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«Una riforma: reintrodurre i pensionamenti volontari», di Valerio Rosa

Figura di rilievo del sindacalismo italiano degli anni 70 e 80, a lungo presidente della commissione sulla povertà, Pierre Carniti guarda sconsolato al triste spettacolo di un establishment incapace di affrontare la disoccupazione dilagante. «Quello di Civitanova è un episodio drammatico, che interpella la coscienza dei tanti che purtroppo invece sono o si ritengono del tutto estranei a queste tragedie. Ma è anche la conferma di come la misura adottata dal governo tecnico con la cosiddetta riforma delle pensioni, accanto ad elementi su cui si poteva discutere, ne aveva altri assolutamente incredibili. Penso in particolare ai fattori che hanno prodotto la situazione degli esodati, che non possono percepire la pensione ma nemmeno lavorare, anche per via della loro condizione anagrafica. La loro situazione di insicurezza e difficoltà è aggravata dal fatto di essere senza speranza e senza alcuna ragionevole prospettiva».
Che cosa avrebbe dovuto fare il governo?
«Dati per acquisiti i cambiamenti demografici, con la conseguente necesità di rivedere periodicamente la struttura del sistema pensionistico, bastava una riforma elementare: reintrodurre il pensionamento volontario previsto con la riforma Amato e con la riforma Dini e poi caduto in disuso per ragioni che mi risultano tuttora misteriose. In un sistema contributivo la fissazione di un’età pensionistica obbligatoria non ha nessuna ragion d’essere: decidendo diversamente questi tecnici si sono rivelati anche un po’ incompetenti, benché siano stati definiti esperti. Non si rendono conto che il lavoro resta un elemento fondamentale di cittadinanza e di appartenenza: essere senza lavoro non significa essere esclusi».
Stiamo conoscendo il dramma dei disoccupati in età avanzata…
«Questa è una specificità italiana. Nella Germania che tutti citano a modello c’è un incremento dell’occupazione anziana addirittura maggiore rispetto a quello dei lavoratori con età media, perché le aziende, a differenza delle nostre, che forse anche per questo non vanno tanto bene, ritengono che l’esperienza sia un fattore degno di essere preso in considerazione, sia per la qualità del prodotto sia per le innovazioni da introdurre nei sistemi di produzione. Da noi accade l’esatto contrario: dopo una certa età si è in esubero, esclusi, marginalizzati».
Chi giustifica l’azione del governo tira in ballo l’Europa…
«L’Europa ci chiede anche un po’ di sciocchezze, ad alcune delle quali noi ci siamo piegati, come il pareggio di bilancio del 2013, sottoscritto dal duo Tremonti-Berlusconi e poi confermato dal governo dei tecnici o presunti tali. Ma oltre a quello che ci chiede l’Europa non ci mettiamo del nostro con una politica depressiva. La riforma del lavoro ha aggravato molte situazioni, rendendo tutto più difficile. I nostri tre milioni di disoccupati sono una parte del tutto, perché bisogna aggiungervi i cassintegrati e gli scoraggiati, che dopo anni di tentativi inutili hanno rinun- ciato a cercarsi un lavoro. E visto che manca la domanda, noi cosa facciamo? Interveniamo sull’offerta, inventandoci gabole assurde e con- traddittorie. Dovremmo incremen- tare l’occupazione con iniziative di politica economica, e invece ci dedichiamo alle riforme istituzionali, alla legge elettorale, al superamento del bicameralismo… Giusto così: visto che non abbiamo problemi più importanti da affrontare, possiamo occuparci di cose non prioritarie e non essenziali… Sono impegnati da mesi in discussioni inutili e in parte anche ridicole. Come si diceva a scuola, il governo dei tecnici è andato fuori tema: o non aveva le compe- tenze e i mezzi per trattare il tema vero o aveva troppi vincoli».
Anche il sindacato è andato fuori tema?
«Il sindacato è in gravi difficoltà, in parte per ragioni oggettive: la situazione economica è quella che è, ma proprio per questo, e lo dico col dovuto rispetto essendoci passato anch’io, occorre una convergenza unitaria che io francamente non vedo. Sarebbe auspicabile una convergenza reale intorno ad alcuni obiettivi, ma se gli elementi di identità organizzativa finiscono per prevalere sulle necessità di coesione e di impegno comune sarà difficile raggiungere dei risultati. Bisognerebbe aprire una discussione sull’unità: non ci sono differenze culturali o di altra natura che in una situazione così drammatica possano giustificare una divi- sione e una contrapposizione». Secondo lei è anche per questo che una parte non piccola dell’opinione pubblica non ripone speranze nell’azione dei sindacati?
«Credo che non abbiano ancora raggiunto il livello di discredito dei partiti, ma sono sulla buona strada».

L’Unità 06.04.13