attualità, partito democratico

"Pd, non si parli solo di nomi", di Alfredo Reichlin

Non ho nostalgia per il passato. Sbaglia chi pensa che, per affrontare una crisi così profonda, coloro che si considerano di sinistra (e io sono tra questi) devono tornare alla vecchia casa. Al contrario, più passa il tempo più io sento, in modo persino assillante, il bisogno di un partito nuovo. E, al tempo stesso, sento non l’ingombro ma la forza delle grandi storie da cui veniamo: quella del socialismo e quella del cattolicesimo sociale, una fede che si fa politica per realizzare qualcosa della missione del cristiano. Ma non scherziamo. Basta con gli sberleffi. Sono queste due correnti profonde che hanno fatto l’Italia moderna e che hanno dato al nostro popolo l’impronta più nobile e più umana. L’hanno trasformato da plebe in cittadini, hanno riconciliato gli sfruttati con la nazione. Di che cosa ci dobbiamo vergognare? Alziamo la testa e chiediamoci noi, seriamente e liberamente, perché da questo straordinario materiale di storia e di valori non è uscito un amalgama più forte.

La mia opinione è che sono mancate le idee forti. Le divisioni e i giochi di potere non sono la causa, ma la conseguenza. Ho sempre pensato, e ne sono sempre più convinto, che non si affrontano le sfide così grandi del nostro tempo se questo partito si schiaccia troppo sui notabili ossessionati dall’ultima dichiarazione dei giornali e dominati dall’ansia del gradimento elettorale. È dalle grandi cose che dobbiamo ripartire, cioè da una presa di coscienza più alta della realtà in cui viviamo. Le risse non servono a niente anche perché nessuno è innocente. Bisogna invece guardarsi intorno per capire che tutto chiede una soggettività e una cultura politica che vadano oltre i nostri vecchi confini. Basta leggere i risultati elettorali (il voto grillino sommato agli astenuti supera il 50 per cento) per capire quanto lo smarrimento sia profondo e per rendersi conto dei rischi per la democrazia.

Condivido quindi la scelta di non lasciare il Paese senza governo. Ma resta la necessità di calarsi nel tessuto dei valori e dei rapporti sociali e culturali che costituiscono l’unità della nazione. Governo e società: tenere insieme le due cose. Dare risposte a bisogni vitali di futuro e di affermazione di sé dei giovani e dei ceti laboriosi. Questo è il compito nostro.

Certo, l’intreccio delle cose è molto complesso. Prendiamo la gravità e la novità della questione sociale. Essa resta il nostro compito centrale, la ragione fondante del Pd. Ma una volta sapevamo chi erano i padroni e che per colpirli ci volevano gli scioperi e l’occupazione dei feudi. Chi sono oggi i padroni? È in larga parte il potere finanziario, il quale però si può muovere liberamente in uno spazio mondiale e ha un potere di ricatto enorme. Pensiamo alle banche da cui tutto dipende e all’immenso armamentario mediatico che martella le menti, tutti i giorni, dalla mattina alla sera con la grande menzogna, secondo cui chi strozza l’impresa e il lavoro non è l’attuale sempre più ingiusta distribuzione del potere e della ricchezza. No. È la corruzione della politica (che pure esiste). E perciò un povero disgraziato con chi se la deve prendere? Non con chi è anche il proprietario della tv che ci dileggia, bensì «con i politici che rubano». Ecco come politica, società, potere e informazione si sono intrecciate nel modo più perverso. Non basta essere contro Berlusconi. Bisogna affrontare la potenza di questo più vasto «blocco storico».

Non nego che il Pd abbia fatto molti errori. Ma ciò su cui dobbiamo essere d’accordo è che alla base della sua crisi ci sono i grandi cambiamenti in Italia e nel mondo che non abbiamo saputo fronteggiare. L’euro ci ha consentito di non rimanere fuori dall’Europa e, quindi, dalla lotta per i nuovi assetti del mondo scatenati da quella cosa fondamentale che è lo spostamento della ricchezza del Vecchio mondo verso i Paesi nuovi. Ma il fatto che il processo di integrazione politica dell’Europa non sia andato avanti ha penalizzato particolarmente l’Italia esponendola agli assalti speculativi dei mercati finanziari. Non sottovalutiamo il fatto che la cosiddetta «economia del debito», cioè del denaro fatto creando moneta virtuale ha eroso le basi stesse del patto sociale.

Nessuno lo dice ma è qui che sta l’origine della crisi morale. Ed è per questo che la crisi italiana è diventata tale da rimettere in discussione alcuni degli equilibri di fondo su cui si era costruita l’unificazione del Paese. Io non capisco come si possa parlare di politica senza parlare di queste cose. Di che politica parliamo se non riusciamo a diradare il buio profondo che è calato sulle nostre prospettive? Siamo al rischio di emarginazione dei nostri figli dal futuro, un futuro mondiale nuovo che in ogni caso si va costruendo, senza di noi, con evidenti conseguenze sulla tenuta della nostra compagine nazionale e uno smarrimento dell’identità stessa e del destino della Nazione.

Discuteremo di queste cose al congresso o parleremo solo delle persone? Stiamo attenti perché il congresso è anche una grande occasione. Noi siamo di fronte a problemi per certi aspetti analoghi a quelli in cui ci trovammo dopo il fascismo. L’analogia, ovviamente, sta solo in ciò: nel nesso molto forte tra rifondare il partito per ricostruire l’Italia, e ricostruirla ridisegnando in qualche misura anche il suo profilo. Di questo tipo di congresso abbiamo bisogno oggi. Di un grande congresso. Per carità, non voglio parlare del Pci. Penso al congresso di Napoli della Dc, il congresso di Moro che traduceva in disegno politico il lungo e straordinario lavoro di Andreatta, Saraceno e del convegno di San Pellegrino. So bene che la situazione di oggi è molto diversa e molto più difficile. Vorrei solo che il nuovo segretario – chiunque sia – abbia per lo meno questa idea in testa: rifondare il Pd per ricostruire l’Italia. Non facciamoci fare il congresso dai giornali. Noi non andremo da nessuna parte se non abbiamo l’orgogliosa convinzione che non si possono affrontare i problemi della società italiana se non sulla base di una nuova idea di solidarietà e di giustizia. L’Italia ha bisogno di un «patto civile» per un Paese più giusto, e un Paese più giusto è anche fondamentale per la crescita. Smettiamola quindi di piangerci addosso. I fallimenti della destra sono catastrofici. La vecchia idea berlusconiana dello sviluppo affidato alle scelte dell’oligarchia finanziaria e al consenso delle piccole imprese e dei ceti popolari ricercato con i bassi salari, l’evasione fiscale e la cultura televisiva ha portato l’Italia al disastro. È vero, Berlusconi conta ed esercita ricatti. Ma io temo che egli conti nella misura in cui noi parliamo solo di lui, e non diciamo la nostra sull’avvenire.