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L’addio di Bersani «Uno su quattro tra noi è un traditore», di Simone Collini

«Abbiamo prodotto una vicenda di una gravità assoluta. Sono saltati i meccanismi di responsabilità e di solidarietà. Uno su quattro di noi ha tradito. Per me è inaccettabile». È l’ora più drammatica per il Pd. E per Bersani. Le dimissioni, smentite alle otto della sera dal quartier generale del partito, poche ore dopo vengono annunciate dallo stesso segretario davanti ai parlamentari riuniti al Capranica. Il leader democratico non solo rinuncia definitivamente all’idea di guidare quello che in questi cinquanta giorni ha definito un «governo di cambiamento», ma va all’assemblea dei grandi elettori del Pd e annuncia le proprie dimissioni, spie- gando che saranno effettive non appena verrà eletto il prossimo Capo dello Stato: «Non posso accettare il comportamento di oggi. Per me è troppo». Poi l’annuncio dell’addio, di fronte a un’attonita assemblea. «Continuerò a dare una mano. I capigruppo con me devono da subito contattare le altre forze politiche per trovare una soluzione definitiva sul Quirinale. Noi da soli il Presidente della Repubblica non lo facciamo». Poche parole, cariche di amarezza, al termine delle quali Bersani lascia l’assemblea del Capranica. Dando un’ultima indicazione: oggi il Pd si asterrà e voterà scheda bianca alla quinta votazione per il Quirinale.

TERREMOTO IN AULA

Il terremoto che si è abbattuto sul centrosinistra e sui democratici con la mancata elezione di Prodi sta già provocando una drammatica reazione a catena che difficilmente si arresterà nel giro di qualche giorno. Lo scontro nel Pd è tra le diverse correnti, è generazionale, è tra partito centrale e federazioni territoriali, tra gruppo dirigente e gruppi parlamentari. E una ricomposizione al momento appare assai difficile. Bersani a sera, riunendo nel suo studio a Montecitorio i capigruppo Speranza e Zanda, il vicesegretario Letta e Franceschini e Finocchiaro, non nasconde la sua amarezza, la sua irritazione per quei 101 franchi tiratori che hanno affossato la candidatura di Prodi. Già in mattinata, aprendo l’assemblea dei grandi elettori in cui aveva proposto la candidatura del Professore, aveva lamentato l’atteggiamento mostrato nella votazione su Marini: «Non siamo stati in grado di corrispondere alle nostre responsabilità e non abbiamo dato buona prova».

La botta sulla candidatura di Prodi è però anche peggiore. E mentre a Bersani non resta che prendere atto della mancata tenuta del suo partito, mentre l’alleanza tra Pd e Sel sembra un ricordo alla luce dello scambio di accuse su chi ha votato Rodotà, mentre fioccano le ciritiche alle primarie per scegliere parlamentari che sembrano rispondere più al territorio che ai gruppi dirigenti del partito e dei gruppi, i sospetti incrociati tra i parlamentari democratici si sprecano: c’è chi dà la colpa di quei voti mancanti per Prodi ai dalemiani, irritati perché Bersani nell’assemblea mattutina ha proposto la candidatura secca del Professore anziché far scegliere tra una rosa in cui ci fosse anche il nome di D’Alema, chi punta il dito sugli ex-popolari, irritati per il trattamento riservato a Marini, chi tira in ballo Renzi facendo notare che è stato il primo ad archiviare la candidatura di Prodi prima ancora che il Professore comunicasse il suo ritiro. E c’è chi parla addirittura di un patto tra D’Alema e Renzi, il primo destinato al Quirinale e il secondo a Palazzo Chigi.

L’unica certezza, per Bersani, è che con un partito in queste condizioni è impensabile provare ad andare avanti. L’ipotesi «governo di cambiamento» viene data per definitivamente archiviata, e ora nel Pd si inizia a ragionare sull’opzione governo del presidente, con probabile guida di Enrico Letta. Ma ripercussioni sono anche nel partito. E le dimissioni di Bersani sono soltanto un primo passo.

In serata, quando si è iniziata a diffondere la voce del possibile passo indietro del segretario, dal quartier generale del Pd è partita una smentita. Ma nelle ore dopo il quadro è cambiato. Troppe tensioni, troppe lacerazioni. Bisognerà vedere come si muoveranno ora le diverse componenti del partito e anche quale linea prevarrà sul Quirinale, visto che tra i democratici c’è chi sostiene che bisognerebbe votare Rodotà e chi pensa che una soluzione possa essere la rielezione di Napolitano. Ma le incognite sono ben maggiori.

L’avvio della fase congressuale del Pd si avvicina e Renzi si prepara. Il sindaco di Firenze respinge le accuse di aver affossato la candidatura di Prodi: «Per tutto il giorno di oggi sono stato accusato su Facebook di sostenere una candidatura, quella di Prodi. Adesso l’accusa è opposta: aver complottato contro la candidatura Prodi. Se non ci fosse di mezzo l’Italia ci sarebbe da ridere». Tra i parlamentari a lui più vicini sono però in molti a criticare la gestione di questa crisi, con Paolo Gentiloni che parla di «cupio dissolvi micidiale» e Matteo Richetti che dice lapidario: «Il Pd non c’è più». Non è però solo tra i renziani che si chiede l’apertura di una nuova stagione. Dice Matteo Orfini: «È la fine di un ciclo, il gruppo dirigente del Pd è dimissionario di fatto. Spero che riusciremo a chiudere presto questa fase».

L’Unità 20.04.13

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