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"La paura nelle vene dell’America", di Vittorio Zucconi

Le bombe sono arrivate dal nulla e hanno fatto riesplodere il senso di vulnerabilità di una nazione che sperava di averlo sepolto. Infatti nessuno, nell’immenso macchinario della sicurezza nazionale americana, ne sapeva nulla e ancora ne sa nulla, un vortice di vuoto che risucchia e alimenta la paura. Lo ha ammesso Barack Obama, che rifiuta di usare la parola «terrorismo».
Neppure lui sa «chi» o «perché», dice. Eppure l’attacco è stato un’offensiva coordinata, preciso, teleguidato e ideologicamente mirato. Ha colpito i simboli più alti dell’America che il mondo ama e odia, Boston, la culla dell’Indipendenza, il giorno della Festa solenne del Patriota ribelle nel primo sparo contro l’impero britannico, la maratona che aveva raccolto entusiasti da 56 nazioni. E in diretta tv, per ottenere il massimo effetto.
Chiunque abbia progettato questo attentato, e fatto saltare probabilmente con segnali dal telefonino quegli ordigni in sequenza, sapeva che ci sarebbero state telecamere per l’arrivo della Maratona di Boston. E dunque la paura, non i molti morti, i cento feriti, le vittime o i danni, era il bersaglio. Bersaglio centrato.
Nella semplice, quanto vile «intelligenza » dell’assassino, o assassini, ancora senza un profilo, ma con un preciso movente di odio antiamericano, la più inoffensiva e pacifica delle manifestazioni popolari, come una maratona rappresenta un palcoscenico ideale per riesumare in un’America che se ne stava dimenticando il fantasma del terrore. Quindici mila uomini e undici mila donne, venuti da 56 nazioni, alcuni arrancando in carrozzella e muovendosi su protesi, si erano ritrovati per competere o soltanto partecipare a una competizione che di fatto è soltanto una festa popolare, organizzata nella Giornata del Patriota. È la commemorazione che lo Stato del Massachusetts organizza per celebrare la battaglia di Lexington, che segnò nell’aprile del 1775 l’inizio della guerra di Indipendenza e dunque della nascita degli Stati Uniti.
La povere della smemoratezza, e della indifferenza, che lentamente era scesa sul ricordo dell’11 settembre e aveva permesso all’America di illudersi che i fanatici fossero stati sconfitti o si fossero arresi, è stata soffiata via dalle quello spostamento d’aria e da quelle piume rosse e gialle di fuoco che i fotogrammi delle esplosioni hanno immortalato. Non soltanto a Boston la polvere si è alzata, dove la Guardia Nazionale, la forza armata di volontari che in ogni Stato riproduce lo spirito dei “Minutemen”, dei ribelli del 1775, è stata immediatamente mobilitata e schierata a difesa delle strade e dei luoghi più cruciali, come le centrali nucleari.
In tutte le metropoli della Costa Atlantica, il piano per le grandi emergenze e i dispositivi anti terrorismo sono entrati in azione. Cieli chiusi sopra Boston, la città dalla quale decollarono gli aerei lanciati contro le Torri Geme; a Washington, nelle strade attorno a Lafayette Square e alla Pennsylvania Avenue, l’arteria della democrazia rappresentativa fra il Congresso e la Casa Bianca, i posti di blocco hanno isolato e dirottato il traffico civile. A Manhattan non soltanto le zone più turistiche, ma soprattutto i ponti e tunnel che collegano l’isola al New Jersey, a Brooklyn, a Queens, sono presidiati dalle 3 di ieri, quando la prima bomba è esplosa, subito seguita da una seconda, da una terza e forse da altre, disinnescate.
L’ultimo miglio della Maratona di Boston, quello che metà dei partecipanti aveva già percorso e l’altra metà ha percorso barcollando incredula fra i rottami, i detriti e il sangue che le telecamere inquadravano e rilanciavano nel mondo, è stato l’ultimo miglio del falso senso di sicurezza che da più di dieci anni ormai aveva cullato gli americani. Dai giorni, ancora molto oscuri, delle buste con le spore dell’antrace che seguirono il massacro delle Torri e del Pentagono, il serbatoio dell’angoscia era rimasto quieto sotto la superficie. Altri terrori avevano lentamente, quanto inevitabilmente, rimpiazzato i ricordi di quei giorni, concentrandosi sulle catastrofi della finanza e poi dell’economia, o sugli orrori delle stragi di innocenti nei cinema o nelle scuole elementari.
Ma il genio malefico che nessuna spedizione militare, nessuna illusione ideologica, nessuna invasione ha mai potuto esorcizzare, era ancora vivo, dormiente. Altri attentanti, come nella metropolitana di New York, come a Times Square, come sulla tomba di Martin Luther King da parte di terroristi neo nazi, sventati, avevano scosso per pochi momenti il sonno della paura, ma da quel settembre del 2001 non c’erano più state
vittime dirette di azioni terroristiche. E se le autorità hanno esitato a lungo prima di proclamare ufficialmente che questi di Boston erano attentati, le circostanze — le esplosioni in sequenza, per massimizzare lo shock — il momento, la celebrazione dell’americanità nella incubatrice della propria storia, la giornata di festa con una folla di spettatori assiepati lungo quell’ultimo miglio, lasciano aperta ogni ipotesi sui responsabili, ma non sulla natura dell’attacco. Colpire il cuore della storia Usa.
Nel vortice di possibilità e di attribuzioni che ieri sera turbinavano — la Cnn aveva ricordato che la giornata coincideva con il 101esimo anniversario della nascita dell’“Amato Padre” della Corea comunista, Kim il Jong, possibile giorno della «vendetta» anti Usa — la sola verità già accertata è la vulnerabilità di una nazione, e di una società, che non può garantire sempre e ovunque la protezione dei propri cittadini. Se sono rafforzati e sigillati i trasporti aerei, restano spalancati i treni. Se si installano metal detector agli ingressi delle scuole superiori, non si possono sigillare gli ospedali. E una festa popolare con centinaia di migliaia di spettatori e quasi 40 mila partecipanti non può essere trasformata in quelle lugubri parate militari sovietiche sulla Piazza Rossa, nel cuore di una Mosca militarizzata e svuotata attorno. A lungo, in futuro, non ci saranno altre maratone, altre feste popolari, senza il pensiero di quelle piume di fumo e fuoco a Boston.
Obama era nello Studio Ovale quando Lisa Monaco, la sua assistente per la Sicurezza interna, lo ha avvertito e ha subito preparato le poche parole che avrebbe detto più tardi nella serata. Ma non c’era molto che lui, o il vice Biden, che l’ha scoperto guardando la tv accesa nel proprio ufficio alla Casa Bianca, il governatore del Massachusetts Patrick o nessun altro potesse fare per rinchiudere nella bottiglia il genio malefico della paura che ne era uscito. Nessuno di loro, nessuna autorità, ha ancora la più vaga idea di chi abbia armato questi ordigni, fortunatamente molto artigianali, molto rozzi e senza C4 o plastico, l’esplosivo preferito dai terroristi organizzati, e questa è la piccola consolazione che se ne può finora trarre.
C’è già chi parla di al Qaeda, chi ricorda le chiacchiere del dittatore nordcoreano, e chi nota che aprile è il mese del peggior attentato terroristico in territorio americano prima delle Due Torri, la strage di Oklahoma City compiuta da fanatici di estrema destra, e del massacro di Waco, Texas, quando le forze federali uccisero 82 seguaci di una setta arroccati in un edificio per 50 giorni. Aprile è il mese della tasse: ieri, il 15, era il “
tax day”, il giorno nel quale si deve pagare tributo, dunque il tempo dell’odio contro il governo federale «succhiasangue ». Ma il «chi» oggi è meno doloroso del «che cosa». Non c’è stato ieri sera un newyorkese, bostoniano, washingtoniano, un americano che non sia rientrato a casa chiedendosi se sul treno, sul ponte, sulla strada ci fosse, come per i soldati in Afghanistan, un ordigno pronto a esplodere.

La Repubblica 16.04.13