attualità, politica italiana

"La storia non si calpesta", di Adriano Prosperi

Ci sarebbe stato da meravigliarsi se la torrenziale creatività del leader del M5S non avesse colto la ricorrenza per portare avanti la sua strategia di delegittimazione di ogni altra forza politica. Non possiamo dimenticare che grazie alla sua scelta della contrapposizione totale a tutte le altre forze politiche presenti in Parlamento è fallita sul nascere la prospettiva di un governo di cambiamento. Ora, è pur vero che ci sono molte ragioni per non essere contenti del modo di andare delle cose nel nostro paese. Le battaglie del rinnovo del Parlamento e quelle per la elezione del presidente della Repubblica alle quali affidavamo tante speranze hanno avuto esiti imprevisti e inimmaginabili. Quella che sembrava l’occasione per mettere finalmente tra parentesi la stagione dell’amministrazione controllata del paese e per un nuovo avvio della normale dialettica politica, fondata sulla regola democratica del voto popolare, si è risolta in uno scontro lacerante: è stata una partita avvelenata dove veti incrociati, giochi sotterranei e inettitudini varie hanno avuto l’esito di far vincere chi partiva perdente e aveva tutto da guadagnare dal fallimento delle speranze di cambiamento.
Tutto questo ha lasciato tracce profonde e ha aperto una fase di rese dei conti soprattutto ma non solo in casa del vincitore atteso e mancato della gara elettorale, il centrosinistra. Ne siamo usciti con una dose abbondante di quel sentimento di vergogna che è sempre il termometro del senso di appartenenza al proprio paese. Ci sono ira, frustrazione e disgusto davanti a quella che resterà come una delle più brutte e inconcludenti pagine della cronaca politica degli ultimi anni. Anche perché la malattia mortale dei partiti lascia scoperti e indifesi coloro che più hanno bisogno di vedere affermati e tutelati i principi della Costituzione. Laura Boldrini lo ha ricordato ancora ieri a Milano. quando ha detto che «nessuno deve essere lasciato solo perché anche così si difende la democrazia».
Bastano parole come queste a dimostrare che le celebrazioni del 25 aprile non sono — come dice Grillo — «un rito ruffiano». Il ricordo delle lotte e delle sofferenze che sono state necessarie per conquistare il diritto di celebrare liberamente sulle piazze il 25 Aprile come data fondativa della Repubblica serve a ricondurre ai suoi fondamenti la convivenza civile. Questo non è mai stato e non deve diventare un rito vuoto e distratto: né la festa può far dimenticare il senso di frustrazione davanti alle delusioni del presente. Ma proprio di qui si può ripartire, come ogni volta che si deve tornare al fondamento ultimo del nostro essere una nazione.
Di questi sentimenti di frustrazione e di diffusa perplessità Grillo fa un uso strumentale talmente scoperto che non meriterebbe soffermarcisi se non fosse che il disorientamento del paese è grande e tanti rischiano di cadere nella trappola di chi come lui gioca all’eversione controllata. Sarà utile dunque ricordare che se c’è stato il 25 aprile e se è stata necessaria una lunga e durissima stagione di lotte e di sofferenze è perché un demagogo tonitruante sulle piazze aveva sfruttato la delusione per le bassezze dei giochi parlamentari liberal-democratici e la gravità delle ingiustizie sociali per mettere l’arbitrio di pochi al posto della libertà di tutti.
Tragedie antiche che — diciamolo con chiarezza — non si possono accostare oggi alla farsa recitata da un attore abile e consumato, del quale non vorremmo sopravvalutare le minacce eversive, come quella, subito rientrata, di una possibile «marcia su Roma».
Sappiamo bene, però, che il pericolo di messa tra parentesi del sistema democratico assume oggi forme nuove e più insidiose che nel passato e ha le sue radici proprio nella crisi profonda del sistema dei partiti che dalla Liberazione in poi hanno costituito la struttura fondamentale per il funzionamento della Costituzione e l’esercizio dei diritti di cittadinanza. La celebrazione del 25 Aprile trova un suo profondo significato proprio nell’imporre a tutti di fare i conti con la lezione del passato. Un passato da non dimenticare, una storia collettiva che non si può calpestare. Da lì si ricavano alcuni principi elementari. Per esempio, quello per cui nessuno deve porsi al di fuori o al di sopra dei meccanismi costituzionali della competizione politica. E questo significa intanto che nessuno può pretendere di essere riconosciuto come l’unico capace di onorare e far rivivere la sacralità del 25 Aprile e il suo deposito di valori, denunziando tutti gli altri come infami traditori. A Reggio Emilia una senatrice del movimento grillino avrebbe dichiarato: «I nuovi partigiani siamo noi». Che pena non conoscere la storia: è una frase che nell’Italia del post-terrorismo fa amaramente sorridere se si pensa quale prezzo abbiamo pagato già una volta con un accostamento così tragico.

La Repubblica 26.04.13