghizzoni alla proposta della Ministra Cancellieri.

“Ogni provvedimento per fermare il femminicidio è apprezzabile, compreso quello proposto dalla ministra Cancellieri, ma non può, e non deve, restare un atto isolato” ha dichiarato la deputata modenese Manuela Ghizzoni, vicepresidente della Commissione Cultura, scienze e istruzione della Camera dei deputati, in merito alla proposta della ministra della Giustizia di attivare un dispositivo elettronico per tenere sotto controllo gli stalker. “Ogni giorno ci troviamo di fronte a un vero e proprio bollettino di guerra: 124 donne uccise nel 2012 e 36 nei primi 4 mesi del 2013, ma la lista si allunga di giorno in giorno. Per sconfiggere quello che è diventato crimine di Stato non bastano le misure che puntano a rafforzare il controllo sui persecutori, ma servono atti che modifichino alla radice un contesto diffusamente maschilista, a partire dai percorsi educativi. E’ nella scuola che si dovrebbero formare le cittadine e i cittadini del futuro, ed è lì – spiega Ghizzoni – che le istituzioni, compresa la Commissione di cui faccio parte, devono intervenire per farsi portatori di una cultura del rispetto e della valorizzazione della storia femminile”.

I cento passi e i "trentacinque anni" di Peppino Impastato

“Fiore di campo nasce dal grembo della terra nera, fiore di campo cresce odoroso di fresca rugiada, fiore di campo muore sciogliendo sulla terra gli umori segreti”.”Sono tanti 35 anni. Una vita, ormai, dal giorno in cui Peppino Impastato venne ucciso. Consola pero’ notare come, anno dopo anno, la sua figura sia diventata sempre piu’ punto di riferimento per le nuove generazioni in cerca di riscatto. Soprattutto per coloro che, vivendo in territori difficili, a lui si ispirano per isolare mentalita’ e comportamenti mafiosi”. Cosi’, nell’anniversario dell’assassinio di Peppino Impastato, il presidente della Camera, Laura Boldrini, nel messaggio inviato al fratello Giovanni.
“Perche’- aggiunge- e’ stata questa la forza rivoluzionaria di Peppino Impastato: mettere all’angolo Cosa Nostra con un’arma di certo inedita per l’epoca, l’ironia. Meglio sarebbe dire la derisione. Ridicolizzare i rituali di cosa nostra e i suoi uomini oggi e’ una strategia contro la mafia. Allora era un atto eroico.

Peppino lo sapeva, sapeva di andare incontro a morte certa. Ma questo non lo ha fermato. Cosi’ come non si sono mai fermati, nella loro ricerca di verita’ e giustizia, i familiari e gli amici”.

“La mamma, la signora Felicia, che e’ ancora nel cuore di tutta Italia, e il fratello Giovanni. Certo, i boss che ordinarono la morte di Peppino non avevano messo in conto che, 35 anni dopo, lui sarebbe stato ancora un simbolo”, conclude Boldrini.

“Quando fu ammazzato, PeppinoImpastato aveva trent’anni e un coraggio da leone”. Il presidente del Senato Pietro Grasso, ricorda cosi’ attraverso il proprio profilo facebook, Giuseppe Impastato nel 35° anniversario della sua uccisione. “In un tempo in cui parlare di mafia era considerata eretica stramberia – continua Grasso – dai microfoni di una radio libera, come si chiamavano allora, ma piu’ libera di altre, ‘Radio aut’, lui denunciava, raccontava. Urlava contro la mafia e contro Tano Badalamenti, ‘Tano seduto’, come spesso lo chiamava. Il nove maggio 1978 veniva eseguita la sua condanna a morte. Nonostante i patetici tentativi di far passare l’esecuzione per suicidio, era evidente a tutti chi fossero gli assassini e i mandanti, eppure piu’ di venti anni furono necessari perche’ ci fossero delle condanne. Se diciamo che la sua morte e’ servita a combattere la mafia, non utilizziamo una figura retorica: dopo 35 anni si puo’ parlare di mafia senza che sembri come allora lucida follia.

Denunciare, indagare e’ sempre pericoloso, certo, ma chi lo fa non e’ piu’ solo come era solo, lui, allora. A lui hanno dedicato canzoni, spettacoli, libri, giornali e un grande film ‘I cento passi’. A lui ogni anno continua ad andare il nostro pensiero.
Grazie, Peppino”.

Centinaia di studenti, provenienti da diverse regioni, hanno sfilato sfilano a Cinisi in corteo per ricordare Peppino.
In centinaia, da diverse regioni d’Italia, stanno sfilando per il corso principale di Cinisi, urlando slogan contro la mafia e mostrando striscioni colorati dedicati a Impastato. Fino alla Casa memoria, seguendo i simbolici 100 passi che dividono la ex casa del boss Badalamenti da quella Impastato.

www.partitodemocratico.it

Roma – Tavola Rotonda Comitato Civico "Quota 96"

Pensionandi della scuola a.s. 2011/12:
dagli impegni ai fatti concreti
Roma, Teatro dell’Angelo
Via Simone de Saint Bon n. 19

Programma
➢ Saluto della Presidente Nadia Marta
➢ Cronistoria della vicenda di Q96, a cura di Antonio Pane
➢ Intervento di Manuela Ghizzoni, vicepresidente Commissione Cultura alla Camera (Pd)
➢ Intervento di Francesca Puglisi, capogruppo Commissione Cultura alla Camera (Pd)
➢ Intervento dell’on. Elena Centemero, responsabile scuola del Pdl
➢ Intervento di Manuela Serra, membro Commissione Cultura al Senato (M5S)
➢ Intervento di Michela Montevecchi , membro Commissione Cultura al Senato (M5S)
➢ Intervento di Francesco Boccia, Presidente Commissione Bilancio alla Camera (Pd)
➢ Intervento dell’avvocato Domenico Naso
➢ Dibattito con il pubblico e con la stampa