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"Dentro il mercato non c'è più lavoro", di Bruno Ugolini

Non so perchè lo abbiamo chiamato mercato del lavoro. Fa pensare a quei capannoni dove si estendono merci accatastate e
attorno venditori e compratori si accapigliano per fissare i migliori prezzi. Solo che nel nostro caso le merci sono uomini e donne destinati a produrre ricchezza. Si è però di fronte a una novità perché oggi lo sguardo intravede poco o nulla: niente o quasi merci, niente venditori, niente compratori. Lo spunto è dato da un libro di Edizioni Lavoro intitolato appunto: Il mercato senza lavoro. L’autore è Ferruccio Pelos, per 26 anni dirigente della Cisl. Una lunga esperienza proseguita «dall’altra parte» in un decennio di dirigente in C onfcooperative. Ha avuto così modo di guardare all’interno di questo «mercato», attraversato da un imperversare di riforme, da quella di Tiziano Treu a quella, come scrive, «impropriamente chiamata legge Biagi ». Spiega, infatti, che «Biagi non avrebbe accettato una normativa che agisse solo sulla flessibilità in entrata, creando decine di tipologie contrattuali, senza prevedere nulla di nuovo in fatto di ammortizzatori sociali e tutele per i lavoratori». Ed è così che la flessibilità è diventata precarietà. Il libro fotografa minuziosamente questo processo attraverso una miniera di analisi e dati. Uno su tutti spiega come i lavoratori con contratti a tempo indeterminato siano il 49% del totale e quindi meno della metà dei dipendenti complessivi. Commenta Pierre Carniti nella prefazione: «Il capitale è nomade, mentre il lavoro rimane stanziale. Per neutralizzare le conseguenze di questa asimmetria si è fatto strada il convincimento che l’unica possibilità fosse quella di favorire una competizione al ribasso su salari e condizioni di lavoro tra le diverse aree e i diversi Paesi». E le riforme delle pensioni e del mercato del lavoro hanno prodotto «risultati opposti alle attese». Carniti, di fronte a questo mercato che rischia di rimanere vuoto avanza due proposte: il varo di un servizio civile di leva europea obbligatoria per tutti i ragazzi e le ragazze e la distribuzione del lavoro disponibile attraverso la riduzione degli orari. Sono soluzioni e analisi che chiamano in causa il sindacato. Oggi, scrive Ferruccio Pelos, la contrattazione si è ridotta mentre è cresciuto il numero delle leggi sul lavoro. «È stato facile contrattare nelle fasi espansive dell’economia; è sempre più difficile quando giunge il momento di sporcarsi le mani con le ristrutturazioni, i licenziamenti, le chiusure, le esternalizzazioni e le delocalizzazioni». È vitale, afferma, per il sindacato, «mantenere la propria autonomia, le proprie idee e proposte, una propria ricerca ed elaborazione; contrattare fino all’esaurimento, cercando soluzioni equilibrate; non lasciare nulla d’intentato per raggiungere gli obiettivi fissati; non giocare mai da soli ma favorire la condivisione e partecipazione più ampie di tutte le fasi negoziali ». Parole che appaiono rivolte ad atteggiamenti della Cisl e della Cgil. Aggiunge che «Al di là delle questioni di merito certe sentenze giudiziarie, come quelle che hanno interessato la Fiat, sono un campanello d’allarme per la contrattazione e per il sindacato. Soluzioni che vengono da fuori e calano dall’alto sono sempre una sconfitta per le parti del negoziato. Subire una mediazione piuttosto che costruirla cercando una via di ragionevole compromesso, è una strada che si sa quando inizia, ma non si sa quando e come finisce». Tutto ciò richiede però, conclude, «una controparte imprenditoriale che riconosca il ruolo del sindacato e della contrattazione e un sistema di relazioni basato su una partecipazione non subalterna dei lavoratori e del sindacato alla vita e alla strategia dell’impresa». E a questo punto verrebbe però da chiedersi: è stato così con Marchionne? Sembra comunque che oggi nel movimento sindacale si cominci a respirare un aria nuova ad esempio sui temi decisivi della rappresentatività. Pelos a tale proposito lancia un auspicio: «La caduta di rappresentatività, lo sfarinamento, la frammentazione del lavoro e della contrattazione, la perdita di guida e di controllo dei processi sono pericoli incombenti. Richiedono una piattaforma sindacale confederale e unitaria, che comprenda un deciso riposizionamento verso obiettivi più generali di contrasto alla precarietà, per nuovi ammortizzatori sociali e un nuovo governo della mobilità». Sono da segnalare, a questo proposito, alcune annotazioni di Rino Caviglioli, già stimato dirigente dei metalmeccanici e poi dei tessili Cisl, apparse in una recensione al libro di Pelosi pubblicata sul sito di Eguaglianza e Libertà. Non si può continuare a dichiarare il problema – scrive Caviglioli, a proposito delle problematiche presenti nel testo di Pelos – «senza pensare ad una modifica radicale del modo di essere e di fare del sindacato. Non si può continuare con le inutili e dannose sceneggiate tra Cisl-Uil e Cgil nelle quali ciascun sindacato si ritaglia – in alcune vertenze cosiddette emblematiche e particolarmente visibili, perché nel restante universo sindacale si va d’amore e d’accordo – un ruolo di comodo che giustifica ideologie vecchie di un secolo ma che lascia l’iniziativa e dunque le decisioni totalmente nelle mani dell’impresa. Non si deve. Così si accelera solo il declino».

L’Unità 22.04.13

"Ma il partito senza leader boccia ogni larga intesa", di Ilvo Diamanti

Sarà difficile succedere a Giorgio Napolitano. L’avevo predetto una settimana fa. Anche se, francamente, non pre-vedevo che Napolitano sarebbe succeduto a se stesso. Tuttavia, si tratta di una soluzione coerente con il singolare modello della nostra democrazia. Un Presidenzialismo preterintenzionale. Che si è affermato senza riforme. Per inerzia e necessità. Napolitano. Non avrebbe mai voluto essere rieletto – primo caso nella nostra storia repubblicana. Ma ha dovuto arrendersi a questo stato – o meglio, Stato – di emergenza. Perché è l’unica soluzione possibile di fronte all’impossibilità di trovare altre soluzioni. In un Parlamento che riflette e moltiplica la rappresentazione di un Paese dove si confrontano tre “grandi minoranze” politiche – e non comunicanti. Ritratto esemplare del tumultuoso declino della Seconda Repubblica. Dove, non a caso, Berlusconi ri-emerge, nonostante tutto e tutti. Perché la conosce e la controlla meglio degli altri. La Seconda Repubblica: ispirata al maggioritario e alla personalizzazione dei partiti – anzi, dai partiti personali. Oggi è senza ancore e senza timoni. Come una nave che non tiene la rotta, perché l’equipaggio è diviso in squadre che remano in direzioni diverse. Il PDL, nonostante abbia dimezzato la sua base elettorale, perdendo oltre 6 milioni di voti, rispetto alle elezioni del 2008, è riemerso dalla crisi. Perché il leader, Berlusconi, ha svolto con abilità un ruolo di “interdizione”. Ha, cioè, impedito agli altri di intraprendere percorsi sgraditi. Gli è bastato imporre se stesso come riferimento negoziale, al tempo stesso necessario e insostenibile per gli altri. Perché, per quanto indebolito, costituisce la principale linea di frattura che attraversa la Seconda Repubblica. Grillo e il M5S: hanno selezionato candidati molto vicini al Centrosinistra. In particolare Stefano Rodotà e lo stesso Romano Prodi. E in questo modo hanno creato serio imbarazzo al PD. Come avrebbe potuto convergere sui candidati “imposti” dal M5S, dopo la lunga e inutile ricerca di dialogo, tentata da Bersani, nelle settimane successive al voto? D’altronde, al M5S non interessa partecipare a una stabile maggioranza di governo. Semmai, impedirla. Accelerare la decomposizione della democrazia parlamentare e rappresentativa che, sempre più fragile e incerta, regola l’Italia.
Il PD, infine, si è sgranato. Per paradosso, la crisi del berlusconismo ha travolto l’opposizione alternativa prima ancora del protagonista. Un po’ come la DC e i partiti di governo, dopo la caduta del muro. Scomparsi in fretta, mentre il PCI si ri-definiva, e, per una parte, si ri-fondava. La crisi del PD, peraltro, appare particolarmente insidiosa, perché investe i principali modelli e soggetti genetici del partito. Insieme alla candidatura di Marini è stata bocciata l’idea del compromesso fra i gruppi dirigenti e le identità dei partiti di massa della Prima Repubblica: PCI e DC. L’Ulivo dei Partiti, postcomunisti e post-democristiani, perseguito, in particolare, da Massimo D’Alema, dopo il 1994, insieme a Marini. A cui si opponeva l’idea e il progetto del Partito dell’Ulivo.
Concepito e sostenuto da Romano Prodi, insieme ad Arturo Parisi. Soggetto politico largo e inclusivo. Ma nuovo. Che echeggiasse il modello americano, maggioritario e presidenzialista. “Organizzato” intorno alle Primarie. Un’alternativa mai risolta. Riprodotta, nel 2007, dal PD, sulla spinta di Walter Veltroni. In una settimana entrambi i modelli si sono dissolti. Sconfitti, insieme ai loro
leader di riferimento. Mentre si è drammatizzato il contrasto tra vecchio e nuovo. Le Primarie, invece di riassorbire queste tensioni, le hanno alimentate. Accentuando il distacco tra base e vertice, fra gruppi dirigenti, militanti ed elettori. Tutte queste differenze sono divenute fratture nel percorso che ha condotto alla scelta e alla successiva bocciatura dei candidati. Anche per l’irruzione, nella comunicazione politica, della “rete” e dei social network. Che hanno moltiplicato ed enfatizzato il dissenso reale della “base”. Perché la democrazia “immediata” della Rete, per funzionare, va compresa e regolata. Non subìta.
La base del PD, peraltro, oggi appare lacerata di fronte alle ipotesi che ispirano non solo la scelta del Presidente, ma anche la conseguente, futura maggioranza di governo. In particolare: le “larghe intese”, tra PD, PdL e Monti. Fra gli elettori del PD, infatti, solo il 7% si sente (molto o abbastanza) vicino al PdL (Sondaggio LaPolis-Università di Urbino). Meno di uno su dieci. Mentre il peso di coloro che si sentono vicini a Scelta Civica sale al 22%. Ma, soprattutto, nel PD appare molto elevata la prossimità al M5S (29%) e a SEL (33%). In altri termini, gli elettori del PD guardano a Sinistra e, in misura minore, al Centro. Mostrano grande attenzione per il M5S. Mentre appaiono lontani – per non dire opposti – (più del 90%) rispetto alla Destra. Anzi: a Berlusconi. Un sentimento ricambiato, simmetricamente, dagli elettori del PdL. Lontanissimi dal PD e dalla Sinistra. Cioè: dai “comunisti”.
Per questo diventa difficile imporre “larghe intese”. Soprattutto nel PD. Perché è “radicalmente” diviso. E perché nella “democrazia del pubblico” occorrono leader forti, capaci di comunicare. Con partiti al loro servizio – se non alle loro dipendenze. Ma il PD è l’unico partito “impersonale”. Privo di una leadership carismatica. Il leader più popolare, Renzi, è stato sin qui osteggiato dal gruppo dirigente. E se riuscisse effettivamente a imporsi, non è detto che manterrebbe lo stesso livello di consensi. Perché il ruolo di outsider gli ha permesso di attrarre componenti esterne al partito. Soprattutto nell’area moderata. Mentre all’interno si sono aperte nuove sfide, come quella lanciata da Fabrizio Barca. Che guarda a sinistra. Come molti elettori del PD. Attuali, delusi e potenziali.
Così, la rielezione di Napolitano alla Presidenza alla Repubblica ha offerto al PD un rimedio alla debolezza della propria leadership. Perché il Presidente, presso gli elettori del PD, è il leader maggiormente riconosciuto (con un indice di popolarità oltre l’85%). Tuttavia, Napolitano è il Presidente della Repubblica, non del PD. Non potrà rimediare al deficit di leadership e di identità del partito. D’altronde, intese, per quanto larghe, intorno a governi “presidenziali”, difficilmente potranno compensare il deficit di politica che asfissia il Paese. Neppure in un presidenzialismo preterintenzionale come il nostro.

La Repubblica 22.04.13

"La grande rimonta dei maschi a scuola adesso leggono (quasi) come le femmine ", di Maria Novella De Luca

Sarà merito della scuola, o forse di alcuni libri dal successo planetario, che hanno catturato al testo scritto anche il recalcitrante mondo dei ragazzini maschi. Sarà, pure, l’abitudine alla comprensione del linguaggio sincopato dei videogiochi, comunque la notizia (buona) è che nella lettura per la prima volta i bambini hanno raggiunto le bambine. Polverizzando così finalmente quei “punti” che nelle statistiche internazionali dividevano i maschi dalle femmine, queste ultime com’è noto assai più vicine ai libri dei loro coetanei. E invece si scopre che c’è un momento fondamentale negli anni della scuola primaria, in cui tutto è ancora possibile, anche la caduta di stereotipi tipo femmine-brave, maschi-distratti, oppure femmine “non portate” per la matematica, maschi capaci nelle materie scientifiche.
Il paritario capitombolo in avanti è contenuto nella ricerca
Progress in International Reading Literacy Study
del 2011, che ogni cinque anni analizza nelle classi di quarta elementare, i livelli di comprensione dei testi scritti. E su questi dati Stefano Molina, ricercatore della Fondazione Agnelli, ha elaborato una indagine pubblicata sul sito
Neodemos, con il titolo “Differenze di genere sui banchi di scuola”, in cui dimostra quanto nell’infanzia il nostro Paese sia quello con i divari più bassi, mentre poi, a partire dall’adolescenza le differenze diventino invece dei fossati. «Il salto in avanti dei maschi nella lettura — spiega Stefano Molina — è avvenuto negli ultimi 10 anni. Nel 2001 il loro rendimento si distanziava di 8 punti da quello delle femmine, nel 2007 di 7, fino al 2011 in cui il divario è diventato di 3, e dunque minimo. Ed è un bel successo, dovuto a più fattori. Da una parte i bambini corrono veloci quanto le bambine. Dall’altra forse la scuola non è stata in grado di consentire alle femmine, che da sempre hanno un rendimento migliore, di esprimere tutte le loro potenzialità». In un quadro dove comunque i dati dell’indagine “Pirls” mostrano che i baby studenti italiani di quarta elementare si piazzano a un ottimo punto nella classifica mondiale della “bravura” con 541 punti contro una media di 500.
E sono più d’una infatti le motivazioni che hanno portato a questa unificazione delle capacità di lettura, che smentiscono in parte gli allarmi sulla disaffezione verso il testo scritto della generazione digitale. Carmela Buffo insegna da oltre 30 anni in una grande scuola romana, «dove arrivano bambini di ogni ceto sociale, da quelli con migliaia di libri nella biblioteca dei genitori, a ragazzini che non ne possiedono nemmeno uno». Dice Carmela Buffo: «In una stessa classe ci sono allievi con diversi livelli di rendimento, e tradizionalmente le femmine sono un po’ più avanti dei maschi. Ma questo spesso si è tradotto in una sorta di pigrizia da parte degli insegnanti, anzi delle insegnanti, che non si sono preoccupate abbastanza di stimolare i maschi perché ritenuti immaturi». Là dove invece la scuola ha tenacemente promosso la lettura, e «grazie anche a una rivoluzione nei libri dell’infanzia, con alcuni titoli che hanno catturato i bambini senza differenza di sesso», aggiunge Carmela Buffo, «i risultati si sono visti, e in particolare sui maschi». Ecco allora Harry Potter, con la sua capacità conquistare al di là dei generi, Geronimo Stilton, il topo reporter dagli incassi milionari, Greg, l’amatissima “schiappa” del diario medesimo.
Benedetto Vertecchi, pedagogista di lungo corso, è invece più scettico sui meriti della scuola. «Se i maschi hanno scoperto la lettura, mi fa un gran piacere, ma non dipende dalla nostra agonizzante istruzione pubblica, bensì da una maggiore attenzione delle famiglie alla vita dei bambini, libri compresi. Con i tagli selvaggi, la scuola oggi sta tornando proprio ai suoi stereotipi tradizionali, ai maschi la scienza, alle femmine la letteratura, i ricchi vanno avanti, i poveri si fermano». Amara riflessione, condivisa in parte da Stefano Molina, autore della ricerca: «Viene da chiedersi come mai a 9-10 anni bambine e bambini siano eguali nella lettura, e poi invece a 15 le femmine superino i loro coetanei di ben 46 punti nella comprensione di un testo scritto. Penso che i fattori siano due: una spinta sociale, per cui alle bambine viene regalata la Barbie, e ai maschi il “Piccolo chimico”, e via via quel fattore di uguaglianza si perde. E una motivazione, poi, interna alla scuola, che purtroppo nella comunicazione del sapere tende a ricreare differenze».

La Repubblica 22.04.13

"Solo lui può riparare il motore imballato", di Eugenio Scalfari

Ieri, alle ore 15, Giorgio Napolitano ha accettato d’essere rieletto alla carica di Presidente della Repubblica dopo aver ricevuto pressanti inviti da parte di tutte le forze politiche rappresentate in Parlamento, Lega inclusa sia pure con qualche riserva e Movimento 5 Stelle e Fratelli d’Italia (La Russa) esclusi. I grillini hanno continuato a votare Rodotà rafforzato dal partito di Vendola. Alle ore 18 Napolitano è stato rieletto con 738 voti. Questa è la cronaca telegrafica dei fatti già universalmente noti.
Tra quanti hanno tirato un respiro di sollievo alla rielezione di Napolitano ci sono anch’io. Conosco infatti bene le ragioni che fino a ieri avevano motivato il suo fermo rifiuto alla proposta di accettare il reincarico per tutto il tempo necessario per sbloccare una situazione pericolosa di stallo della democrazia.
Il Presidente quelle ragioni me le aveva spiegate in un colloquio avvenuto due settimane fa, del quale detti allora
conto su questo giornale.
Al di là del gravoso fardello degli animi e della fatica fisica che quel ruolo richiede, altre ce n’erano a spiegare la sua posizione. La principale che tutte le riassume era la necessità che dopo un lungo settennato ci sia un passaggio del testimone ad un’altra personalità con altro carattere e altra biografia politica, che tenga conto della precedente esperienza ma ne aggiorni i contenuti.
Discontinuità nella continuità, questo è l’insegnamento che la storia della Repubblica consegna a chi ricopre il ruolo di rappresentare la nazione, coordinarne le istituzioni e i poteri costituzionali, tutelare i deboli, garantire le minoranze, rafforzare i valori della libertà e dell’eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge.
Napolitano voleva che questo ricambio avvenisse come del resto è sempre avvenuto dalla nascita della Repubblica fino a ieri. Certo non prevedeva quanto nel nuovo Parlamento sarebbe accaduto. Soprattutto non prevedeva che il Partito democratico crollasse su se stesso affiancando la propria ingovernabilità a quella addirittura strutturale del nuovo Parlamento, diviso in tre tronconi (tre e mezzo per l’esattezza) di pari consistenza per quanto riguarda i consensi espressi dagli elettori e ferocemente opposti ciascuno agli altri. E quindi: un Parlamento ingovernabile e partiti autore-ferenziali, due dei quali caratterizzati da populismo e demagogia e l’altro dominato da correnti contrapposte che ne segano non solo i rami ma il tronco stesso che tutti li sorregge.
Risultato: blocco dell’intero sistema, Paese allo sbando, credibilità internazionale in calo vertiginoso. I mercati finora non ci hanno penalizzato e questo dipende da alcune cause tecniche che sono state già largamente esaminate. Ma se il blocco fosse ancora durato le acque calme della Borsa e dello spread sarebbero tornate tempestose, la speculazione fa cambiare in pochi minuti la direzione e l’intensità del vento.
Tutto questo non era prevedibile due settimane fa, ma non da me che lo sentivo arrivare e ne ero profondamente preoccupato.
Mentre scrivo (è la sera di sabato) è in corso una manifestazione silenziosa e composta di grillini in piazza Montecitorio. Grillo non vuole eccitare i suoi e quindi non andrà in piazza.
Rodotà da Bari, dove ha partecipato ad un dibattito culturale organizzato dal nostro giornale, ha deplorato le marce su Roma ed ha dichiarato che l’elezione di Napolitano si è svolta nell’ambito previsto dalla Costituzione. Poco prima Grillo aveva invece parlato di golpe, ma Grillo, si sa, è un comico.

* * *

Conosco Stefano Rodotà da quasi sessant’anni. Entrò nel Partito radicale fondato nel 1956 dagli “amici del Mondo” e da allora ci furono tra noi sentimenti di amicizia e collaborazione. È stato più volte parlamentare militando nei partiti post-comunisti e, prima, tra gli indipendenti di sinistra associati al Pci. Fu poi presidente del Pds e vicepresidente della Camera, ebbe incarichi nelle istituzioni culturali europee e infine presiedette l’autorità che tutela la privatezza delle persone. Ha scritto molti libri di diritto, è docente universitario, ha lanciato il referendum sull’acqua pubblica e collabora al nostro giornale fin dal primo numero scrivendo sui temi che più lo interessano.
I grillini, nelle loro “quirinarie” su Internet, l’hanno scoperto e piazzato al terzo posto d’una loro lista di candidabili al Quirinale, dopo la Gabanelli e Gino Strada. I due che lo precedevano hanno ringraziato ma rifiutato, lui ha ringraziato e accettato. Il resto è noto.
Rodotà si è pubblicamente rammaricato perché il Partito democratico e i vecchi amici non l’hanno contattato. Essendo tra questi ultimi debbo dire che neanche lui ha contattato me. Che cosa avrei potuto dirgli? Gli avrei detto che non capisco perché una persona delle sue idee e della sua formazione politica, giuridica e culturale, potesse diventare candidato grillino per la massima autorità della Repubblica.
Il Movimento 5 Stelle, come è noto, vuole abbattere l’intera architettura costituzionale esistente, considera l’Europa
una parola vuota e pericolosa, ritiene che i partiti e tutti quelli che vi aderiscono siano ladri da mandare in galera o a casa «a calci nel culo». Come puoi, caro Stefano, esser diventato il simbolo d’un movimento che impedisce ai suoi parlamentari di parlare con i giornalisti e rispondere alle domande? Anzi: che considera tutti i giornalisti come servi di loschi padroni? In politica, come in tutte le cose della vita, ci vuole il cuore, la fantasia, il coraggio, ma anche il cervello e la ragione.
* * *
Adesso Napolitano farà un governo, è la cosa più urgente della quale ha bisogno il Paese. Naturalmente un governo politico come tutti i governi che hanno bisogno della fiducia del Parlamento. Un governo di scopo, adempiuto il quale passerà la mano o proseguirà se il Parlamento lo vorrà.
Il governo seguirà le indicazioni di scopo che il Capo dello Stato gli affiderà in parte già contenute nel documento dei “saggi” a lui consegnato una decina di giorni fa e già reso pubblico. Ai primi posti ci sono la riforma della legge elettorale, la riforma del Senato, la riforma del finanziamento dei partiti, una politica economica che, nel rispetto degli impegni già presi con l’Europa, adotti provvedimenti mirati alla crescita e all’equità per alleviare al più presto e il più possibile la morsa della recessione, iniettando liquidità nelle imprese, alleggerendo il cuneo fiscale, modificando l’Imu per quanto riguarda le piccole imprese e le famiglie meno abbienti, infine sostenendo socialmente gli esodati e i lavoratori precari.
Quanto ai partiti, anch’essi hanno bisogno d’una profonda riforma, tutti, nessuno escluso. Il Partito democratico ha bisogno addirittura d’una rifondazione. Ne avrebbe bisogno più di tutti il Pdl, ma lì c’è un proprietario ed è impossibile riformarlo se non licenziandolo; ma è possibile licenziare il proprietario?
Il Pd non ha proprietari, non c’è un Re nel Pd. Però ci sono i vassalli l’un contro l’altro armati. È una fortuna non avere un Re ma è un terribile guaio esser dominati da vassalli e valvassori. Questo è il problema che dev’essere risolto.
Bersani, credo in buona fede, pensava d’averlo modificato rinnovando il grosso della rappresentanza parlamentare, ma non è stato così. Riempire i seggi parlamentari con persone alla prima loro esperienza, mantenendo però in piedi un ristrettissimo apparato, aumenta la partecipazione della base soltanto nella forma ma non nella sostanza. I nuovi eletti seguono più l’emotività che la ragione e l’esperienza debbono ancora farsela. Qual è la società che vogliono? Qual è l’interesse generale che dovrebbero perseguire? Non mi sembra che questa visione del bene comune sia chiara nelle loro teste e in quelle dell’apparato meno ancora. Si scambia l’interesse generale con quello del partito e l’interesse del partito con
quello della corrente cui si appartiene. Questo è accaduto negli ultimi mesi ed ha raggiunto il culmine negli ultimi giorni. Oggi si lavora sulle rovine prodotte da mancanza di senno e da miserabili interessi di fazioni contrapposte.
Bisogna guardare alla nazione e bisogna guardare alla costruzione d’una Europa che sia uno Stato federale che ci contiene. Se questi dati di realtà non entrano nelle teste della classe dirigente, non ci sarà mai né una destra decente né una sinistra efficiente. Gli impuri diventeranno legione, i puri saranno velleitari e inconsapevoli. Carne da cannone.
I grillini? Anche lì c’è un proprietario e anche lì i puri sono carne da cannone. La discontinuità va bene se aggiorna ma non distrugge il patrimonio di esperienze della nostra storia repubblicana nel bene e nel male.
L’Italia l’hanno fatta Mazzini, Cavour e Garibaldi, diversissimi tra loro ma oggettivamente complementari. E se vogliamo giocare alla torre e si deve scegliere tra Gramsci e Togliatti, scelgo Gramsci. E se debbo scegliere tra Andreotti e Moro scelgo Moro. Tra Togliatti e Berlinguer scelgo Berlinguer. Infine scelgo Napolitano perché, purtroppo per noi, non trovo altro nome da contrapporgli. Ti chiedo scusa, caro Stefano, con tutto l’affetto e la stima che ho verso di te, ma il nome Rodotà in questo caso non mi è venuto in mente.

La Repubblica 21.04.13

Parlamentari Pd “Napolitano oggi la miglior risposta possibile”

La nota di Baruffi, Galli, Ghizzoni, Guerra, Kyenge, Patriarca, Pini, Richetti e Vaccari. I parlamentari modenesi del Pd Baruffi, Galli, Ghizzoni, Guerra, Kyenge, Patriarca, Pini, Richetti e Vaccari hanno convintamente votato Giorgio Napolitano, dopo che sono state bruciate le due candidature di Marini e Prodi. “Non ci sono scusanti per quanto accaduto in precedenza – scrivono – restava solo il dovere di porre rimedio in fretta per restituire al Paese certezza e stabilità istituzionale. E la migliore risposta possibile è oggi il presidente Giorgio Napolitano”.
«Abbiamo convintamente votato Giorgio Napolitano. Un voto conseguente agli esiti delle votazioni di giovedì e venerdì, in cui si sono bruciate le candidature di Marini e Prodi. Giovedì scorso, abbiamo interpretato la richiesta giunta dagli elettori del territorio, dal gruppo dirigente e dagli amministratori locali dichiarando pubblicamente l’astensione sul voto a Franco Marini e invocando una pausa di riflessione. Una posizione non residuale all’intero dei grandi elettori democratici, alla quale Bersani, Vendola e Tabacci hanno risposto con una candidatura in grado di ricomporre sia il partito sia la coalizione e capace di garantire un governo di cambiamento: Romano Prodi. Per piena responsabilità di 101 vigliacchi franchi tiratori del Pd questa opportunità per il Paese si è frantumata, trascinando a terra con sé la leadership di Bersani – al quale testimoniamo vicinanza e sostegno – e il futuro del Pd. Il maggior gruppo parlamentare della storia repubblicana, che ha quindi la responsabilità di individuare la candidatura per il Presidente della Repubblica, è diventato invece generatore di debolezza e di tensione. Non ci sono scusanti, mentre restava solo il dovere di porre rimedio, in fretta, per restituire al Paese certezza e stabilità istituzionale. E la migliore risposta possibile è – oggi – il Presidente Giorgio Napolitano. L’unico, peraltro, in grado di superare la soglia dei 504 voti richiesti. Molti ci hanno chiesto in questi giorni di sostenere la candidatura di Stefano Rodotà. Certo, il costituzionalista già Garante della privacy, parlamentare di lungo corso e parlamentare europeo, ha l’esperienza e il prestigio accademico utili a ricoprire tale carica istituzionale. Ma non può sfuggire, ai richiedenti, che il radicalismo assunto da Rodotà, sommato alle argomentate ma pur sempre dure critiche al riformismo del Pd espresse fin dalla sua nascita, impediscono alla comunità democratica di convergere nella sua interezza sul suo nome. Pertanto la sua figura non poteva, nei fatti, raccogliere i necessari 504 voti. Grossolani errori commessi dal Pd – errori di conduzione delle fasi di votazione e di analisi politica – troppi veti incrociati dei partiti (e dei loro elettori) e poca lealtà politica hanno reso tormentata l’elezione del dodicesimo Presidente della Repubblica. Giorgio Napolitano saprà mettere nuovamente al servizio del Paese la sua statura morale e il suo senso delle istituzioni. Mentre scriviamo, Grillo invoca alla marcia su Roma contro il Parlamento. Apprezziamo che Rodotà si sia dissociato».

L’addio di Bersani «Uno su quattro tra noi è un traditore», di Simone Collini

«Abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta. Sono saltati i meccanismi di responsabilità e di solidarietà. Uno su quattro di noi ha tradito. Per me è inaccettabile». È l’ora più drammatica per il Pd. E per Bersani. Le dimissioni, smentite alle otto della sera dal quartier generale del partito, poche ore dopo vengono annunciate dallo stesso segretario davanti ai parlamentari riuniti al Capranica. Il leader democratico non solo rinuncia definitivamente all’idea di guidare quello che in questi cinquanta giorni ha definito un «governo di cambiamento», ma va all’assemblea dei grandi elettori del Pd e annuncia le proprie dimissioni, spie- gando che saranno effettive non appena verrà eletto il prossimo Capo dello Stato: «Non posso accettare il comportamento di oggi. Per me è troppo». Poi l’annuncio dell’addio, di fronte a un’attonita assemblea. «Continuerò a dare una mano. I capigruppo con me devono da subito contattare le altre forze politiche per trovare una soluzione definitiva sul Quirinale. Noi da soli il Presidente della Repubblica non lo facciamo». Poche parole, cariche di amarezza, al termine delle quali Bersani lascia l’assemblea del Capranica. Dando un’ultima indicazione: oggi il Pd si asterrà e voterà scheda bianca alla quinta votazione per il Quirinale.

TERREMOTO IN AULA

Il terremoto che si è abbattuto sul centrosinistra e sui democratici con la mancata elezione di Prodi sta già provocando una drammatica reazione a catena che difficilmente si arresterà nel giro di qualche giorno. Lo scontro nel Pd è tra le diverse correnti, è generazionale, è tra partito centrale e federazioni territoriali, tra gruppo dirigente e gruppi parlamentari. E una ricomposizione al momento appare assai difficile. Bersani a sera, riunendo nel suo studio a Montecitorio i capigruppo Speranza e Zanda, il vicesegretario Letta e Franceschini e Finocchiaro, non nasconde la sua amarezza, la sua irritazione per quei 101 franchi tiratori che hanno affossato la candidatura di Prodi. Già in mattinata, aprendo l’assemblea dei grandi elettori in cui aveva proposto la candidatura del Professore, aveva lamentato l’atteggiamento mostrato nella votazione su Marini: «Non siamo stati in grado di corrispondere alle nostre responsabilità e non abbiamo dato buona prova».

La botta sulla candidatura di Prodi è però anche peggiore. E mentre a Bersani non resta che prendere atto della mancata tenuta del suo partito, mentre l’alleanza tra Pd e Sel sembra un ricordo alla luce dello scambio di accuse su chi ha votato Rodotà, mentre fioccano le ciritiche alle primarie per scegliere parlamentari che sembrano rispondere più al territorio che ai gruppi dirigenti del partito e dei gruppi, i sospetti incrociati tra i parlamentari democratici si sprecano: c’è chi dà la colpa di quei voti mancanti per Prodi ai dalemiani, irritati perché Bersani nell’assemblea mattutina ha proposto la candidatura secca del Professore anziché far scegliere tra una rosa in cui ci fosse anche il nome di D’Alema, chi punta il dito sugli ex-popolari, irritati per il trattamento riservato a Marini, chi tira in ballo Renzi facendo notare che è stato il primo ad archiviare la candidatura di Prodi prima ancora che il Professore comunicasse il suo ritiro. E c’è chi parla addirittura di un patto tra D’Alema e Renzi, il primo destinato al Quirinale e il secondo a Palazzo Chigi.

L’unica certezza, per Bersani, è che con un partito in queste condizioni è impensabile provare ad andare avanti. L’ipotesi «governo di cambiamento» viene data per definitivamente archiviata, e ora nel Pd si inizia a ragionare sull’opzione governo del presidente, con probabile guida di Enrico Letta. Ma ripercussioni sono anche nel partito. E le dimissioni di Bersani sono soltanto un primo passo.

In serata, quando si è iniziata a diffondere la voce del possibile passo indietro del segretario, dal quartier generale del Pd è partita una smentita. Ma nelle ore dopo il quadro è cambiato. Troppe tensioni, troppe lacerazioni. Bisognerà vedere come si muoveranno ora le diverse componenti del partito e anche quale linea prevarrà sul Quirinale, visto che tra i democratici c’è chi sostiene che bisognerebbe votare Rodotà e chi pensa che una soluzione possa essere la rielezione di Napolitano. Ma le incognite sono ben maggiori.

L’avvio della fase congressuale del Pd si avvicina e Renzi si prepara. Il sindaco di Firenze respinge le accuse di aver affossato la candidatura di Prodi: «Per tutto il giorno di oggi sono stato accusato su Facebook di sostenere una candidatura, quella di Prodi. Adesso l’accusa è opposta: aver complottato contro la candidatura Prodi. Se non ci fosse di mezzo l’Italia ci sarebbe da ridere». Tra i parlamentari a lui più vicini sono però in molti a criticare la gestione di questa crisi, con Paolo Gentiloni che parla di «cupio dissolvi micidiale» e Matteo Richetti che dice lapidario: «Il Pd non c’è più». Non è però solo tra i renziani che si chiede l’apertura di una nuova stagione. Dice Matteo Orfini: «È la fine di un ciclo, il gruppo dirigente del Pd è dimissionario di fatto. Spero che riusciremo a chiudere presto questa fase».

L’Unità 20.04.13

"Se una donna uccisa è una notizia qualsiasi", di Natalia Aspesi

Sta diventando una notizia qualsiasi, anche un po’ ripetitiva, quindi sempre meno interessante, basta prima pagina e titoloni, quasi sempre sensazionali e sbagliati, inutili i commenti, tanto ormai si è detto tutto, e arzigogolato su tutto. Ne hanno ammazzato un’altra e un’altra ancora, una si sono accontentati di sfigurarla, e avanti
così. È come se fosse diventata un’abitudine farlo e subirlo, e una barba venirne informati. Ci indigniamo? Riempiamo le piazze? Chiediamo giustizia? Pretendiamo che non succeda più? Mah, ci si è logorati anche a protestare. E poi, mentre si è lì a dire la nostra, con cartelloni e cori, ecco che da qualche parte ne ammazzano un’altra. Per le istituzioni era un impiccio prima, figuriamoci adesso, c’è ben altro da pensare con il casino politico sempre più contorto.
Certo col famoso rinnovamento che per ora si è accasciato, si troverà forse il tempo di buttar lì un volonteroso pensiero: ma intanto chissà, persino in quella folla di italiani pro o contro Marini o Prodi o chiunque altro, che fuori da Montecitorio brucia la tessera pd, sventola bandiere pdl, mostra cartelli grillineschi, magari c’è uno, c’è una, che prossimamente, in un momento di sospensione per la passione civile, torneranno ad essere solo un uomo e una donna, e l’uomo sarà accecato da una più funesta passione e taglierà la gola alla donna che ne è la causa. Perché si sta chiarendo il fatto che gli uomini che ammazzano o tentano di ammazzare mogli, ex mogli, fidanzate, ex fidanzate, ragazzine spensierate e pure prostitute, non appartengono a mondi separati dal nostro, non sono pazzi, poveracci, immigrati, o comunque gente lontana: non è solo il vecchio miserabile marito che, in un tugurio di Kabul, si risveglia dal coma e si getta sulla giovane bellissima moglie, nel meraviglioso film dell’afgano Rahimi, “Come pietra paziente”.
I codici del comportamento feroce e vendicativo maschile non conoscono classi, né culturali né economiche: così una delle ultime vittime di questi giorni è un’avvocatessa di 35 anni, che a Pesaro è stata sfregiata con acido solforico e, oltre ad avere il viso distrutto, rischia la cecità. Per ora è andato in prigione un avvocato che era stato suo compagno sino a due anni fa, accusato di essere il mandante di un sicario prezzolato, per provocare non la morte, ma la cancellazione del viso che lo ossessionava, il viso di un nemico colpevole di non appartenergli più. L’uomo si dice innocente, ma per ora non gli credono, e comunque la vittima non è, come ci si ostina a voler credere, una donna delle periferie sociali, ma una persona nota nella sua città, in un ambiente professionale e borghese. Pensi: ma in questi giorni di sconquasso politico e di disastro economico, l’interesse sarà tutto per quello che sta succedendo, perché è la vita di tutti noi che è in gioco. E invece c’è chi la vita la rifiuta, e non gliene importa niente di quel che succede a Montecitorio o nel paese: è chiuso nella sua disperazione e impotenza come a Roma la guardia giurata che non poteva certo perder tempo ad ascoltare di elezioni e di disoccupazione, o magari manifestare come tanti davanti al Parlamento, quel che contava era punire la moglie che non lo voleva più. Lei stava scappando, lui stava inseguendola, tutti e due in macchina, zigzagando pericolosamente come in un thriller. Lui l’ha raggiunta, dal finestrino le ha sparato sei colpi con la pistola di ordinanza, poi si è sparato: lei morta, lui in fin di vita.
Ma qui da noi non si perde tempo, i codici dell’onore e della vendetta hanno fretta: così lo stesso giorno a Montebelluna tutto il corpo e l’anima e l’immaginazione di un rappresentante di materassi quarantenne è bloccato sul corpo, sull’anima, sull’immaginazione dell’ex fidanzata di 22 anni, segretaria nello studio di un commercialista: per riconquistarla lui aveva persino comprato un’intera pagina del
Gazzettino di Treviso per dirle: «Sono pazzo di te». Poi si era fatto sempre più aggressivo e Denise lo sveva denunciato per molestie ai carabinieri: i quali lo avevano diffidato, sai quanto gliene importa a uno che non è genericamente pazzo, ma pazzo della preda che gli è sfuggita e che non se lo deve permettere. Ha aspettato che uscisse dall’ufficio e le ha sparato alla nuca, poi si è sparato. Escono libri a decine (e l’ultimo è L’ho uccisa perché l’amavo di Loredana Lipperini e Michela Murgia), si fanno spettacoli di grande successo che girano l’Europa (“Ferite a morte” di Serena Dandini): li leggono in tanti, li vanno a vedere in tanti, e ne discutono, donne e soprattutto uomini, deprecando. Se la ricordassero tutti, quell’emozione, quell’indignazione provata con quelle storie vere. Soprattutto gli uomini, anche quando la loro donna non vuole più essere loro: il dolore si può sopportare. E si svegliassero anche le forze dell’ordine che pure hanno già tanto lavoro: se una donna denuncia molestie, è perché ha un probabile futuro di vittima; magari non accontentarsi di una diffida, fare una piccola indagine…

La Repubblica 20.04.13