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"La questione dei salari", di Silvano Andriani

Mentre si intensifica il bombardamento contro le politiche di austerità e vengono demolite, anche ad opera del Fondo monetario internazionale, le ricerche che avevano finora dato ad esse una parvenza di scientificità, sorgono dubbi anche su una risposta alla crisi basata quasi esclusivamente su politiche monetarie ultraespansive. Politiche tipo quelle adottate dalle banche centrali statunitense, inglese ed ora anche giapponese. Ormai quasi nessuno più nega che la politica della Federal reserve sia la causa della migliore performance dell’economia statunitense rispetto a quella europea, ma il fatto è che questa enorme immissione di moneta non si traduce in un adeguato aumento della domanda e tanto meno in un adeguato aumento degli investimenti: il livello di formazione del capitale è stato nel 2012 nettamente inferiore a quello del 2007 sia negli Stati Uniti che in Europa, mentre in Giappone è rimasto ancora nettamente inferiore a quello precedente 1′ inizio della depressione negli anni 80. Tutto ciò appare ancora più sorprendente quando, come in Usa, Inghilterra e Germania a causa dei bassissimi tassi di interessi e di un blocco delle retribuzioni che dura da anni gli utili delle imprese hanno raggiunto record storici. Ma piuttosto che aumentare gli investimenti le imprese preferiscono usare i surplus in altro modo. Le imprese statunitensi, ad esempio, hanno usato gran parte degli utili per acquistare azioni proprie facendone salire le quotazioni o per acquistare altre imprese: esse nel 2012 hanno acquistato 400 miliardi di azioni proprie ed hanno speso ben 1600 miliardi per acquisizioni di nuove imprese. Il riacquisto di azioni proprie da parte delle imprese e la tendenza delle banche ad usare, a causa del proprio inadeguato livello di capitalizzazione, l’enorme liquidità che viene loro offerta dalle banche centrali non per finanziare l’economia reale, ma per acquistare titoli è alla base della straordinaria dicotomia fra andamento dei mercati finanziari le cui quotazioni hanno dovunque raggiunto livelli record a l’andamento generalmente negativo dell’economie reali, che lascia temere la formazione di nuove bolle speculative. Le imprese sono piene di liquidità, quelle statunitensi ne posseggono, secondo The Economist, 1800 miliardi di dollari e quelle europee 1000 miliardi di euro, ma non investono adeguatamente in quanto esse, per dirla sempre con The Economist, «trovano difficile accrescere organicamente i profitti vendendo più beni», il che semplicemente vuol dire che il problema è il livello della domanda. Chiunque ormai dovrebbe sapere che un imprenditore non aumenta la capacità produttiva perché ha fatto buoni profitti o perché i tassi di interesse sono bassi, lo fa se ritiene che ci sarà un aumento della domanda e con le politiche di austerità prospettive di aumento non se ne vedono. Ma questo è un problema che dura da tempo. Da tempo il blocco generalizzato delle retribuzioni nei Paesi avanzati, cioè il fatto che il reddito della maggioranza delle famiglie non aumentava, ha creato problemi di domanda; essi sono stati aggirati consentendo, con politiche monetarie permanentemente espansive e politiche creditizie corrive, un pesante indebitamento delle famiglie, indebitamento che poi è all’origine della crisi finanziaria. Rilanciare un tale meccanismo sarebbe molto pericoloso, anche se in parte ciò sta avvenendo: in Usa sono ripartiti i mutui subprime e nel 2012 essi sono aumentati del 30% rispetto all’anno precedente. Il collegamento dell’aumento delle retribuzioni reali all’aumento della produttività fu stabilito per primo da H. Ford che capì che senza un aumento della domanda da salari la formidabile crescita della produttività generata dalla meccanizzazione dei processi produttivi non sarebbe stata sostenibile. Tale collegamento diventò, attraverso le politiche dei redditi, un canone della politica economica riformista, elaborata soprattutto dai governi socialdemocratici scandinavi che si diffuse poi in tutti i Paesi avanzati. Basta dare un occhiata ai dati per vedere che nei «trenta anni gloriosi», successivi alla Seconda guerra mondiale, mentre si diffondevano in tutti i Paesi avanzati i consumi di massa e si edificavano le strutture dello stato sociale, livello del debito pubblico e di quello delle famiglie rispetto al prodotto lordo non sono aumentati. È inutile nascondersi dietro un dito, bisogna tornare a parlare di distribuzione del reddito. Non si può pensare che la domanda possa crescere sempre e soltanto attraverso il bilancio pubblico o immettendo grandi quantità di moneta che non si sa bene chi dovrebbe usare. Anche la metafora del denaro sganciato dagli elicotteri sulla gente, inventata a suo tempo da M. Friedman, può alla fine servire ad eludere il problema. Del resto in Inghilterra il dibattito, per merito del Labour Party, sta focalizzandosi sulla pre-distri budon, cioè sulla distribuzione del prodotto tra capitale e lavoro. Adottare politiche dei redditi mantenendo un accettabile grado di liberalizzazione dei mercati richiede un coordinamento sovranazionale delle politiche distributive e, per quanto più direttamente ci riguarda, di quelle dei Paesi europei. Oggi non tutti i Paesi dell’Unione potrebbero adottare lo stesso collegamento tra salari e produttività, esso andrebbe differenziato tra Paesi creditori e Paesi debitori, ma coordinate in modo da assicurare una crescita della domanda e la riduzione dei divari di competitività fra i diversi Paesi. Meraviglia che finora questo argomento non sia entrato a fare parte nell’agenda europea; prima vi entrerà meglio sarà.

L’Unità 10.05.13