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"Impressioni di marzo", di Manuela Ghizzoni

“Quante gocce di rugiada intorno a me cerco il sole ma non c’è”

15 marzo 2013: primo vagito della XVII legislatura.
Tante, tante, tante facce sconosciute e normali (come normale penso sia la mia: forse non bella ma certamente normale).
Ai giornalisti interessano però solo quelle di un gruppo particolare, le altre no; le meno interessanti in assoluto sono quelle dei giovani eletti del PD (quando un giornalista che tenta l’approccio alla/al giovane deputata/o che veste casual e scopre che non è del M5S ma del Pd, se ne va sdegnato); evidentemente non sono abbastanza “normali”. Ma giudicate voi: a questo link http://www.camera.it/leg17/28 potrete vedere, per ordine alfabetico, il ritratto fotografico di ogni deputato e indovinare a che gruppo appartiene…
La giornata è dedicata a tre votazioni successive per la elezione del Presidente della Camera. Noi del Pd lasciamo scheda bianca. Perché? Per perdere tempo e sperperare denaro pubblico, come amplificano i nostri detrattori? No, è che per fare un pane buono occorrono ingredienti genuini e una lenta lievitazione, fattori che non possono certo essere spacciati per sperpero di denaro e perdita di tempo. Stiamo cercando, infatti, di ripristinare una antica prassi di democrazia agita: condividere la scelta di colei o colui che rappresenteranno la terza e la seconda carica dello Stato. A proposito: condividere non è sinonimo di prendere o lasciare. Lo dico perché mi pare che per il capogruppo al Senato del M5S abbia questo significato, almeno stando al suo video sulla giornata di ieri, nel quale afferma che Orellana (senatore M5S) era una candidatura di garanzia e che il PD non votandolo “ha perpetrato la rottura della prassi istituzionale” di affidare una Camera “alla maggiore forza di minoranza”. Ma non sarebbe forse il caso di fare un ripassino di Storia? Ma davvero abbiamo dimenticato quando, a partire dal 1968, a sedere sullo scranno più alto di Montecitorio stavano – ad esempio – Alessandro Pertini, Pietro Ingrao o la Nilde Iotti, eletti alla prima votazione con i voti dei due maggiori partiti, di maggioranza e opposizione? Quegli esiti erano frutto di intese (che poi qualcuno ha cominciato a chiamare inciucio, tanto per screditare le istituzioni) o, se preferiamo, dell’applicazione del principio di corresponsabilità, che in un Paese normale dovrebbe innervare ogni scelta pubblica. Insomma, una cosa molto diversa dallo scegliere autarchicamente un nome all’interno del proprio gruppo e imporlo agli altri. Appunto, prendere o lasciare.
Peraltro, la buona prassi alla quale anche Crimi fa riferimento – seppur distorcendone il senso nella variante: “io prendo questa, tu prendi quella” – fu interrotta il 16 aprile del 1994 con l’elezione della 31enne e neo deputata Irene Pivetti della Lega Nord. Innegabilmente una innovazione nello scenario politico: donna (la seconda a ricoprire quel ruolo), giovane e alla prima esperienza parlamentare. Ma quale reale cambiamento introdusse la sua elezione, se non l’“occupazione” di tutte le cariche istituzionali da parte della maggioranza, a disprezzo delle prerogative dell’opposizione? Non dimentichiamoci di Ronald Dworkin: «l´istituzione dei diritti è cruciale perché rappresenta la promessa della maggioranza alla minoranza che la sua dignità ed eguaglianza saranno rispettate». Insomma: non è detto che le novità siano sempre positive…
Dopo la terza votazione serale, è palese che il nostro tentativo di condivisione è destinato al fallimento. Per usare le parole di Franceschini: «Siamo partiti, appunto, dalla necessità di scelte ampie per individuare i presidenti delle Camere. Non una cosa targata solo Pd. Passaggio obbligato, se vogliamo far nascere il governo. Abbiamo provato con il M5S: un muro [per le ragioni di cui sopra. N.d.A.]. Abbiamo tentato anche con Monti: un altro muro. Con il Pdl non lo abbiamo trovato quel muro, per il semplice motivo che siamo stato noi ad alzarlo: con Berlusconi non facciamo intese».
I telegiornali della sera e della notte, così come tutti i talk-show (gli inconcludenti spettacoli televisivi del chiacchiericcio), cantano il de profundis del PD per la sua presunta incapacità ad innovarsi e ad innovare la politica.

“…e intanto il sole tra la nebbia filtra già il giorno come sempre sarà.”

16 marzo 2013: riscatto del Parlamento italiano nel giorno dell’anniversario del sequestro di Aldo Moro e dell’uccisione dei 5 uomini della scorta
Alle porte sbattute in faccia a oltre 10 milioni di italiani (cioè a quelli che hanno votato per la coalizione “Italia bene comune”) abbiamo risposto con la proposta di candidare alla presidenza di Camera e Senato personalità di profonda e “positiva innovazione”: Laura Boldrini e Pietro Grasso. La proposta, maturata (o “lievitata”) nel corso della notte, ci è riferita alla riunione di tutti i parlamentati della coalizione, convocata per le 8.15 di sabato mattina. È una bella sorpresa e lo manifestiamo con uno spontaneo e liberatorio applauso (a volte, come in questo caso, le parole non servono: sono più esplicativi i gesti) che dice: “è stata fatta la scelta migliore”. Prende poi la parola solo Dario Franceschini, per pochi minuti (ma quanto intensi devono essere stati per lui): pronuncia forse il suo discorso più importante, dal punto di vista politico e umano. Utilizza parole non ipocrite per dire che il bene comune viene sempre prima dell’interesse personale. Scatta un altro applauso, lungo e affettuoso. Una neo deputata lombarda, ma con alle spalle una solida esperienza amministrativa, si commuove alle lacrime e io penso che abbiamo le carte in regola per interpretare la buona politica, quella fatta di passi indietro, di passione e di coraggio.
Boldrini e Grasso: persone dalla storia personale non comune, che hanno speso la propria vita al servizio del Paese e degli ultimi e che hanno accettato una candidatura nella coalizione Italia bene comune. Nel loro primo discorso hanno pronunciato parole semplici e vere, di quelle che vanno dirette al cuore e alla mente. Insomma, con la candidatura e poi l’elezione di Boldrini e Grasso abbiamo dato prova, seppur da soli, che cambiare in meglio si può.
Non tutti hanno apprezzato, ovviamente. Pdl e Lega non si son certo spellati le mani ad applaudire i tanti passaggi dell’intervento della neo Presidente Laura Boldrini, dedicati agli “ultimi”. Lo hanno invece fatto i deputati del M5S: ma allora mi chiedo perché non l’abbiano votata. Ad ogni modo, è positivo che abbiano manifestato condivisione al discorso programmatico della Presidente: la distanza su molte questioni è, forse, più apparente che reale. Vedremo (e lo voglio sperare).
Al Senato, qualche ora più tardi, la soddisfazione è stata bissata con l’elezione di Pietro Grasso a Presidente. Per il regolamento della Camera Alta, alla quarta votazione si procede con il ballottaggio tra i due candidati più votati alla precedente votazione, che risultano essere Grasso e Schifani. Non penso che i senatori siano stati costretti ad andare su wikipedia per conoscere le biografie e il profilo pubblico dei due candidati. Insomma, due figure che certamente non sono sovrapponibili! Eppure per Scelta civica e per il M5S le così evidenti differenze nelle storie personali di Grasso e Schifani non sono state sufficienti per arrivare ad esprimere una opzione netta. Per inciso: situazione paradossale per una neoformazione politica che nella sua denominazione ha deciso di mettere la parola “Scelta”! Evidentemente, nella coalizione centrista ha prevalso non la ragione politica, bensì il risentimento di un Premier che dopo il deludente esito elettorale voleva farsi Presidente e al quale un Presidente più in alto di lui ha risposto “No, non si può fare”. Una vicenda davvero infelice, se posso dirlo con franchezza.
Il ballottaggio ha fatto scaturire nel M5S – riporto le parole del capogruppo Crimi espresse in video – “un bellissimo confronto, molto emozionante, un confronto acceso per quelle che sono le storie legate alla mafia e all’antimafia visto che avevamo in contrapposizione Schifani e Grasso, i due nomi la dicono tutta”. Secondo me è una bella cosa che all’interno di un gruppo politico (qualsiasi gruppo politico) si discuta, ci si confronti. E non mi interessa se il dibattito non è andato in diretta streaming: a me interessa la sintesi a cui è approdata la discussione, il resto è un inutile voyeurismo spacciato per trasparenza politica. Non so come valuteranno questa scelta i fans del “tutte le riunioni in diretta streaming” (immagino la delusione del sostenitore M5S che su FB ha scritto: “Quale forza politica vi dice cosa sta facendo in Parlamento? Sapete cosa stanno facendo gli eletti del PD, del PDL, del centro??? Ovviamente no… NOI INVECE VI DICIAMO TUTTO. E’ finita la politica nelle camere buie e quella degli accordi sotto banco… finalmente il Parlamento è il luogo dei cittadini.”) ma a me, ripeto, interessa la sintesi, che è stata, sempre per usare le parole di Crimi: “il gruppo è uscito all’unanimità con un’unica speranza, che era quella della non rielezione di Schifani. Questa è stata la coerenza del gruppo. In questa linea la quasi totalità del gruppo ha proseguito nel voto con la scheda bianca, nulla, qualcuno ha scritto Orellana che era il nostro candidato, qualcuno non ha votato. Insomma questa è stata la linea del Movimento. Nella cabina elettorale qualcuno ha agito in coscienza e quella è stata una grande espressione di libertà, di quello che è il nostro spirito, per cui il risultato alla fine ha visto Pietro Grasso vincere anche di larga misura su Schifani…” Trovo le parole di Crimi feconde di riflessioni: innanzitutto, l’auspicio espresso che Schifani non fosse rieletto è per me un importante punto di condivisione e una buona notizia, immediatamente adombrati però da un dubbio: ma se davvero come gruppo parlamentare non vuoi che l’ex presidente torni a fare il presidente allora ti limiti a stare alla finestra (cioè ti limiti a sperare: in cosa? Che a quale esponente leghista o del Pdl venga una necessità impellente che gli impedisca di partecipare al voto? Che i montiani abbiamo una resipiscenza nella cabina elettorale?) o agisci per scongiurare quell’eventualità? Il mero auspicio non è una assunzione di responsabilità, è un atteggiamento del peggior doroteismo. Non riesco pertanto a vedere tracce reali della coerenza invocata da Crimi. E tanto meno le vedo quando intesta la vittoria di Grasso su Schifani alla libertà di espressione e all’azione secondo coscienza: ma non usa parole nette anzi, potrei dire, riesce a dare un bell’esempio di perfetto politichese.
All’atteggiamento doroteo si sono sottratti alcuni senatori M5S che – come scrive Sardo, direttore dell’Unità – sono stati costretti a diventare dei “franchi tiratori” all’incontrario, per la decisione di non decidere assunta dal gruppo. Questa situazione ha fatto scrivere al megafono del Movimento un post durissimo, che in meno di 20 ore ha raccolto oltre 10mila commenti http://www.beppegrillo.it/2013/03/trasparenza_e_v/index.html Ho trascorso un bel po’ di tempo a leggerli. E non perché, come scrive qualcuno, “non dobbiamo massacrarci da soli. guardate che PD e company non aspettano che questo”, ma perché credo sia importante avere cognizione della reazione del base elettorale, del Capo e degli eletti del M5S di fronte alla prima decisione vera imposta dalla inedita presenza in Parlamento che è, per sua natura, il luogo delle scelte.
Scelte che non sono mai neutre e che sempre incidono sulla vita degli italiani. Fare proclami è un’altra cosa: più facile e suggestiva. Compiere scelte, invece, è più faticoso perché ci pone di fronte alle nostre responsabilità verso i cittadini. E quelle che ci attendono – l’elezione del Presidente della Repubblica, la nascita del nuovo Governo, dire sì o no ai singoli provvedimenti – saran ben più complesse della elezione di Boldrini e Grasso perché maggiore sarà l’effetto della decisione sulla vita degli italiani. E in tutti questi traguardi che ci attendono, la via di fuga dell’auspicio (invocato da Crimi) non sarà praticabile, perché non contemplata dagli elettori che ci hanno mandato in Parlamento ad assumere decisioni per il bene del Paese.

"L’Italia stremata dalla crisi cerca un governo valido", di Carlo Buttaroni*

Per Confesercenti è una catastrofe. Sono migliaia le imprese del commercio e della ristorazione che stanno chiudendo in questi primi mesi del 2013 e, parallelamente, crolla il tasso di nascita di nuove attività. Analoga situazione per le imprese di costruzioni. Nel 2012 hanno chiuso 62mila imprese edili (su un totale di 895mila del comparto) e sono stati persi 81mila posti di lavoro (-4,6%). Non è andata meglio agli artigiani dell’edilizia, solitamente più reattivi. Hanno chiuso l’attività 55mila piccoli costruttori, con un saldo negativo del 2% rispetto all’anno precedente. Per Confartigianato, il trend della produzione è drammatico: -16,2% nel corso del 2012, tre volte peggio della media europea. Ad aggravare la situazione è stata anche la stretta creditizia. Secondo l’Osservatorio di Confcommercio, quasi il 40% delle imprese si è visto rifiutare la richiesta di finanziamento oppure gli è stata drasticamente ridotta la quota finanziata. Tra giugno 2011 e lo stesso mese del 2012, secondo Unioncamere, si è verificata una flessione nell’erogazione bancaria pari al 2,5%. Nella grande maggioranza dei casi (70%), il finanziamento era necessario a coprire la mancanza di liquidità, mentre solo una minima parte, il 20%, era destinato a nuovi investimenti.
STRETTA DEL CREDITO
La stretta al credito ha colpito anche le imprese esportatrici, benché l’export rimanga l’unica voce col segno positivo. Sul fronte del lavoro il quadro è ancora più drammatico. Nel 2012 gli occupati sono scesi di circa 300mila unità e il tasso di disoccupazione, in un anno, è cresciuto di oltre due punti. Nel 2013 gli occupati potrebbero scendere di altre 600mila unità e la disoccupazione salire ulteriormente di tre punti. Uno studio della Cgil segnala come, solo tra gennaio e febbraio, le ore di cassa integrazione autorizzate siano aumentate del 22,7% rispetto al 2012. All’interno di questo quadro il debito pubblico continua a crescere. Secondo i dati diffusi dalla Banca d’Italia ha raggiunto quota 2.023 miliardi di euro. Il Pil, invece, è diminuito. Il quarto trimestre 2012 ha registrato un andamento peggiore delle previsioni (-2,8%). I primi mesi del 2013 si prefigurano altrettanto drammatici e il tanto annunciato miglioramento del quadro economico è per ora rinviato a data da destinarsi, considerata anche la congiuntura negativa che continua a caratterizzare altri Paesi.
In un contesto di per sé difficile, l’Italia fatica di più e la situazione è persino peggiore del 2008.
Non tanto negli indicatori economici, quanto nella capacità di tenuta del sistema. Quando è scoppiata la crisi, l’Italia aveva ancora risorse cui poter attingere. Oggi queste risorse sono esaurite e il Paese è in ginocchio, stremato, avvitato su se stesso. La linea del rigore, forgiata nei laboratori di Bruxelles, si è rivelata un disastro e il prezzo è drammatico: crescita della disoccupazione, riduzione del valore dei redditi da lavoro e delle pensioni, diminuzione del potere d’acquisto, aumento della povertà. Un prezzo che pesa interamente sulle famiglie, sulle fasce di reddito più basse, sui pensionati, sulla classe media e medio-bassa, sui piccoli imprenditori. I prossimi tre mesi saranno decisivi e l’Italia è a un bivio: può iniziare un percorso per uscire dal tunnel o può sprofondare definitivamente. Impossibile non avere consapevolezza della gravità della situazione e cercare di nascondersi dietro concetti da manuale. Abbiamo bisogno della politica come mai è accaduto negli ultimi anni, eppure il groviglio istituzionale in cui ci siamo incastrati esprime impotenza. All’Italia servirebbe un governo forte in grado di imprimere una svolta per far ripartire l’economia, ma il voto non ha restituito alcuna soluzione in questo senso. Abbiamo poco tempo e lo stallo istituzionale in cui ci troviamo rischia di diventare il detonatore di una deflagrazione economica e sociale dalle conseguenze devastanti. E non solo nel nostro Paese. L’Italia rappresenta un pilastro fondamentale dell’impalcatura europea e l’acutizzarsi della crisi può scuotere l’intero architrave. Non c’è da stupirsi, quindi, se abbiamo gli occhi degli altri Paesi puntati addosso, che osservano con attenzione e preoccupazione quanto sta accadendo. Anche perché, in tipico stile italiano, passiamo con disinvoltura da un eccesso a un altro, mantenendo il primato delle contraddizioni.
Il nostro Parlamento era quello più anziano, adesso è quello più giovane. E sarebbe una bella e importante novità se non fosse che alcuni tra i neodeputati e i neosenatori mancano delle basi minime per assolvere il compito cui sono chiamati. Il fatto che un parlamentare non sappia da quanti membri sono composte le Camere non è una questione di costume su cui sorridere. È il sintomo di un decadimento più profondo di quanto siamo disposti ad ammettere. E questa situazione non è altro che l’ennesimo punto di ricaduta negativo della nostra legge elettorale. Una legge che non permette ai cittadini di scegliere un proprio rappresentante in base alle sue idee e competenze politiche, ma spinge a votare per un’«atmosfera», a dare segnali talmente rarefatti da essere destinati a rimanere per lo più inascoltati.
LA SVOLTA
Se le elezioni dovevano rappresentare una svolta, indubbiamente lo sono state. Ma in peggio. E la rivoluzione uscita dalle urne rischia di far sprofondare il Paese, perché non offre alcuna percorribilità. In questo senso, la metafora dell’apriscatole usata da Beppe Grillo per sintetizzare il suo obiettivo, è adeguata. Presuppone che non ci sia qualcosa da costruire, ma solo da scardinare. Frasi che non sarebbero tollerate in nessun altro Paese democratico ma che in Italia sono state sempre derubricate nella categoria del «linguaggio colorito». Il pantano in cui sta affondando l’Italia, d’altronde, è visibile anche nel travaglio con cui sono stati eletti i Presidenti di Camera e Senato. Pietro Grasso e Laura Boldrini sono due personalità di altissimo livello che, in un Paese normale, sarebbero stati accolti come il segnale di una stagione politica finalmente lontana da quelle alchimie di palazzo tanto contestate quanto praticate. Queste nomine, invece, sono passate come uno «strappo» al tentativo di dare un governo al Paese. Cosa succederà adesso? Difficile dirlo. Il Paese è allo stremo e purtroppo sembra che manchi la necessaria consapevolezza rispetto al contesto drammatico che stiamo vivendo. Serve rilanciare l’economia con robuste iniezioni di domanda pubblica, occorre ridurre il cuneo fiscale che preme sul lavoro, ridare potere ai salari, avviare un piano straordinario per pagare i debiti della pubblica amministrazione verso le imprese, finanziare gli ammortizzatori sociali, recuperare risorse per l’occupazione dei giovani, ridurre le disuguaglianze e ampliare le fasce di tutela. Occorre, cioè, un governo in grado di dare un indirizzo al Paese.
SOLUZIONE IN PARLAMENTO
I risultati delle urne non hanno restituito alcuna maggioranza in grado, autonomamente, di dare forza a un esecutivo in grado di fare tutto questo. Oggi tocca a Bersani presentarsi alle Camere con un suo programma e chiedere la fiducia. Il Parlamento deve essere il luogo dove trovare una soluzione allo stallo politico e dove ciascuno si deve assumere le responsabilità che gli competono e che riguardano il futuro del Paese. Perché, piaccia o no, la democrazia ha le sue regole. Se nessun governo dovesse nascere con caratteristiche chiare in quanto a programma, forza e durata, meglio tornare immediatamente alle urne, senza tentennamenti e presupposti aleatori che lascino campo a soluzioni provvisorie. Il Paese non ha più tempo. Le prossime mosse saranno fondamentali. La sfida che abbiamo davanti richiede almeno questa consapevolezza.

*Presidente Tecnè

L’Unità 18.03.13

Bersani: «No a scambi indecenti con il Pdl», di Simon Collini

Il Pd respinge l’offerta di Alfano. All’ipotesi di uno scambio tra Quirinale al Pdl e appoggio al governo Bersani, risponde no: proposta indecente. Il leader Pd dice no anche ad accordi preventivi per il governo. Pronta la legge sulla riforma del finanziamento ai partiti. Niente accordi preventivi e niente scambi indecenti. Pier Luigi Bersani si prepara alla sfida decisiva, che tra consultazioni al Quirinale, auspicabile incarico e poi incontri con gli altri partiti si gioca tutta questa settimana.
Certo, il successo o il fallimento dell’operazione «governo di cambiamento» si determinerà la prossima settimana, quando se tutti i piani del leader Pd si realizzeranno, le Camere saranno chiamate a votare la fiducia. Ma è soprattutto nelle prossime ore che quella partita verrà preparata. E Bersani lancia dei messaggi piuttosto espliciti agli altri protagonisti in campo. A cominciare dal segretario del Pdl Angelino Alfano, che dice il suo partito potrebbe appoggiare un’ipotesi di governo Bersani se al Quirinale andasse un esponente di area moderata indicato dal centrodestra: «Per scambi indecenti qui non c’è recapito», è la risposta che dal Pd parte a stretto giro di posta.
Ma c’è anche un altro messaggio che, a tre giorni dall’avvio delle consultazioni al Quirinale, Bersani deposita agli atti approfittando di un’intervista a Sky: «No ad accordi politici preventivi, non funzionerebbero». Il leader del Pd sa che un eventuale incarico da parte di Giorgio Napolitano sarebbe condizionato alla ricerca poi dei voti sufficienti ad ottenere la fiducia sia alla Camera che al Senato, dove la sua coalizione dispone di 123 parlamentari.
Bersani, mettendo fin d’ora in chiaro che «accordi politici preventivi non funzionerebbero», vuole non solo chiudere la porta a ogni ipotesi di governo sostenuto da Pd e Pdl, in qualunque forma, ma anche preannnciare che la maggioranza intende cercarla in Parlamento, non prima delle votazioni in trattative con le altre forze politiche. «Bisogna chiedere al Parlamento di sostenere un programma di legislatura», dice il leader Pd insistendo sul fatto che ha ricevuto «un mandato dagli elettori» e che intende rispettarlo dando vita a un «governo di cambiamento» costruito attorno a otto punti qualificati. «Non c’è nessuna pretesa o ambizione ma solo responsabilità», spiega. Ed è quello che dirà, mercoledì, al Capo dello Stato.
La sfida, Bersani, intende giocarla ancora sul terreno del cambiamento. Dopo la scelta vincente di Laura Boldrini e Pietro Grasso come presidenti di Camera e Senato, il leader del Pd fa capire che intende seguire la stessa strategia seguita per il fronte istituzionale anche per il piano governativo. «Questo è il metodo, più o meno bisogna aspettarsi cose così, tenendo conto di tante variabili, di tante esigenze». Bersani punta infatti ad ottenere la fiducia in entrambi i rami del Parlamento con un governo composto da figure di alto profilo, non provenienti dalle file del suo partito, dalle indubbie competenze, e di fronte alle quali sarebbe complicato, per gli esponenti di Scelta civica come per i parlamentari del Movimento 5 Stelle, esprimere un no motivato.
Col metodo Grasso-Boldrini, alla sfida della fiducia, Bersani è convinto di poter incassare il risultato e dar vita a un governo che possa finalmente «dare risposta ai problemi sociali», avviare un misure per il lavoro e l’economia, dare respiro agli enti locali. Un tema, quest’ultimo, da cui il segretario Pd intende partire per provare a costruire un’intesa politica anche con la Lega, che non ha alcun interesse ad andare in tempi brevi alle urne e che con i suoi 17 senatori ha un’importanza non secondaria a Palazzo Madama. E infatti in queste ore nel Pd si seguono con attenzione le mosse del Carroccio, per capire innanzitutto se la delegazione leghista andrà alle consultazioni al Colle da sola o insieme a quella del Pdl.
LA PARTITA DEI CAPIGRUPPO
Ora il colloquio che mercoledì avrà con il Capo dello Stato è in cima ai pensieri di Bersani, che a quell’appuntamento vuole andare senza portarsi dietro fardelli aggiuntivi. Uno rischia di essere quello derivante dalla scelta dei capigruppo, che andrebbero eletti domani pomeriggio. La rinuncia a candidare Anna Finocchiaro e Dario Franceschini a presidenti delle Camere ha fatto aprire nel Pd una partita di non facile gestione. Le diverse anime del partito sono in fermento, come dimostra la quantità di nomi che da ventiquattr’ore inizia a girare per i ruoli di presidente dei deputati e dei senatori. Alla Camera si va da quello di Andrea Orlando a quelli di Marina Sereni e Antonello Giacomelli, al Senato da quello di Maurizio Migliavacca a quelli di Luigi Zanda e di Felice Casson. Bersani vuole andare alle consultazioni avendo alle spalle un partito unito e concentrato sull’obiettivo del governo, e una discussione e una votazione con i tempi forzati rischierebbe di provocare fibrillazioni dannose. Per questo, l’ipotesi che potrebbe mettere sul piatto oggi, quando si inizierà a discutere chi eleggere domani, è quella di prorogare Finocchiaro e Franceschini, con i quali andare alle consultazioni al Quirinale, e rimandato l’elezione dei nuovi capigruppo a dopo la prova della fiducia.

L’Unità 18.03.13

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Finanziamento ai partiti: pronta la proposta Pd, di Simone Collini

Sostituirlo con piccole contribuzioni volontarie dei cittadini. Le novità in una legge da approvare entro luglio, fino ad allora sospendere i rimborsi. Il tesoriere Misiani: «Pensiamo a un modello con libertà di scelta e agevolazione fiscale»
Basta finanziamenti pubblici ai partiti? Bersani prepara un’altra mossa a sorpresa, dopo quella sulle presidenze delle Camere. L’obiettivo è lanciare un altro segnale di cambiamento, mettere i parlamentari del Movimento 5 Stelle di fronte a una scelta che sulla carta è obbligata e togliere argomenti a chi, fuori e dentro il Pd, pensa di poter continuare a utilizzare il tema dei rimborsi elettorali come strumento di polemica ai fini della battaglia politica.
Il leader democratico ha incaricato il tesoriere Antonio Misiani e un ristretto numero di deputati e senatori Pd di preparare un testo sul finanziamento ai partiti da presentare in tempi rapidi in Parlamento. Bersani pensa a una proposta di legge da approvare nei primi cento giorni dopo l’insediamento di quel «governo di cambiamento» a cui sta lavorando. Una legge da far camminare di pari passo a norme per l’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione sulla democrazia e la trasparenza interne ai partiti, di fronte alle quali i Cinquestelle sarebbero chiamati ad esprimersi con un sì o con un no.
Un accenno all’operazione, Bersani, lo ha fatto ieri da Brescia, dov’è andato per partecipare a un’iniziativa di mobilitazione sugli otto punti programmatici attorno a cui intende costruire il suo governo. Prima alle telecamere di Sky e poi a militanti e simpatizzanti del Pd, Bersani ha detto che bisogna approvare entro luglio una legge sul finanziamento ai partiti. «Servono solo piccole contribuzioni dei cittadini volontari», è il succo del ragionamento, «non sono disposto a rinunciare al concetto di finanziamento alla politica». E poi l’annuncio: «Fino a quando non si fa questa norma sono disposto a sospendere l’erogazione dei rimborsi elettoriali».
LA PROPOSTA DI LEGGE
La sfida alle altre forze politiche è lanciata, ma ancora di più se ne capirà la portata quando verrà reso noto il testo a cui sta lavorando il Pd. L’impianto è molto simile a quello della proposta di legge di iniziativa popolare messa a punto dall’economista Pellegrino Capaldo, che è stata sottoscritta da oltre 400 mila persone ma che nella passata legislatura non è riuscita ad aprirsi un varco nella discussione parlamentare. Nella bozza a cui stanno lavorando nel Pd si parla infatti della necessità di affidare ai cittadini la scelta di finanziare i partiti, seppur mantenendo in gran parte l’onere a carico dello Stato. Come? Superando il meccanismo attuale, che prevede che a tot numero di voti incassati da ogni partito corrispondano tot euro di rimborsi elettorali, e prevedendo invece forti detrazioni fiscali per i cittadini che volontariamente decidono di finanziare partiti o fondazioni politiche. Nella proposta Capaldo si fissa a 2000 euro il tetto massimo per tali donazioni e il credito d’imposta è pari al 95% della somma versata.
Antonio Misiani considera quel testo come uno dei più interessanti, anche perché prevede una gradualità nel passaggio tra attuale e nuovo sistema. Anche nel Pd si pensa a un cambio di regime graduale spalmato su più anni, magari riducendo del 20 per cento l’anno, per cinque anni, l’ammontare dei rimborsi elettorali e aprendo man mano ai contributi volontari. Spiega il tesoriere del Pd: «Noi riteniamo cruciale il tema del finanziamento e della democrazia interna ai partiti, e vogliamo affrontarlo senza pregiudizi. Pensiamo che lo Stato non debba disinteressarsi del modo in cui le forze politiche vengono finanziate e puntiamo a un modello che favorisca la libertà di scelta e che preveda una significativa agevolazione fiscale». Far marciare insieme la legge sul finanziamento e quella sull’attuazione dell’articolo 49 della Costituzione su democrazia e trasparenza nei partiti è per Bersani il modo migliore per sfidare gli altri, Grillo in primis ma non solo, sul terreno del cambiamento. «Ora si può fare», è il messaggio che lancia il leader Pd. Sta agli altri decidere se favorire questo percorso o se mettersi di traverso.

L’Unità 18.03.13

"Senza manifattura non ci sarà crescita", di Franco Ernesto

E le fabbriche? Mentre discutiamo di presidenza del Consiglio e della Repubblica, di Beppe Grillo e di marò, rischiamo di dimenticarcele. Un gravissimo errore. Il manifatturiero è la spina dorsale del sistema economico. Non solo perché in Italia ci sono almeno sei milioni di operai, rispetto a 30 milioni di persone che lavorano e a 14 milioni che hanno un rapporto a tempo indeterminato (dati Istat). Ma soprattutto perché senza manifatturiero non può esserci terziario, non ha senso parlare di servizi, di ricerca e sviluppo, di crescita economica, di uscita dalla crisi. Senza fabbriche, insomma, non si va da nessuna parte. Non è un caso che la Germania sia da tempo la locomotiva economica d’Europa: lì il manifatturiero pesa per il 26% del Pil, e si tratta per lo più di produzioni ad elevato valore aggiunto, con un altissimo contenuto di ricerca e sviluppo, e in larga parte destinate all’esportazione. Eppure, l’economia reale è stata la grande assente dal dibattito mediatico sulle elezioni. Di fabbriche – purtroppo – si parla solo quando chiudono, quando gli operai protestano o quando succedono grandi disastri, come a Taranto. Invece, bisognerebbe chiedersi dove vanno le fabbriche in Italia, dove le si vuole far andare, e perché. Bisognerebbe agire per tenere in vita quelle sane e per farne crescere di nuove. Con grande attenzione all’ambiente e a tutte le regole europee. Nonostante tutto l’Italia resta ancora un forte Paese industriale. Oggi il manifatturiero vale il 16,17% del Pil, una percentuale di poco superiore a quella della Gran Bretagna (16%), ma assai più elevata che in Francia (12%). Ma lo stato di salute delle nostre fabbriche è preoccupante. Perché dal 2007 a oggi la quota del manifatturiero sul totale del Pil è scesa dal 20% all’attuale 16,7%, e non solo per colpa della grande crisi della Fiat (che pure ha dato una bella botta). La lettura degli ultimi dati Istat sembra un bollettino di guerra. Rispetto allo stesso mese del 2011, nel dicembre 2012 il fatturato del manifatturiero è calato del 6,4%; quello della riparazione e installazione di macchine utensili del 18,7%; la metallurgia e affini del 13,2%; la fabbricazione di coke e affini del 6,7%; la fabbricazione di articoli in gomma e materie plastiche del 10,1%. Dove dobbiamo arrivare perché qualcuno inizi a occuparsene seriamente? Certo, c’è chi dice che il futuro dell’Italia non è lì, che dobbiamo guadagnare competitività su alta moda, design, lusso e alimentare, cioé sui settori dove in tutto il mondo viene riconosciuta la superiorità dei prodotti made in Italy. Ma anche questi settori possono, anzi devono, generare sviluppo industriale, come riconosce anche l’economista Francesco Daveri nel suo ultimo libro Crescere si può, pubblicato dal Mulino. Sulla centralità del manifatturiero, va registrata una singolare convergenza di Cgil e Confindustria. Il sindacato dei lavoratori e quello dei padroni si combattono sul terreno della contrattazione e delle regole di gioco, ma sono gli unici a difendere la centralità delle fabbriche. «Bisogna dire alle piccole e piccolissime imprese dove vogliamo portarle e quali risorse ci saranno. Sia chiaro comunque che in assenza di un indirizzo di questo genere rischiamo il declino vero e proprio del nostro settore manifatturiero », ha dichiarato per esempio Susanna Camusso a margine della XX tavola rotonda del Business International. «Sulle macerie, poi, sarebbe difficile costruire», ha avvertito la leader Cgil. Mentre il presidente di Confindustria Giorgio Squinzi ha detto nei giorni scorsi: «Quello che più mi preoccupa è che abbiamo perso oltre 7 punti di Pil dal 2007 a oggi e se ci focalizziamo sull’attività manifatturiera il calo è addirittura del 25%. Se non rimettiamo al centro del Paese e delle forze politiche e sociali l’industria manifatturiera non ci potrà essere crescita, non ci potrà essere riduzione del deficit e non potremo riacquisire la fiducia degli investitori esteri». Non a caso, l’argomento è ignorato da coloro che non vorrebbero né sindacati dei lavoratori, né sindacati dei padroni, nè regole, né reti politiche- sociali che tengano insieme il Paese. Nel far west non c’è posto per piani di crescita delle fabbriche. Vince il più forte, e si salvi chi può. Certo, Cgil e Confindustria si occupano delle regole del gioco, non della creazione e del mantenimento in vita di nuovi campi da gioco. La politica industriale – sembrerà un gioco di parole – spetta anzitutto alla politica. Perché comporta fare delle scelte che privilegiano alcuni e possono sembrare penalizzanti per altri. Politica industriale, come ha spiegato Luciano Gallino in tanti ottimi libri (in particolare Lascomparsa dell’Italia industriale, pubblicato da Einaudi nel 2003, andrebbe riletto oggi con attenzione), significa privilegiare alcuni settori da cavalcare e incentivare rispetto ad altri da lasciare al loro destino. Come fece la Gran Bretagna degli anni Ottanta, quando decise di non investire più su un’industria automobilistica nazionale (attirando però i car-makers stranieri, tanto che per molti anni il Regno Unito è stato il primo Paese europeo per auto prodotte) e di puntare sull’aerospaziale e su altri comparti. Politica industriale vuol dire usare gli strumenti consentiti dalle regole Ue sulla concorrenza per dare un indirizzo produttivo al Paese. Vuol dire avere una visione del futuro e perseguirla, prendendosi anche dei rischi. Solo così sarà possibile salvare le fabbriche. E, anche, salvare il tessuto economico-sociale di questo Paese, che nel secondo semestre del 2013 vivrà la recessione peggiore della sua storia.

L’Unità 18.03.13

"La crisi presenta il conto anche a Emilia e Veneto", di Francesca Barbieri

Nel pantano della crisi ci sono Regioni che sprofondano e altre che riescono a galleggiare. Altre ancora si trovano a metà del guado, bilanciando forti perdite e buone performance. E non mancano le sorprese. A braccetto con il Sud (esclusa la Puglia) e l’Umbria vanno Emilia Romagna e Veneto, lungo la linea rossa che collega i territori dove il campanello di allarme ha suonato più forte dal 2008 a oggi.
Nella classifica del disagio economico – realizzata dal Centro studi Sintesi per Il Sole 24 Ore – oltre la metà delle Regioni ha perso più terreno rispetto alla media nazionale, mentre le performance meno disastrose si registrano in Trentino Alto Adige, seguito a larga distanza da Liguria e Marche. Nel mix di 10 indicatori – dal tasso disoccupazione ai fallimenti, dai consumi alle sofferenze, tutti considerati non in valore assoluto ma mettendo sotto la lente il trend dal 2008 al 2012 – ad essere più colpite sono Umbria, Calabria e Sardegna. Nella prima pesa l’aumento dei disoccupati (+5%) e delle imprese protestate (+31%). Le ore di cassa integrazione si sono decuplicate – rispetto a una crescita media intorno al 400% – con effetti a cascata sul calo dei consumi e sull’acuirsi delle difficoltà per famiglie e imprese. La Sardegna è zavorrata dal boom di default aziendali (+94%) e dal flop degli investimenti, calati di oltre un quarto in 4 anni, al pari della Calabria.
«Nell’indice – spiega Stefano Manzocchi, direttore Luiss Lab of European Economics – troviamo sia la conferma di un paese spaccato a metà, con le regioni del Sud ancora più indebolite dalla recessione, sia i segnali di un progressivo sgretolamento di alcune sicurezze socio-economiche nella cosiddetta Terza Italia, cioè la dorsale adriatica e il Centro. Il Mezzogiorno sta vivendo la più profonda e rapida trasformazione del proprio tessuto produttivo, con un altissimo turnover di imprese accompagnato in media da uno stallo delle iniziative di investimento e di internazionalizzazione. Ma anche nelle regioni come l’Umbria, e in misura minore il Veneto, si “contano” le ferite che la crisi ha inferto, spiazzando alcuni settori tradizionali e a danno soprattutto delle Pmi».
Male Veneto ed Emilia
Nel plotone dei peggiori troviamo, come detto, anche Veneto ed Emilia Romagna. Nel primo pagano sia le famiglie, che spendono di meno (-2,4%) e subiscono una crescita record dei debiti verso le banche (+141%), sia le imprese, con l’aumento di un quarto di quelle protestate e dei fallimenti, oltre all’esplosione (+526%) delle ore di cassa integrazione. Ammortizzatori su larghissima scala pure in Emilia Romagna (+971%) e dove i “debiti” accumulati dalle aziende sono cresciuti del 142%. Si registra poi, in entrambe, un pesante calo degli investimenti (intorno al -20%).«Evento comprensibile – commenta Paolo Gubitta, docente di Organizzazione aziendale all’Università di Padova – vista la carenza di risorse, ma che rischia di pregiudicare le opportunità di sviluppo e ostacola il recupero del gap sui Paesi concorrenti. In un’ottica di più breve periodo il massiccio incremento della cassa integrazione e delle società protestate indica che anche la gestione day-by-day segna il passo. Da questo punto di vista servirebbe rimettere benzina nel motore dell’economia: basterebbe scongelare i pagamenti della Pa, poiché è inaccettabile che un’economia imploda per eccesso di credito».
Vicine, invece, alla media nazionale: Toscana, Lazio, Abruzzo e Puglia. Quest’ultima fa segnare un aumento più contenuto dei fallimenti delle imprese (+13,5% rispetto al +33% generale), che fanno da contraltare ai cali oltre la media del reddito reale e dei consumi delle famiglie (-8%).
In Toscana, invece, la disoccupazione – come nel Lazio – è cresciuta di meno e la spesa mensile delle famiglie è addirittura salita (+3,6%), mentre le ditte protestate sono aumentate del 15% (rispetto al +7,2% medio).
Si salva il Trentino
Il gruppetto dei virtuosi è guidato dal Trentino Alto Adige, la regione meno colpita grazie alle “difese” sul mercato del lavoro: il tasso di disoccupazione è cresciuto meno che nel resto dell’Italia e soft è stato il ricorso alla Cig, senza contare il calo contenuto di redditi e investimenti. «Risultati – conclude Egidio Riva, ricercatore di sociologia alla Cattolica di Milano – che hanno mantenuto stabili i consumi e nettamente inferiori alla media le sofferenze di imprese e delle famiglie: si è difeso meglio chi ha saputo proteggere i risparmi».
Hanno attutito l’impatto della crisi anche regioni di taglia small come Liguria, Marche e Valle d’Aosta, e sopra la media ci sono pure Piemonte, Friuli e Lombardia. A salvare le due big settentrionali la tenuta dei consumi, oltre all’assottigliarsi dei protesti, grazie anche alla maggior forza di un tessuto imprenditoriale più strutturato.

Sole 24 Ore 18.03.13

"Francia, vietato bocciare. L’égalité conquista le aule", di Alberto Mattioli

Dal vietato vietare di sessantottina memoria al vietato bocciare. Gli obbiettivi della gauche diventano meno ambiziosi ma più realisti. Nella scuola francese, far ripetere l’anno diventa fuorilegge. O quasi: «Nel quadro dell’acquisizione di conoscenze, competenze e metodi prevista alla fine del ciclo e non più dell’anno scolastico, far ripetere un anno dev’essere eccezionale». Così recita l’articolo primo della «legge di rifondazione» della scuola, fiore all’occhiello del programma di François Hollande, attualmente in discussione all’Assemblée nationale.

Con un emendamento, i deputati socialisti sono andati anche più in là di quanto proposto dal loro governo, che si era limitato a scrivere che si deve «proseguire la riduzione progressiva» dei ripetenti. Invece adesso la bocciatura diventa l’eccezione che dovrebbe confermare la regola di una scuola migliore. Liberté, égalité, fraternité e promozione.

Il benefattore della peggio gioventù è il controverso responsabile dell’Educazione nazionale, il filosofo socialista Vincent Peillon, una specie di mina vagante nelle acque governative, un ministro iperattivo che una ne fa e cento ne propone, compresa quella di legalizzare le droghe leggere (si spera non in classe). Però la sua crociata contro le bocciature non è così eccentrica. Fra i Paesi dell’Ocse, la Francia detiene saldamente il record del «redoublement», la ripetizione dell’anno: tocca a più di uno studente su tre, quando la media nel resto del mondo è di meno di uno su sette.

Da tempo, gli esperti vanno ripetendo che la misura è, ai fini pedagogici, del tutto inutile. Di certo, è disastrosa per quelli economici: nel 2009, per esempio, ha rappresentato un aggravio di più di due miliardi di euro per le esauste casse pubbliche. E del resto la mitica «circolare della rentrée», cioè l’editto del ministero che indica obiettivi e modalità dell’anno scolastico che inizia, già nel 2010 spiegava ai professori recalcitranti che far ripetere l’anno «costituisce l’ultima risorsa». Ma i docenti francesi finora non se ne sono dati per inteso e proseguono le loro stragi di discenti.

Sulla scuola, Hollande si gioca molto. Quello dell’Educazione nazionale è uno dei tre ministeri (gli altri sono gli Interni e la Giustizia) dove lo Stato continuerà a investire. Delle 60 mila persone che assumerà nei prossimi cinque anni, 54 mila saranno nella scuola.

Se finora tutte le riforme erano partite dal liceo per «scendere» verso le elementari, la filosofia di Peillon è opposta: gli sforzi e i mezzi saranno concentrati sulla «primaire», specie per gli alunni che per ragioni di estrazione sociale o provenienza territoriale sono svantaggiati. Secondo le statistiche, alla fine delle elementari è scolasticamente «fragile» un ragazzino su quattro e questo ritardo, nell’implacabile logica selettiva della scuola francese, in seguito non viene colmato quasi mai.

Certo, l’Educazione nazionale è un tale mastodonte (850 mila insegnanti, 12 milioni di studenti) che chi la tocca deve armarsi di pazienza e prudenza. Peillon ha già scatenato un putiferio proponendo di passare alle elementari dalla settimana di quattro giorni (ovviamente pieni) a quattro giorni e mezzo. E anche il dibattito sulla sua legge si sta svolgendo in un’atmosfera da per chi suona la campana, anzi la campanella. La destra giudica la riforma «ideologica» e «chiacchierona» e cerca di soffocarla sotto 1.400 emendamenti. La gauche più a gauche la trova non abbastanza audace e non la voterà. I Verdi avevano addirittura proposto di vietare i voti alle elementari, ma il loro emendamento è stato respinto. I voti restano, la bocciatura no

La Stampa 18.03.13

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“Aiutarli nelle scelte invece di punirli”. Gavosto: da noi penalizzati gli immigrati, di Flavia Amabile

Andrea Gavosto, direttore della Fondazione Agnelli: perché questa decisione della Francia? Davvero bocciare non serve?

«È dimostrato che nella stragrande maggioranza dei casi non aiuta. Chi aveva un percorso difficile continua ad averlo anche dopo essere stato bocciato, e spesso viene bocciato di nuovo. A volte, se può, abbandona del tutto. C’è stata una presa di posizione molto netta su questo punto anche da parte dell’Ocse: non è questo lo strumento migliore per evitare lo spreco di risorse umane».

In Italia siamo un po’ troppo buonisti però, dicono in tanti.

«In Italia il tasso di bocciature è insignificante alle elementari, è intorno al 4% alle medie e sale invece al 10% alle superiori ma con tassi anche del 17% per chi frequenta i primi anni delle superiori».

Insomma nella scuola dell’obbligo si boccia poco.

«Si bocciano soprattutto gli immigrati. Il loro rischio di non farcela può essere fino a 19 volte più elevato di quello che corre uno studente italiano. L’obbligo è esteso fino a 16 anni, però, dunque si devono frequentare almeno uno o due anni di superiori».

Ed è a quel punto che inizia la selezione vera e propria.

«È giusto che ci sia severità, ma le bocciature si potrebbero evitare aiutando gli studenti a scegliere il percorso più adatto alle loro caratteristiche. E poi, organizzando attività di sostegno, corsi pomeridiani, o allungando il tempo della scuola anche al pomeriggio. È importante anche che il gruppo docente faccia agire i compagni di classe, lasciando che siano loro ad aiutare chi è più fragile».

Attività di sostegno, corsi pomeridiani e tempo allungato: bellissimo e irrealizzabile. Mancano i fondi.

«Verissimo, ma la realtà non cambia: bocciare è un fallimento della scuola, un arrendersi di fronte a un problema che non si è stati in grado di risolvere».

La Stampa 18.03.12

Scuola, ricerca shock dell'Ocse sui voti:"I prof favoriscono ragazze e ceti alti", di Salvo Intravaia

Gli insegnanti favoriscono le ragazze e gli studenti benestanti o provenienti da ambiti socio-culturali più favorevoli”. A parità di performance, in buona sostanza, studenti maschi e alunni provenienti da ambienti deprivati vengono penalizzati dai propri insegnanti al momento di assegnare le valutazioni finali e i voti nel corso dell’anno scolastico. La “denuncia” non arriva da una associazione studentesca e neppure da un gruppo di genitori intenti a difendere i propri figli, ma addirittura dall’Ocse: l’Organizzazione (internazionale) per la cooperazione e lo sviluppo economico.

Il ventiseiesimo approfondimento condotto dall’Ocse sui test Pisa – in Lettura, Matematica e Scienze – del 2009 danno ragioni in più a una lamentela classica di genitori e alunni. Il focus pubblicato qualche giorno fa mette sul banco degli imputati i docenti e la loro imparzialità nell’attribuire i voti agli alunni. Da sempre, le valutazioni attribuite dai professori agli studenti rappresentano uno dei punti fermi della scuola, ma anche uno dei più controversi. Tanto che la maggior parte dei ricorsi dei genitori a fine anno riguardano appunto le valutazioni finali degli insegnanti.

E, tra le nazioni europee in cui è stata condotto l’approfondimento di ricerca, l’Italia sembra essere uno dei paesi dove c’è più sperequazione tra voti attribuiti dagli insegnanti e saperi reali. Il titolo della ricerca è tutto un programma: “le aspettative legate ai voti”, in inglese, “le grandi speranze: come i voti e le politiche educative influiscono sulle aspirazioni degli alunni”, in francese. Sta di fatto che i voti, e lo sanno bene i prof, rappresentano nella scuola uno dei motivi del contendere più sentiti per studenti e genitori.

“Gli insegnanti – si legge nella ricerca – tendono ad attribuire alle ragazze ed agli studenti provenienti da ambiti socio-economici più favorevoli migliori voti a scuola, anche se non hanno una migliore performance, rispetto ai ragazzi e agli studenti provenienti da ambiti socio-economici svantaggiati”. Gli esperti dell’Ocse non esitano a definire questo trend “preoccupante” perché può penalizzare gli studenti anche nelle scelte future. Le ricadute negative possono essere di due tipi con conseguenze a lungo termine per i meno fortunati.

Ecco quali. “Da una parte, gli studenti – spiegano dall’Ocse – fondano sovente le loro aspirazioni, in termini di studi e di carriera, sui voti che ottengono a scuola; da un’altra parte, i sistemi educativi utilizzano i voti nella selezione degli studenti per l’accesso ad un indirizzo di studi e, successivamente, per l’accesso all’università”. Per valutare l’attendibilità dei voti espressi dagli insegnanti in Lettura, l’Ocse ha consegnato ai quindicenni una scheda in cui dovevano segnare il voto in Italiano – o nella lingua del paese in cui si svolgeva il test – loro attribuito dai professori. E, successivamente, ha determinato la correlazione tra il voto attribuito ai quindicenni dai propri prof con la performance in Lettura nel test Ocse-Pisa.

Scoprendo che a parità di risultati nel test Pisa le ragazze e gli studenti più abbienti riescono a strappare ai propri insegnanti voti più alti. “Lo scopo principale dei voti – spiegano da Parigi – è quello di promuovere l’apprendimento degli studenti, informandoli dei loro progressi, attirando l’attenzione degli insegnanti sui bisogni educativi dei loro studenti e, infine, attestando il livello di competenza valutata dagli insegnanti e dalle scuole”. Ma i docenti sembrano “anche basare le loro valutazioni su altri criteri”. Il test Pisa “ha dimostrato che le istituzioni educative e gli insegnanti ricompensano costantemente caratteristiche degli studenti che non hanno relazione con l’apprendimento”.

La Repubblica 18.03.13