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"I limiti dell'emergenza", di Ezio Mauro

Una cornice drammatica più che solenne ha accompagnato ieri il giuramento di fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica di Giorgio Napolitano, appena rieletto capo dello Stato. Il vecchio Presidente si è commosso più volte durante il suo discorso davanti alle Camere riunite in seduta comune. Ma lui stesso ha voluto richiamare il dramma di una politica che 56 giorni dopo il voto non riesce a dar forma alle istituzioni democratiche e dopo cinque votazioni nulle, «in un clima sempre più teso», deve richiamare in servizio il capo dello Stato uscente, con uno strappo alla prassi costituzionale pienamente legittimo «ma eccezionale»: giustificato solo dal rischio di un avvitamento del sistema nel vuoto di un Parlamento indeciso a tutto.
Napolitano vede dunque la sua rielezione come la scelta estrema di un mondo politico prigioniero dell’impotenza, incapace di autonomia nelle sue scelte, protagonista davanti ad un Paese disincantato di uno spettacolo inconcludente. Ma qui il Presidente sceglie di dare al suo secondo mandato un tono di denuncia esplicita, con un atto d’accusa preciso ai partiti, ai loro dirigenti, ai governi, ai parlamentari, chiamati in causa davanti ai cittadini «per una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità».
L’elenco è impietoso. Nessuna risposta decente alle richieste di rinnovamento della politica e dei partiti, prima di tutto: e se anche questi ritardi sono stati ingigantiti da campagne distruttive perché invitavano a non distinguere, facendo di ogni erba un fascio, nessuna «autoindulgenza » è possibile per questi continui «nulla di fatto», anzi i loro responsabili sono colpevoli quanto i protagonisti di atti di corruzione.
La colpa più “imperdonabile” è naturalmente la rinuncia a cambiare la legge elettorale del “porcellum”, con quel premio sproporzionato nel regalo di una “sovra-rappresentanza” che il Pd non è riuscito a governare, e con l’impossibilità per i cittadini elettori di scegliere i loro rappresentanti. Il Presidente si chiama fuori da queste responsabilità del sistema ricordando la sua insistenza per le riforme, che i partiti hanno ignorato. Ma avverte che davanti all’emergenza le cose cambieranno: «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese».
È un programma per il nuovo mandato che durerà finché dureranno la crisi e le forze del Presidente. Ma il capo dello Stato, rifiutando pretese “salvifiche” e imponendosi anzi dopo la rielezione un particolare “senso del limite”, intende giocare un ruolo preciso nella crisi del meccanismo politico e istituzionale, incalzando i partiti e spingendoli verso quelle riforme sempre promesse, mai realizzate e ormai indispensabili per la sopravvivenza del sistema.
Un impianto “pertiniano”, se non fosse per la crisi di fiducia che cresce attorno al Parlamento e ai partiti, al loro distacco dai cittadini, alla drammatica questione sociale aperta attorno al tema capitale del lavoro e della prospettiva di futuro. Qui Napolitano si è rivolto anche ai grillini, spiegando come predicare un cambiamento disincarnato da questi problemi serva a poco, come la nuova battaglia politica si giochi dentro le Camere e non contrapponendo piazza e Parlamento, oppure rete e partiti, perché è nei partiti che in tutto il mondo si gioca la vera partecipazione democratica dei cittadini.
Al centro di questa cornice d’emergenza, c’è un governo d’emergenza. Napolitano non mette nemmeno in dubbio che il governo possa nascere. Anzi, intende vararlo senza indugio, senza badare alle formule e puntando solo alla fiducia delle due Camere. Ai partiti ha detto con durezza che i risultati elettorali possono piacere o no, ma non si possono cambiare: e quei risultati dicono che nessun partito o coalizione può governare con le sue sole forze. Dunque, qualunque patto si sia fatto con gli elettori, per il Presidente c’è oggi la «necessità » tassativa di «intese tra forze diverse» per far nascere un esecutivo. L’alternativa è una dichiarazione di ingovernabilità. Non è però per questo che ho accolto l’invito a prestare un nuovo giuramento da Presidente, dice Napolitano, ma per dare un governo al Paese. Dunque un programma esplicito, con qualcosa di più: la conferma che “la posta implicita” dell’invito alla riconferma per il capo dello Stato uscente era l’impegno delle forze politiche a prendersi «le loro responsabilità ».
Il quadro in cui si muoverà il Presidente è dunque chiaro. Interventismo sulle riforme del sistema e della politica, pressing pubblico sui partiti perché si arrivi ad una soluzione condivisa di governo. Napolitano denuncia «l’orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni e convergenze tra forze diverse» come «segno di una regressione», di tipo politico e culturale, ricordando che in Europa non c’è oggi nessun Paese governato da un solo partito.
La strada della nuova legislatura è quindi tracciata, il vuoto della politica e la sua inconcludenza – di cui sono colpevoli tutti gli schieramenti che si sono confrontati inutilmente in questi 56 giorni – produrrà un governo largo, basato sul programma dei “saggi” che Napolitano rivendica, cercando di mettere mano alla legge elettorale, alle misure capaci di dare un po’ di respiro all’economia e al dramma del lavoro, sapendo che il rischio Italia sta di nuovo risalendo in Europa e in particolare in Germania. Governissimo, governo delle larghe intese, governo di scopo, governo del Presidente? Napolitano ha detto di lasciar da parte le formule e le denominazioni, ma è chiaro che ognuna di queste soluzioni comporta gradi diversi di coinvolgimento dei partiti-avversari di destra e di sinistra, e dunque gradi diversi di difficoltà, in particolare per il Pd, che non regge una vera intesa con Berlusconi, dopo averlo combattuto per vent’anni denunciando la sua anomalia.
Resta dunque il problema delle identità dei partiti da preservare, delle differenze da salvaguardare, delle opinioni pubbliche di riferimento da considerare, soprattutto nei momenti in cui i gruppi dirigenti perdono autorità e prestigio, come capita in queste settimane al Partito democratico. Gruppi parlamentari senza guida e senza bussola si possono indirizzare, soprattutto davanti al rischio di scioglimento, partiti esausti e leadership estenuate dagli errori si possono convincere. Ma rimangono le opinioni pubbliche, che contano sempre di più, e che conservano a dispetto delle sconfitte e delle delusioni un sentimento vivo delle identità politiche, delle necessità, delle opportunità ma anche delle incompatibilità. A questi cittadini bisogna parlare, e non esclusivamente al ceto politico, se non si vuole soltanto spostare la crisi dal rapporto tra i partiti e lo Stato al rapporto tra i partiti e la loro base. E di loro bisogna tener conto, se si vuole ristabilire un circuito di fiducia tra gli italiani e il sistema politico- istituzionale.
Il compito del capo dello Stato si annuncia dunque difficile, più che nel primo mandato. Il suo impegno a formare il governo è il sentimento di un dovere, e va guardato con rispetto, anche perché la gestione di questo dovere deve rispettare a sua volta l’autonomia delle culture politiche, trovando soluzioni utili al Paese e valide anche per la sopravvivenza di un rapporto fiduciario tra i partiti e la loro gente: che non è un bene secondario, in un Paese smarrito.

La Repubblica 23.04.13

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“Sette anni dopo un bis senza gioia”, di FILIPPO CECCARELLI

ERA sempre un lunedì, ma senza nuvole, né pioggia, né le timide schiarite capricciose di ieri. Anche allora era primavera, 15 maggio 2006, ma quanto più dolce e sereno il clima! In tutti i sensi.
A MONTECITORIO Giorgio Napolitano giurò con voce tonante e solo a fine serata, nel cortile del Quirinale, brevemente si commosse, ma forse più che per lui fu per l’intensità dell’addio a Ciampi, che primo fra tutti l’aveva voluto sul Colle. Stava per compiere 81 anni, ma almeno in foto ne mostrava alcuni di meno. Oggi le agenzie riportano che è arrivato all’Altare della Patria «salendo le tante scale». A giugno gli anni saranno 88, e la questione anagrafica, il modo in cui il presidente della Repubblica ne ha parlato ieri pomeriggio alla Camera, s’imprime nella memoria per l’eleganza e la sincerità del tratto.
A volte gli archivi dei giornalisti trasmettono l’inconsapevole rimpianto della cronaca, ma anche – senza volerlo – la crudezza del presente. Così la prima elezione di Napolitano è un evento, se non gioioso, certo lieto nella sua compostezza, anche sul piano politico. Commentò Cossiga, uscendo dall’aula con un sorriso pensoso: «Il socialcomunismo è arrivato in pace e libertà al vertice delle istituzioni».
E neanche a dire che la situazione, pure allora, fosse tranquilla e distesa. Il centrosinistra di Prodi aveva vinto le elezioni con appena ventimila voti di vantaggio. Eleggere i presidenti della Camera e del Senato, soprattutto, non era stato né facile, né decoroso. Eppure, a rileggere gli articoli e anche solo a osservare le immagini, le figure, i titoli delle notiziole di colore, era quella un’Italia che si fidava ancora un po’ di se stessa e quindi anche del suo nuovo presidente – per quanto passato a maggioranza.
Quindi la festa dei vicini di casa, tra cui il «macellaio rosso» del rione Monti, Stecchiotti, detto «Pol-pet», e il fioraio, e il barista, e perfino il clochard, Angelo, che dormiva in un’auto sotto casa di Napolitano, auto fatta sgomberare dopo l’elezione, ma il giorno stesso tornata al suo posto per intervento presidenziale. E l’allegra sorpresa dei paesi delle vacanze del personaggio, da Capri a Stromboli a Capalbio; e l’orgogliosa felicità degli abitanti di Partenope, con l’immancabile terno personalizzato (13-81-88); e perfino il rianimarsi dell’«antica leggenda giornalistica» secondo cui il nuovo Capo dello Stato si dilettava a scrivere e a pubblicare raffinate poesie in napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, con risoluta smentita quirinalizia, ma pazienza.
Il discorso del neo-eletto fu piuttosto istituzionale, ovvero tradizionale, farcito com’era di citazioni di illustri figure: De Nicola, Einaudi, Croce, Martino, più il binomio De Gasperi-Togliatti, un accenno alla Jotti, un altro all’europeismo
di Spinelli, quindi un omaggio a Ciampi e uno a Papa Ratzinger. Ma molto meno bello e toccante, va anche detto, di quello pronunciato ieri, che rispecchia nettamente un’Italia accoratissima, sull’orlo del disastro, non solo istituzionale.
Al giorno d’oggi sette anni sono un’infinità. E se lo scampanio che risuonava in cima a Montecitorio all’arrivo del rieletto presidente non servisse anche, per antica credenza, a tenere lontani i diavoli, la più desolante e demoniaca
delle tentazioni sarebbe quella di pensare che il suo primo settennato è passato invano e a nulla è servito.
Allora Napolitano fece appello in definitiva alla «maturità» della classe politica, auspicando una «adulta» democrazia dell’alternanza. Quelli che oggi in Parlamento fin troppo l’applaudivano ascoltando la sua rampogna sono senza dubbio da considerarsi i traditori di quell’auspicio e quell’appello. E tuttavia l’hanno invocato e rieletto «come una figura paterna per amministrare la giustizia tra loro, per stabilire una tregua».
L’analisi è del professor Gustavo Pietropolli Charmet, psicoterapeuta di formazione psicoana-litica, uno dei massimi studiosi dei codici affettivi e specialista dell’età evolutiva: «Quello che resta del Padre nella società italiana è questa figura incarnata da Giorgio Napolitano – ha spiegato ieri a www.doppiozero.com – Un uomo, un padre che difende la Madre Patria dagli eccessi dei figli ebbri di potere e di vanagloria. La sua rielezione contiene questa indicazione: state calmi, prendiamo tempo per svelenire i conflitti,
diamo il potere di amministrare la giustizia a un fratello maggiore, poi vedremo cosa fare di questa eredità che volete spartirvi in modo cruento».
Ecco, vorrà anche dire qualcosa che oggi, per spiegare la politica, tornano utili gli psichiatri. Sette anni orsono il premier uscente Silvio Berlusconi ascoltò il discorso del Capo dello Stato a braccia conserte, concedendogli un paio di tiepidi applausi. Poco dopo dovette anche accompagnarlo all’Altare della Patria, di malavoglia, con la famosa Flaminia decappottabile – e fu ipotizzato dai soliti maligni giornalisti che per non sfigurare rispetto a Napolitano il Cavaliere sedeva su un apposito cuscino.
Ieri nessuna specialissima automobile d’epoca ha condotto Napolitano in giro per la città, e solo quattro motociclisti invece del coreografico squadrone che accompagnava i suoi predecessori. Vuol dire che la Repubblica si è messa a dieta anche sul piano cerimoniale. Ed è anche questa una novità drammatica e significativa, forse addirittura da accogliere con gratitudine, perché quando tutto va a scatafascio i riti enfatizzano il vuoto e le magagne.
Nel maggio radioso del 2006 sembrò che Giorgio Napolitano, primo della classe per natura e vocazione, non avesse fatto altro che le prove per diventare quello che era diventato. Nell’aprile tempestoso del 2013 l’anziano presidente dà corpo né più né meno che all’Autorità – là dove la maiuscola esprime la perduta dignità, ma anche la speranza di tenersela
stretta.

La Repubblica 23.04.13

"Basta formule e chiacchiere è l'ora di tornare alla realtà", di Giorgio Napolitano

Ecco i brani-chiave del discorso di insediamento del presidente alle Camere.
GRATITUDINE PER LA RIELEZIONE
«Lasciatemi innanzitutto esprimere — insieme con un omaggio che in me viene da molto lontano alle istituzioni che voi rappresentate — la gratitudine che vi debbo per avermi con così largo suffragio eletto Presidente della Repubblica. E’ un segno di rinnovata fiducia che raccolgo comprendendone il senso, anche se sottopone a seria prova le mie forze: e apprezzo in modo particolare che mi sia venuto da tante e tanti nuovi eletti in Parlamento, che appartengono a una generazione così distante, e non solo anagraficamente, dalla mia. E l’affetto e la fiducia dei cittadini che ho visto in questi ani crescere verso di me e verso l’istituzione che rappresento».
NON PREVEDEVO DI TORNARE IN QUEST’AULA
«Avevo già nello scorso dicembre pubblicamente dichiarato di condividere l’autorevole convinzione che la non rielezione, al termine del settennato, è “l’alternativa che meglio si conforma al nostro modello costituzionale di Presidente della Repubblica”. Avevo egualmente messo l’accento sull’esigenza di dare un segno di normalità e continuità istituzionale con una naturale successione nell’incarico di Capo dello Stato. A queste ragioni e a quelle più strettamente personali, legate all’ovvio dato del-l’età, se ne sono infine sovrapposte altre, rappresentatemi — dopo l’esito nullo di cinque votazioni in quest’aula di Montecitorio, in un clima sempre più teso — dagli esponenti di un ampio arco di forze parlamentari e dalla quasi totalità dei presidenti delle Regioni».
DRAMMATICO ALLARME
«E’ emerso da tali incontri, nella mattinata di sabato, un drammatico allarme per il rischio ormai incombente di un avvitarsi del Parlamento in seduta comune
nell’inconcludenza, nella impotenza ad adempiere al supremo compito costituzionale dell’elezionedelCapodelloStato.Diqui l’appello che ho ritenuto di non poter declinare — per quanto potesse costarmi l’accoglierlo — mosso da un senso antico e radicato di identificazione con le sorti del paese».
UNA LUNGA SERIE DI GUASTI E OMISSIONI
«A questa prova non mi sono sottratto. Ma quanto è accaduto qui nei giorni scorsi ha rappresentato il punto di arrivo di una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità. Negli ultimi anni hanno finito per prevalere contrapposizioni, lentezze, esitazioni circa le scelte da compiere, calcoli di convenienza, tatticismi e strumentalismi. Quel tanto di correttivo e innovativo che si riusciva a fare nel senso della riduzione dei costi della politica, della trasparenza e della moralità nella vita pubblica è stato dunque facilmente ignorato o svalutato: e l’insoddisfazione e la protesta verso la politica, i partiti, il Parlamento, sono state con facilità (ma anche con molta leggerezza) alimentate e ingigantite da campagne di opinione demo-litorie, da rappresentazioni unilaterali e indiscriminate in senso distruttivo del mondo dei politici, delle organizzazioni e delle istituzioni in cui essi si muovono. Attenzione: quest’ultimo richiamo che ho sentito di dover esprimere non induca ad alcuna autoindulgenza, non dico solo i corresponsabili del diffondersi della corruzione nelle diverse sfere della politica ma nemmeno i responsabili di tanti nulla di fatto nel campo delle riforme».
IMPERDONABILE LA MANCATA RIFORMA ELETTORALE
«Imperdonabile resta la mancata
riforma della legge elettorale del 2005. Ancora pochi giorni fa, il Presidente della Consulta Gallo ha dovuto ricordare come sia rimasta ignorata la raccomandazione della Corte Costituzionale a rivedere in particolare la norma relativa all’attribuzione di un premio di maggioranza senza che sia raggiunta una soglia minima di voti o di seggi. La mancata revisione di quella legge ha prodotto una gara accanita per la conquista, sul filo del rasoio, di quell’abnorme premio, il cui vincitore ha finito per non riuscire a governare una simile sovra-rappresentanza in Parlamento. Ed è un fatto, non certo imprevedibile, che quella legge ha provocato un risultato elettorale di difficile governabilità, e suscitato nuovamente frustrazione tra i cittadini per non aver potuto scegliere gli eletti».
DI FRONTE A SORDITA’ TRARRO’ LE CONSEGUENZE
«Ho il dovere di essere franco: se mi troverò di nuovo dinanzi a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze dinanzi al paese. Non si può più, in nessun campo, sottrarsi al dovere della proposta, alla ricerca della soluzione praticabile, alla decisione netta e tempestiva per le riforme di cui hanno bisogno improrogabile per sopravvivere e progredire la democrazia e la società italiana». Non meno imperdonabile il nulla di fatto in materia di sia pur limitate e mirate riforme della seconda parte della Costituzione ».
I DOCUMENTI DEI GRUPPI DI LAVORO DEI SAGGI
«I loro sono documenti di cui non si può negare la serietà e concretezza. Anche perchè essi hanno alle spalle elaborazioni sistematiche non solo delle istituzioni
in cui operano i componenti dei due gruppi, ma anche di altre istituzioni e associazioni qualificate. Se poi si ritiene che molte delle indicazioni contenute in quei testi fossero già acquisite, vuol dire che è tempo di passare, in sede politica, ai fatti; se si nota che, specie in materia istituzionale, sono state lasciate aperte diverse opzioni su vari temi, vuol dire che è tempo di fare delle scelte conclusive. E si può, naturalmente, andare anche oltre, se si vuole, con il contributo
di tutti».
NO CONTRAPPOSIZIONE PIAZZA-PARLAMENTO
«Apprezzo l’impegno con cui il movimento largamente premiato dal corpo elettorale come nuovo attore politico- parlamentare ha mostrato di volersi impegnare alla Camera e al Senato, guadagnandovi il peso e l’influenza che gli spetta: quella è la strada di una feconda, anche se aspra, dialettica democratica e non quella, avventurosa e deviante, della contrapposizione tra piazza e Parlamento. Non può, d’altronde, reggere e dare frutti neppure una contrapposizione tra Rete e forme di organizzazione politica quali storicamente sono da ben più di un secolo e ovunque i partiti. La Rete fornisce accessi preziosi alla politica, inedite possibilità individuali di espressione e di intervento politico e anche stimoli all’aggregazione e manifestazione di consensi e di dissensi. Ma non c’è partecipazione realmente democratica, rappresentativa ed efficace alla formazione delle decisioni pubbliche senza il tramite di partiti capaci di rinnovarsi o di movimenti politici organizzati, tutti comunque da vincolare all’imperativo costituzionale del “metodo democratico” ».
NECESSITA’ TASSATIVA DI INTESE
«A 56 giorni dalle elezioni del 24-25 febbraio — dopo che ci si è dovuti dedicare all’elezione del Capo dello Stato — si deve senza indugio procedere alla formazione dell’Esecutivo. Non corriamo dietro alle formule o alle definizioni di cui si chiacchiera. Al Presidente non tocca dare mandati, per la formazione del governo, che siano vincolati a qualsiasi prescrizione se non quella voluta dall’art. 94 della Costituzione: un governo che abbia la fiducia delle due Camere. Ad esso spetta darsi un programma, secondo le priorità e la prospettiva temporale che riterrà opportune. E la condizione è dunque una sola: fare i conti con la realtà delle forze in campo nel Parlamento da poco eletto, sapendo quali prove aspettino il governo e quali siano le esigenze e l’interesse generale del paese. Sulla base dei risultati elettorali — di cui non si può non prendere atto, piacciano oppur no — non c’è partito o coalizione (omogenea o presunta tale) che abbia chiesto voti per governare e ne abbia avuti a sufficienza per poterlo fare con le sole sue forze. Qualunque prospettiva si sia presentata agli elettori, o qualunque patto — se si preferisce questa espressione — si sia stretto con i propri elettori, non si possono non fare i conti con i risultati complessivi delle elezioni. Essi indicano tassativamente la necessità di intese tra forze diverse per far nascere e per far vivere un governo oggi in Italia, non trascurando, su un altro piano, la esigenza di intese più ampie, e cioè anche tra maggioranza e opposizione, per dare soluzioni condivise a problemi di comune responsabilità istituzionale».
SI E’ DIFFUSO L’ORRORE PER OGNI FORMA DI ALLEANZA
«Il fatto che in Italia si sia diffusa una sorta di orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni, convergenze tra forze politiche diverse, è segno di una regressione, di un diffondersi dell’idea che si possa fare politica senza conoscere o riconoscere le complesse problematiche
del governare la cosa pubblica e le implicazioni che ne discendono in termini, appunto di mediazioni, intese, alleanze politiche. O forse tutto questo è più concretamente il riflesso di un paio di decenni di contrapposizione — fino allo smarrimento dell’idea stessa di convivenza civile — come non mai faziosa e aggressiva, di totale incomunicabilità tra schieramenti politici concorrenti. Serve la ricerca di soluzioni condivise, quando se ne imponga la necessità. Altrimenti si dovrebbe prendere atto dell’ingovernabilità, almeno nella legislatura appena iniziata».
RESTERO’ FINCHE’ POSSIBILE E NECESSARIO
«Non è per prendere atto dell’ingovernabilità che ho accolto l’invito a prestare di nuovo giuramento come Presidente della Repubblica. L’ho accolto anche perchè l’Italia si desse nei prossimi giorni il governo di cui ha bisogno. E farò a tal fine ciò che mi compete: non andando oltre i limiti del mio ruolo costituzionale, fungendo tutt’al più, per usare un’espressione di scuola, “da fattore di coagulazione”. Ma tutte le forze politiche si prendano con realismo le loro responsabilità: era questa la posta implicita dell’appello rivoltomi due giorni or sono. Mi accingo al mio secondo mandato, senza illusioni e tanto meno pretese di amplificazione «salvifica» delle mie funzioni; eserciterò piuttosto con accresciuto senso del limite, oltre che con immutata imparzialità, quelle che la Costituzione mi attribuisce. E lo farò fino a quando la situazione del paese e delle istituzioni me lo suggerirà e comunque le forze me lo consentiranno».

La Repubblica 23.04.13

Vince Debora Serracchiani è il nuovo Presidente della Regione Friuli-Venezia Giulia

“Abbiamo vinto”, così Debora Serracchiani, uscendo dal suo ufficio del quartiere generale di Udine, a poche sezioni dalla fine dello spoglio ha ufficializzato la sua vittoria in Friuli Venezia Giulia. Dopo un fotofinish che si è protratto per tutto il pomeriggio, Serracchiani è stata eletta nuovo presidente della Regione a statuto speciale con il 39,4% dei voti, contro il 39% del candidato di centrodestra, il presidente Renzo Tondo. Non appena appreso del risultato, Tondo si è congratulato con l’avversaria per la vittoria.

Flop del candidato del Movimento 5 Stelle, che si è fermato al 19,2%, con la lista dei grillini ferma al 13,8% contro il 27,2% preso alle elezioni politiche.

La prima riflessione della neo eletta presidente è stata sulla scarsa affluenza alle urne – ha votato il 50,5% degli aventi diritto – che “impone un obbligo di riflessione”.

Per la neo presidente della Regione è evidente che la gente non guarda più alla politica come a una soluzione, e quindi dobbiamo impegnarci tutti a far sì che la politica diventi di nuovo centrale, importante, comprensibile e che soprattutto serva”.

“Congratulazioni e auguri di buon lavoro a Debora Serracchiani per la vittoria in Friuli Venezia Giulia. A lei, al Pd e alla coalizione di centrosinistra vanno i complimenti per l’importante risultato ottenuto in questo delicato momento. E’ la dimostrazione che il Partito democratico e i suoi esponenti hanno la forza, la credibilità e la capacità di vincere e di saper intercettare il consenso con la forza degli argomenti e delle idee. Inoltre i voti espressi alla sola candidata testimoniano la capacità di Debora di parlare agli elettori del Friuli Venezia Giulia”.
E’ la nota dell’Ufficio stampa con cui il Pd si è felicitato per l’affermazione della giovane eurodeputata.

Tra i primi a congratularsi anche Matteo Renzi, che dagli studi di Otto e mezzo ha detto: “mando un abbraccio agli amici friulani che hanno vinto”.

www.partitodemocratico.it

"Napolitano: il governo subito", di Simone Collini

Alle consultazioni al Quirinale, insieme ai capigruppo Roberto Speranza e Luigi Zanda, dovrebbe andare Enrico Letta. E però Pier Luigi Bersani potrebbe cedere alle pressioni, che in queste ore gli stanno arrivando da più parti, a restare alla guida del partito in questa fase di transizione verso il congresso. Due fatti in contraddizione? No, se valutati alla luce di quel che sta succedendo nel Pd.
La rielezione di Giorgio Napolitano ha fatto uscire dall’impasse venuta alla luce con il naufragio delle candidature al Colle di Franco Marini e di Romano Prodi. Ma le difficoltà per i democratici non sono finite, anzi, e allora è meglio non aprire altri fronti e rischiare ulteriori lacerazioni. Le dimissioni di Bersani formalmente non sono operative (al quartier generale del Pd spiegano che vanno rassegnate di fronte a un organismo politico come la Direzione e non è sufficiente l’annuncio ai Grandi elettori) ma già si è innescata nel partito una discussione sul tipo di guida da dare in questa fase che precede il congresso.
GABINETTO DI CRISI
La reggenza ipotizzata in un primo momento, con eventuale incarico a Letta, è stata contestata da diverse componenti del Pd, a cominciare da ex-popolari e renziani, che chiedono invece una gestione collegiale che sia garantita da un organismo in cui siano presenti tutte le anime del partito. Aprire uno scontro su chi debba guidare il Pd è rischioso per tutti, e da Dario Franceschini a Luigi Zanda, da Guglielmo Epifani alla piacentina Paola De Micheli allo stesso Letta, sono molte le pressioni che sta ricevendo Bersani affinché resti al suo posto fino al prossimo congresso.
Il segretario dimissionario per ora non cede, ma non è escluso che per evitare il rischio di ulteriori fratture interne decida alla fine di congelare fino al congresso le sue dimissioni. Contemporaneamente però, stando ai ragionamenti che già si fanno ai vertici del Pd, si darebbe vita a un nuovo organismo collegiale che in questa fase gestisca la crisi e poi faccia da ponte di collegamento tra partito e governo nel seguito della legislatura. Che, se tutto andrà come previsto, non sarà di così breve durata. E una cosa è chiara fin d’ora: non sarà facile per il Pd gestire la stagione che si apre. L’ipotesi che si vada verso un governo politico in cui convivano ministri del Pd e del Pdl sta già provocando fibrillazioni all’interno dei gruppi parlamentari democratici. L’attesa per il discorso che farà oggi pomeriggio a Montecitorio il Capo dello Stato è alta, ma sono già diversi i deputati e senatori Pd che annunciano il loro no alla fiducia nel caso si prefiguri un governo di larghe intese.
A RISCHIO DIVISIONE
Matteo Orfini spiega le ragioni del sì a Napolitano aggiungendo che quel voto non va collegato a «cose che non c’entrano nulla, come il governissimo»: «Io ho votato un presidente della Repubblica. E quel voto non impegna né me né il Pd al sostegno di un governo col Pdl. Questo lo abbiamo chiarito prima del voto e lo ripeto ora. Al governo con Berlusconi ero e resto contrario». Critico con la strada imboccata è anche Pippo Civati, che se la prende con «quelli-di-sinistra-che-odiano-la-sinistra»: «Ora potremmo avere un presidente come Prodi e un premier come Barca e invece avremo Monti all’economia e magari Alfano vicepremier. Perdendo Sel, per altro, il Pd sarà azionista di minoranza del nuovo governissimo (il Pdl avrà più peso elettorale, anche se sembra non averlo notato nessuno)». E critica con l’ipotesi che a guidare un governo di larghe intese sia il vicesegretario Pd è Rosy Bindi: «Ho grande stima di Enrico Letta e credo che sarebbe molto capace e saprebbe guidare un governo ma di certo questo non è il momento».
Parole pronunciate in televisione che provocano nuove tensioni fuori e dentro il partito, e alle quali Bindi fa seguire una nota di rettifica soltanto parziale: «In questa fase un esecutivo con una evidente caratura politica e non mi riferisco solo al vicesegretario del Pd non sarebbe capito dalla nostra gente e non sarebbe utile al Paese. Abbiamo sempre escluso le larghe intese e le ipotesi di governissimo e mi pare che questa sia ancora la linea del partito».
Il nodo è politico e andrà sciolto, se si vogliono evitare drammatiche conseguenze nel passaggio della fiducia, nei colloqui di queste ore e soprattutto nella Direzione che sarà convocata domani, dopo aver ascoltato oggi le parole del Capo dello Stato. Bersani da Piacenza, dove ha trovato ad accoglierlo striscioni di sostegno («i giovani del Pd non tradiranno il partito» e «restiamo al tuo fianco»), ieri ha sentito Letta e gli altri dirigenti per fare il punto. Su un governo di scopo che realizzi le riforme, anche istituzionali, necessarie al Paese il consenso c’è. Le cose però si complicherebbero se il governo del presidente dovesse avere una marcata fisionomia politica, sul modello ipotizzato al momento dell’elezione di Napolitano.
Bersani ha assicurato ai suoi interlocutori che nulla è deciso, che le indiscrezioni trapelate finora non hanno fondamento. Sarà fatta luce oggi, col discorso del Presidente della Repubblica di fronte ai Grandi elettori. Poi domani ci sarà il pronunciamento della Direzione Pd, che stando alle indiscrezioni della vigilia dovrebbe votare una mozione comunque di sostegno alla posizione espressa da Napolitano. Bisognerà però vedere, considerato quel che è successo per l’elezione del Capo dello Stato, se tutti i parlamentari poi si atterranno a quanto votato.

L’Unità 22.04.13

"Una crisi dei partiti lunga vent’anni", di Carlo Buttaroni

La crisi politica è profondissima. Non riguarda solo il Pd, ma l’intero sistema dei partiti. E non nasce nelle ultime settimane. Basta scorrere i risultati elettorali degli ultimi vent’anni per rendersi conto di uno scenario che ha proposto dissolvenze più che evoluzioni, senza trovare mai una configurazione definitiva, incapace di andare oltre le contingenze elettorali e misurarsi con le sfide vere del Paese. Oggi il Partito democratico è impantanato in una crisi che riaccende antiche contraddizioni. Ma sei mesi fa in crisi era il Pdl. Una crisi d’identità, di politiche e di leadership, altrettanto profonda, tanto che lo stesso Berlusconi sembrava intenzionato a lasciare il partito per dar vita a una nuova «Forza Italia». La crisi del centrodestra, fino a prima delle elezioni si è riflessa nella vicenda delle primarie annunciate, rinviate e annullate, nella diaspora di una parte importante dei suoi gruppi dirigenti, nella sofferta ricerca di una nuova leadership, che ha trovato una soluzione approssimativa nel compromesso di una coalizione con più candidati alla presidenza del Consiglio.
Pochi mesi prima delle elezioni, tutti prevedevano una vittoria schiacciante del centrosinistra. In pochissimo tempo il quadro è cambiato completamente, e i risultati sono sotto gli occhi di tutti. Ciò non basta, però, a spiegare le 48 ore di follia che hanno portato al collasso del Partito democratico. Dare la responsabilità a Bersani di quanto accaduto nella travagliata vicenda dell’elezione del presidente della Repubblica è ingiusto. E significa non aver capito quanto la crisi sia profonda e avvolga tutti gli attori in campo, ben al di là delle scelte che hanno pur avuto il loro peso negativo nella contabilità politica di questi giorni.
LA POLITICA LIQUIDA
Nelle ultime settimane, ancora una volta, è stata protagonista una politica prigioniera di se stessa e delle sue logiche. Il disorientamento che avvolge gli elettori non nasce nelle vicende dell’ultima settimana, né nello stallo istituzionale successivo al voto di febbraio. Ha origine nel degrado progressivo degli ultimi anni, nel dissolvimento di ogni punto di riferimento che perimetri le differenze. La rabbia che si è riversata nelle piazze e nella rete mette in luce i gravi difetti della politica, li denuncia e li condanna, ma non offre innesti al cambiamento e a un riformismo vero. Si batte per il cambiamento. E questo è giusto. Ma rimangono senza risposta le domande che presuppongono un progetto, una prospettiva, una direzione. E questo non favorisce la crescita della democrazia: al contrario, ne alimenta il declino.
Giovanni Sartori ha definito questo diffuso sentimento «liquidismo»: rimuovere senza avere nulla da offrire, nessun riscatto, nessun annuncio. Solo risentimento. E la storia del secolo scorso insegna dove conduce il demonio del «via tutti» che oggi l’antipolitica dipinge come la soluzione salvifica.
Per risolvere la sua crisi, la politica deve invece fare i conti con se stessa e ripensare gli oggetti della sua azione, perché in tutte le sue forme conserva sempre una confluenza con l’agire, cioè con la capacità di fare delle scelte, di creare delle idee, di produrre azioni che governino la società e la sua complessità. La crisi della politica, infatti, nasce proprio come crisi dell’agire e si aggrava nel momento in cui sembra poter decidere solo in subordine, prima al sistema economico, poi all’apparato tecnico.
Se i conti non tornano è perché la malattia che affligge la politica nasce dall’impotenza di fronte alle scelte che deve compiere. Il problema è come ridare forza e ruolo alla politica, restituendogli il primato delle scelte e del loro significato, dopo anni di degenerazione e delegittimazione che hanno progressivamente eroso la fiducia e minato le basi stesse della democrazia. Che fare? Occorre far tornare la politica alla responsabilità delle scelte a favore dei cittadini, visti non più come strumento per raggiungere le istituzioni, ma come fine ultimo di azioni ispirate al bene comune. Occorre definire nuovi diritti e nuovi doveri. Occorre dare forma alla domanda di un nuovo patto, ispirato al comune sentire di una civile appartenenza, che tragga forza dal desiderio di dirigersi non più verso l’utile individuale, ma verso il bene della comunità, dove la libertà dell’individuo si accresce e si rafforza in un sistema di valori e di solidarietà intelligente.
LA DOMANDA DI PARTECIPAZIONE
Vi è una parte importante della società che esprime un’ansia di rinnovamento. E questa trova progressivamente forma in una politica che riparte dal basso, che inizia a progettare e farsi carico di nuove fondamenta che poggiano su solide basi etiche e morali. Il deficit non riguarda la domanda, ma l’offerta di politica. Un deficit di politica che si riflette nel declino delle grandi organizzazioni, al quale fa da contraltare la nascita di nuove comunità di prossimità, fondate su una condivisione da esprimersi temporaneamente, prive però di una progettualità di medio/lungo periodo.
La sfida ultima alla quale, oggi, è chiamata la politica è quella di sapersi ricostituire in agenzia di senso, soprattutto di fronte alle nuove e variegate figure sociali, facendosi interprete e dimostrandosi all’altezza della nuova complessità della società degli imperfettamente distinti.
Ma è qui che si consuma l’altro paradosso: il sistema dei partiti, anziché aprirsi e farsi interprete delle nuove istanze, sembra teso a preservare se stesso, incapace di rispondere alle nuove sfide, allontanandosi sempre più dalla società, proprio mentre quest’ultima si avvicina sempre più alla politica.

L’Unità 22.04.13

"Processo ai 101 traditori e a un Pd che va rifondato", di Andrea Marini

Chi l’avrebbe detto, solo tre mesi fa, alla vigilia del voto, che in una domenica mattina di aprile i circoli e i dirigenti del partito cittadino, provinciale e regionale si sarebbero incontrati per “processare” il gruppo parlamentare Pd, prendere atto che il partito è a un passo dello sgretolamento e con la prospettiva di ritrovarsi “imprigionati” in un governo del presidente Napolitano a braccetto con Alfano, Monti e Berlusconi… Ma tant’è questa è la situazione. E ieri mattina in una delle più dure riunioni di partito è andato in scena un incrocio tra una sorta di psicoterapia di gruppo (di partito ndr) e un processo ai parlamentari, anche quelli modenesi. Doveva essere una riunione per i soli segretari di circolo cittadini, ma alla porta della sede sono poi giunti segretari dalla zona di Carpi e amministratori, sono stati invitati il sindaco Pighi, gli ex-parlamentari Bastico e Barbolini. Erano presenti due soli “reduci” dall’«entusiasmante» elezione di Napolitano: Stefano Vaccari e Manuela Ghizzoni. Certo le critiche principali hanno colpito i “vigliacchi”, i “traditori” coloro che affossando Prodi hanno messo a rischio la sopravvivenza del Pd. Ma ce ne è stato anche per la scelta tutta emiliana di rimangiarsi il via libera a Marini, sotto il pressing dei social network, dimostrando scarsa capacità di saper affrontare critiche ed insulti. Per poi arrivare a valutare come uscirne e come avviare una svolta che a questo punto è indispensabile per sopravvivere. Vaccari e Ghizzoni hanno ricostruito le drammatiche fasi romane. Spiegando come la scelta della candidatura Marini sia da imputare a difetti che si potrebbero definire organizzativi. «Per Marini il via libera è stato dato a Bersani solo da 200 parlamentari su 450, gli altri erano usciti e non ci si è visti prima del voto come si doveva fare. – ha detto Ghizzoni – Mentre l’unanimità dell’applauso per Prodi non ha impedito ai vigliacchi di agire». Vaccari ha puntato sui 101 traditori «che hanno distrutto in poco tempo anni di militanza. Ma noi vogliamo ripartire attorno a un’idea di stare insieme in un soggetto collettivo». Poi è stata la volta di chi a Roma non c’era. Stefano Bonaccini ha difeso la decisione di lanciare il suo «fermatevi» rispetto alla prospettiva di eleggere Marini, incassando però qualche appunto da Mariangela Bastico e dell’ ex-senatore Barbolini che hanno ricordato come quando si è in un partito ci deve essere una certa disciplina che impone di accettare scelte prese democraticamente, anche se non si è d’accordo. Barbolini ha aggiunto «In questo partito, ci sono troppi “grillismi” e “berlusconismi” tra le nuove leve. Le regole si rispettano». Pesante lo sfogo di Giorgio Pighi durissimo con i traditori e con un partito che «se continua così fa venir voglia di mollare tutto e andarsene». Bonaccini ha analizzato le prospettive: «Non avrei problemi dopo le dimissioni di Bersani a mettere sul tavolo anche le mie – ha detto – Ma in questo momento è meglio rimanere ognuno al proprio posto e dare la possibilità ai nostri iscritti di sfogarsi stando in mezzo alla gente. Poi i congressi devono arrivare velocemente». Sergio Rusticali ha parlato di «fase drammatica. Il partito deve essere rifondato, si deve creare una identità versa, forte e depurata dalle correnti dannose» E dai segretari dei circoli è arrivata la richiesta di stanare i traditori. Patrizia Villani (Madonnina): «Queste cose fanno molto male, non vediamo l’unità del partito in queste decisioni. Basta: il tempo della vecchia politica è finito». O Anna Maria Vandelli: «hanno affossato il progetto del Pd, ma non hanno affossato le idee». Dalla riunione l’impegno ad avviare le procedure per rinviare i congressi comunale e provinciale. Prima il nazionale, con l’auspicio che sia un congresso concreto di merito per arrivare a varare un partito vero e non quello che è apparso in questi giorni. E ancora tenere aperti i circoli per accogliere iscritti e simpatizzanti ascoltarli e dialogare con loro per garantire quel contatto con la gente che non può essere delegato a facebook e twitter. A questo proposito Antonino Marino ha sottolineato «le colpe non sono dei socialnetwork , nè di Sel, la colpa va cercata nel nostro interno e in particolare tra i capi correnti più propensi a difendere le loro meschinità di potere che gli interessi del Paese.

La Gazzetta di Modena 22.04.13