attualità, politica italiana

"I limiti dell'emergenza", di Ezio Mauro

Una cornice drammatica più che solenne ha accompagnato ieri il giuramento di fedeltà alla Costituzione e alla Repubblica di Giorgio Napolitano, appena rieletto capo dello Stato. Il vecchio Presidente si è commosso più volte durante il suo discorso davanti alle Camere riunite in seduta comune. Ma lui stesso ha voluto richiamare il dramma di una politica che 56 giorni dopo il voto non riesce a dar forma alle istituzioni democratiche e dopo cinque votazioni nulle, «in un clima sempre più teso», deve richiamare in servizio il capo dello Stato uscente, con uno strappo alla prassi costituzionale pienamente legittimo «ma eccezionale»: giustificato solo dal rischio di un avvitamento del sistema nel vuoto di un Parlamento indeciso a tutto.
Napolitano vede dunque la sua rielezione come la scelta estrema di un mondo politico prigioniero dell’impotenza, incapace di autonomia nelle sue scelte, protagonista davanti ad un Paese disincantato di uno spettacolo inconcludente. Ma qui il Presidente sceglie di dare al suo secondo mandato un tono di denuncia esplicita, con un atto d’accusa preciso ai partiti, ai loro dirigenti, ai governi, ai parlamentari, chiamati in causa davanti ai cittadini «per una lunga serie di omissioni e di guasti, di chiusure e di irresponsabilità».
L’elenco è impietoso. Nessuna risposta decente alle richieste di rinnovamento della politica e dei partiti, prima di tutto: e se anche questi ritardi sono stati ingigantiti da campagne distruttive perché invitavano a non distinguere, facendo di ogni erba un fascio, nessuna «autoindulgenza » è possibile per questi continui «nulla di fatto», anzi i loro responsabili sono colpevoli quanto i protagonisti di atti di corruzione.
La colpa più “imperdonabile” è naturalmente la rinuncia a cambiare la legge elettorale del “porcellum”, con quel premio sproporzionato nel regalo di una “sovra-rappresentanza” che il Pd non è riuscito a governare, e con l’impossibilità per i cittadini elettori di scegliere i loro rappresentanti. Il Presidente si chiama fuori da queste responsabilità del sistema ricordando la sua insistenza per le riforme, che i partiti hanno ignorato. Ma avverte che davanti all’emergenza le cose cambieranno: «Se mi troverò di nuovo davanti a sordità come quelle contro cui ho cozzato nel passato, non esiterò a trarne le conseguenze davanti al Paese».
È un programma per il nuovo mandato che durerà finché dureranno la crisi e le forze del Presidente. Ma il capo dello Stato, rifiutando pretese “salvifiche” e imponendosi anzi dopo la rielezione un particolare “senso del limite”, intende giocare un ruolo preciso nella crisi del meccanismo politico e istituzionale, incalzando i partiti e spingendoli verso quelle riforme sempre promesse, mai realizzate e ormai indispensabili per la sopravvivenza del sistema.
Un impianto “pertiniano”, se non fosse per la crisi di fiducia che cresce attorno al Parlamento e ai partiti, al loro distacco dai cittadini, alla drammatica questione sociale aperta attorno al tema capitale del lavoro e della prospettiva di futuro. Qui Napolitano si è rivolto anche ai grillini, spiegando come predicare un cambiamento disincarnato da questi problemi serva a poco, come la nuova battaglia politica si giochi dentro le Camere e non contrapponendo piazza e Parlamento, oppure rete e partiti, perché è nei partiti che in tutto il mondo si gioca la vera partecipazione democratica dei cittadini.
Al centro di questa cornice d’emergenza, c’è un governo d’emergenza. Napolitano non mette nemmeno in dubbio che il governo possa nascere. Anzi, intende vararlo senza indugio, senza badare alle formule e puntando solo alla fiducia delle due Camere. Ai partiti ha detto con durezza che i risultati elettorali possono piacere o no, ma non si possono cambiare: e quei risultati dicono che nessun partito o coalizione può governare con le sue sole forze. Dunque, qualunque patto si sia fatto con gli elettori, per il Presidente c’è oggi la «necessità » tassativa di «intese tra forze diverse» per far nascere un esecutivo. L’alternativa è una dichiarazione di ingovernabilità. Non è però per questo che ho accolto l’invito a prestare un nuovo giuramento da Presidente, dice Napolitano, ma per dare un governo al Paese. Dunque un programma esplicito, con qualcosa di più: la conferma che “la posta implicita” dell’invito alla riconferma per il capo dello Stato uscente era l’impegno delle forze politiche a prendersi «le loro responsabilità ».
Il quadro in cui si muoverà il Presidente è dunque chiaro. Interventismo sulle riforme del sistema e della politica, pressing pubblico sui partiti perché si arrivi ad una soluzione condivisa di governo. Napolitano denuncia «l’orrore per ogni ipotesi di intese, alleanze, mediazioni e convergenze tra forze diverse» come «segno di una regressione», di tipo politico e culturale, ricordando che in Europa non c’è oggi nessun Paese governato da un solo partito.
La strada della nuova legislatura è quindi tracciata, il vuoto della politica e la sua inconcludenza – di cui sono colpevoli tutti gli schieramenti che si sono confrontati inutilmente in questi 56 giorni – produrrà un governo largo, basato sul programma dei “saggi” che Napolitano rivendica, cercando di mettere mano alla legge elettorale, alle misure capaci di dare un po’ di respiro all’economia e al dramma del lavoro, sapendo che il rischio Italia sta di nuovo risalendo in Europa e in particolare in Germania. Governissimo, governo delle larghe intese, governo di scopo, governo del Presidente? Napolitano ha detto di lasciar da parte le formule e le denominazioni, ma è chiaro che ognuna di queste soluzioni comporta gradi diversi di coinvolgimento dei partiti-avversari di destra e di sinistra, e dunque gradi diversi di difficoltà, in particolare per il Pd, che non regge una vera intesa con Berlusconi, dopo averlo combattuto per vent’anni denunciando la sua anomalia.
Resta dunque il problema delle identità dei partiti da preservare, delle differenze da salvaguardare, delle opinioni pubbliche di riferimento da considerare, soprattutto nei momenti in cui i gruppi dirigenti perdono autorità e prestigio, come capita in queste settimane al Partito democratico. Gruppi parlamentari senza guida e senza bussola si possono indirizzare, soprattutto davanti al rischio di scioglimento, partiti esausti e leadership estenuate dagli errori si possono convincere. Ma rimangono le opinioni pubbliche, che contano sempre di più, e che conservano a dispetto delle sconfitte e delle delusioni un sentimento vivo delle identità politiche, delle necessità, delle opportunità ma anche delle incompatibilità. A questi cittadini bisogna parlare, e non esclusivamente al ceto politico, se non si vuole soltanto spostare la crisi dal rapporto tra i partiti e lo Stato al rapporto tra i partiti e la loro base. E di loro bisogna tener conto, se si vuole ristabilire un circuito di fiducia tra gli italiani e il sistema politico- istituzionale.
Il compito del capo dello Stato si annuncia dunque difficile, più che nel primo mandato. Il suo impegno a formare il governo è il sentimento di un dovere, e va guardato con rispetto, anche perché la gestione di questo dovere deve rispettare a sua volta l’autonomia delle culture politiche, trovando soluzioni utili al Paese e valide anche per la sopravvivenza di un rapporto fiduciario tra i partiti e la loro gente: che non è un bene secondario, in un Paese smarrito.

La Repubblica 23.04.13

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“Sette anni dopo un bis senza gioia”, di FILIPPO CECCARELLI

ERA sempre un lunedì, ma senza nuvole, né pioggia, né le timide schiarite capricciose di ieri. Anche allora era primavera, 15 maggio 2006, ma quanto più dolce e sereno il clima! In tutti i sensi.
A MONTECITORIO Giorgio Napolitano giurò con voce tonante e solo a fine serata, nel cortile del Quirinale, brevemente si commosse, ma forse più che per lui fu per l’intensità dell’addio a Ciampi, che primo fra tutti l’aveva voluto sul Colle. Stava per compiere 81 anni, ma almeno in foto ne mostrava alcuni di meno. Oggi le agenzie riportano che è arrivato all’Altare della Patria «salendo le tante scale». A giugno gli anni saranno 88, e la questione anagrafica, il modo in cui il presidente della Repubblica ne ha parlato ieri pomeriggio alla Camera, s’imprime nella memoria per l’eleganza e la sincerità del tratto.
A volte gli archivi dei giornalisti trasmettono l’inconsapevole rimpianto della cronaca, ma anche – senza volerlo – la crudezza del presente. Così la prima elezione di Napolitano è un evento, se non gioioso, certo lieto nella sua compostezza, anche sul piano politico. Commentò Cossiga, uscendo dall’aula con un sorriso pensoso: «Il socialcomunismo è arrivato in pace e libertà al vertice delle istituzioni».
E neanche a dire che la situazione, pure allora, fosse tranquilla e distesa. Il centrosinistra di Prodi aveva vinto le elezioni con appena ventimila voti di vantaggio. Eleggere i presidenti della Camera e del Senato, soprattutto, non era stato né facile, né decoroso. Eppure, a rileggere gli articoli e anche solo a osservare le immagini, le figure, i titoli delle notiziole di colore, era quella un’Italia che si fidava ancora un po’ di se stessa e quindi anche del suo nuovo presidente – per quanto passato a maggioranza.
Quindi la festa dei vicini di casa, tra cui il «macellaio rosso» del rione Monti, Stecchiotti, detto «Pol-pet», e il fioraio, e il barista, e perfino il clochard, Angelo, che dormiva in un’auto sotto casa di Napolitano, auto fatta sgomberare dopo l’elezione, ma il giorno stesso tornata al suo posto per intervento presidenziale. E l’allegra sorpresa dei paesi delle vacanze del personaggio, da Capri a Stromboli a Capalbio; e l’orgogliosa felicità degli abitanti di Partenope, con l’immancabile terno personalizzato (13-81-88); e perfino il rianimarsi dell’«antica leggenda giornalistica» secondo cui il nuovo Capo dello Stato si dilettava a scrivere e a pubblicare raffinate poesie in napoletano con lo pseudonimo di Tommaso Pignatelli, con risoluta smentita quirinalizia, ma pazienza.
Il discorso del neo-eletto fu piuttosto istituzionale, ovvero tradizionale, farcito com’era di citazioni di illustri figure: De Nicola, Einaudi, Croce, Martino, più il binomio De Gasperi-Togliatti, un accenno alla Jotti, un altro all’europeismo
di Spinelli, quindi un omaggio a Ciampi e uno a Papa Ratzinger. Ma molto meno bello e toccante, va anche detto, di quello pronunciato ieri, che rispecchia nettamente un’Italia accoratissima, sull’orlo del disastro, non solo istituzionale.
Al giorno d’oggi sette anni sono un’infinità. E se lo scampanio che risuonava in cima a Montecitorio all’arrivo del rieletto presidente non servisse anche, per antica credenza, a tenere lontani i diavoli, la più desolante e demoniaca
delle tentazioni sarebbe quella di pensare che il suo primo settennato è passato invano e a nulla è servito.
Allora Napolitano fece appello in definitiva alla «maturità» della classe politica, auspicando una «adulta» democrazia dell’alternanza. Quelli che oggi in Parlamento fin troppo l’applaudivano ascoltando la sua rampogna sono senza dubbio da considerarsi i traditori di quell’auspicio e quell’appello. E tuttavia l’hanno invocato e rieletto «come una figura paterna per amministrare la giustizia tra loro, per stabilire una tregua».
L’analisi è del professor Gustavo Pietropolli Charmet, psicoterapeuta di formazione psicoana-litica, uno dei massimi studiosi dei codici affettivi e specialista dell’età evolutiva: «Quello che resta del Padre nella società italiana è questa figura incarnata da Giorgio Napolitano – ha spiegato ieri a www.doppiozero.com – Un uomo, un padre che difende la Madre Patria dagli eccessi dei figli ebbri di potere e di vanagloria. La sua rielezione contiene questa indicazione: state calmi, prendiamo tempo per svelenire i conflitti,
diamo il potere di amministrare la giustizia a un fratello maggiore, poi vedremo cosa fare di questa eredità che volete spartirvi in modo cruento».
Ecco, vorrà anche dire qualcosa che oggi, per spiegare la politica, tornano utili gli psichiatri. Sette anni orsono il premier uscente Silvio Berlusconi ascoltò il discorso del Capo dello Stato a braccia conserte, concedendogli un paio di tiepidi applausi. Poco dopo dovette anche accompagnarlo all’Altare della Patria, di malavoglia, con la famosa Flaminia decappottabile – e fu ipotizzato dai soliti maligni giornalisti che per non sfigurare rispetto a Napolitano il Cavaliere sedeva su un apposito cuscino.
Ieri nessuna specialissima automobile d’epoca ha condotto Napolitano in giro per la città, e solo quattro motociclisti invece del coreografico squadrone che accompagnava i suoi predecessori. Vuol dire che la Repubblica si è messa a dieta anche sul piano cerimoniale. Ed è anche questa una novità drammatica e significativa, forse addirittura da accogliere con gratitudine, perché quando tutto va a scatafascio i riti enfatizzano il vuoto e le magagne.
Nel maggio radioso del 2006 sembrò che Giorgio Napolitano, primo della classe per natura e vocazione, non avesse fatto altro che le prove per diventare quello che era diventato. Nell’aprile tempestoso del 2013 l’anziano presidente dà corpo né più né meno che all’Autorità – là dove la maiuscola esprime la perduta dignità, ma anche la speranza di tenersela
stretta.

La Repubblica 23.04.13