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«A Milano il 25 aprile sarà fra una settimana», di Oreste Pivetta

Piazza Milano. Passa molto di qui, da piazza del Duomo. Passano i leader politici (Maroni e Berlusconi scelgono in verità il chiuso di un teatro), passa di qui la via di un cambiamento, tra Parlamento e Regione, dopo tanta infinita televisione, la piazza con la gente, come una volta e probabilmente da sempre, con le bandiere, con la musica. Con le facce e le emozioni. E con i discorsi, con i comizi. Piazza del Duomo ne ha viste tante di pagine di storia.
Umberto Ambrosoli, il candidato del centrosinistra a guidare la Lombardia, ha concluso richiamandone una, tra le più gloriose, il 25 Aprile: «Cambiare si può. Questa volta il 25 Aprile arriverà a febbraio, arriverà la settimana prossima». A Grillo non importerà nulla della Resistenza, della Liberazione, dell’antifascismo, ma è ancora ai valori espressi da quelle giornate di lotta che si richiama la migliore politica, la buona politica, la politica che si sente responsabile per il Paese e per tutti, che si candida a governare perché quei valori abbiano ancora vita. Paradosso di queste elezioni italiane: sembra che solo il centrosinistra ambisca a governare, gli altri sperano solo di impedire un governo, Berlusconi da sempre perché è convinto di poter solo lui governare; Grillo per spazzare via tutti, non si sa poi per far che cosa, perché si sente l’unico onesto al mondo, un giustiziere; Maroni per impadronirsi del suo «granducato del Nord» e mettersi di traverso; Ingroia, chissà, forse solo per testimoniare il suo malumore; Monti per fare l’ago della bilancia e pesare, senza avere i voti e il consenso… Nel segno tutti della divisione, della contrapposizione, destra contro sinistra, nord contro sud, liberali modernisti contro socialdemocratici chissà perché passatisti. Bersani ha usato più volte le parole giustizia, solidarietà, comunità. Ha detto più volte «insieme», che è il contrario di «divisi». La piazza lo ha applaudito con calore, quell’entusiasmo che non è facile sentire in giro quando si parla in modo serio di problemi gravi, quando non ci sono solo promesse e proclami, quando si presentano le cose per quello che sono, con i soldi che mancano, il lavoro che sparisce, la fiducia degli altri Paesi che si incrina.
«Solidarietà», «comunità», «insieme», sono voci di quella tradizione che sta nella Resistenza ma sono anche le condizioni perché il Paese riparta, perché si riaccenda la speranza. Come lo sono state ed è ancora la storia che parla sessant’anni fa, dopo la guerra, nella stagione della ricostruzione. Ambrosoli a un certo punto ha invocato il dovere della carità, la virtù teologale che va assieme a fede e speranza. Di fronte alla chiesa che fu di Martini e che è stata, fino a poco tempo fa, di Tettamanzi, dire di amore disinteressato nel bene degli altri è richiamarsi all’insegnamento di quei vescovi, al carattere forte della chiesa ambrosiana, minoritaria e sociale per vocazione, ribadire la necessità e soprattutto la possibilità di stare «insieme». Ricordare la carità cristiana ha la sua forza polemica di fronte ai tradimenti di chi di quella stessa chiesa si vantava interprete e rappresentante. Tabacci, che è un democristiano ed è un cattolico, ha confessato d’aver provato una stretta al cuore leggendo dei casi della fondazione Maugeri e di quelli dell’ex presidente Formigoni: barbari sognanti e lestofanti nella Lombardia degli scandali, delle tangenti, degli inquisiti, dove sono nati la Lega e Berlusconi, luogo simbolico e decisivo per cambiare qualcosa o molto, la Lombardia una volta «locomotiva dell’Italia verso l’Europa», che con Maroni rischierebbe semplicemente l’isolamento, dall’Europa e dall’Italia.
Mai forse, come questa volta, ascoltando, in mezzo alla piazza, s’è percepita la convinzione di un successo. Non sarà questione di sondaggi, è soprattutto la voglia di cambiare, di «rigenerare la politica» (espressione di Ambrosoli), di chiudere una pagina, pure il desiderio di normalità, quella di un Paese normale, capace ci affrontare con raziocinio i guai che l’opprimono, consapevole delle proprie virtù: Grillo potrà riempire le piazze, ma i voti si contano nelle urne e l’unica alternativa a Berlusconi e a Maroni è questo centrosinistra. Che si è mostrato compatto, unito, solidale. Vale la foto di gruppo: il sindaco Pisapia, che la «rivoluzione» la vinse due anni fa, Tabacci, Ambrosoli, Vendola, Bersani e, a sorpresa, Romano Prodi, il leader di una volta che sale sul palco e riprende il discorso interrotto. Un discorso che continua nel segno della ragionevolezza e della concretezza, senza mai promettere la luna, ma impegna in una dura battaglia di rigore, di responsabilità. Un esempio di concretezza: il disegno di salvaguardia della risorsa «terra», di città in città, di paese in paese (disegno fondamentale in una regione come la Lombardia inondata dal cemento della speculazione).
Sul palco ancora, alle spalle dei leader, c’erano molti giovani, in piedi, accovacciati. Probabilmente erano anche loro scenografia di un rinnovamento. Ci sono nelle liste come ci sono tante donne (altro bel segno, quando Formigoni e la sua giunta sono stati persino richiamati dagli organi amministrativi regionali per la eccessivamente scarsa presenza femminile). Però lo stesso valeva dentro la piazza: giovani e donne. Mi ha colpito l’immagine di una famigliola cingalese che ascoltava e sventolava la bandiera del Pd. Un altro tema posto da molti del centrosinistra: quello dei diritti (e in questo caso dei diritti degli immigrati).
Piazza del Duomo ha uno stretto rapporto con la storia: non solo il 25 Aprile, tanti altri 25 Aprile, i funerali di piazza Fontana, le manifestazioni sindacali, i grandi comizi.
Ricordo la conclusione di una campagna elettorale. Sul palco teneva il suo discorso Enrico Berlinguer. In piazza si gridava: «È ora, è ora di cambiare, il Pci deve governare». Non andò così. Moro fu assassinato dalle Brigate rosse. Tornarono Andreotti, Cossiga, Forlani, arrivò Spadolini, arrivò Craxi. Il Pci non esiste più. Bersani ha rincuorato la sua gente: «Noi siamo più forti di quel che pensiamo».

L’Unità 18.02.13

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“Da Milano la scossa per l’Italia Bersani: con noi fuori dal buio. Il popolo di centrosinistra ci crede: ora si cambia”, di Laura Matteucci

La sorpresa in piazza Duomo è Romano Prodi, inatteso, applauditissimo ospite. Parla da un palco dopo quattro anni «non per nostalgia», dice, «non alla ricerca di un ruolo», «ma perché oggi ne vale la pena». Perché, come dirà di lì a poco Ambrosoli, «quest’anno il 25 Aprile cade in febbraio». Da Milano per la Lombardia e per il Paese, sotto il titolo «L’Italia giusta»: non ci sono nemmeno più posti in piedi sotto la madonnina per ascoltare tutto lo stato maggiore del centrosinistra, Pier Luigi Bersani, Nichi Vendola, Bruno Tabacci, naturalmente il sindaco Giuliano Pisapia, insieme per tirare la volata al candidato alla Regione Umberto Ambrosoli, oltre che per il voto nazionale. «La Lombardia è sempre stato il luogo da dove è partita la svolta, sia nel bene che nel male attacca Bersani Qui è partito il motore delle forze di liberazione e della ricostruzione, da qui chiuderemo questa lunghissima fase ventennale di leghismo e berlusconismo: tireremo fuori dal buio la regione e tutta l’Italia». Mentre parla si agita sotto di lui lo striscione «Siamo tutti smacchiatori di giaguari» portato da alcuni milanesi (ma forse sono lombardi, perché in piazza Duomo ieri pomeriggio sono arrivati da tutta la regione), le metafore del segretario del Pd sono diventate pure quelle un «bene comune». E lui, sia chiaro, non manca l’appuntamento: «Tra sette giorni dice smacchieremo il giaguaro».
C’è anche la musica, a Milano (Paolo Jannacci, Roy Paci), ma la gente è arrivata a migliaia soprattutto per sentire le parole, per un’overdose di buona politica, e perché no? di ottimismo, perché questa volta si può vincere davvero. Sarà anche la partita decisiva, ma la Lombardia «non è l’Ohio d’Italia», ricorda Tabacci in un intervento particolarmente appassionato: «Non ci può essere incertezza, non si può nemmeno vincere di misura, noi lombardi dobbiamo caricarci sulle spalle la responsabilità di tutto il Paese: ci vuole un cambiamento etico e morale, non solo politico. L’Italia non è solo un problema di tasse, come qualcuno ci vuole far credere, è un problema di cuore e di coscienza». Aggiunge Pisapia: «Fino ad oggi, andando in giro ci ricordavano il bunga bunga, in Lombardia ci ricordano altro che non so se sia meglio o peggio. Con Ambrosoli saremo orgogliosi di essere lombardi e con Pier Luigi non ci vergogneremo di essere italiani». Dal palco il richiamo forte è alla massima mobilitazione per quest’ultimo scorcio di campagna elettorale: «Noi dice Bersani siamo in giro per l’Italia per risvegliare la nostra arma atomica, che è la partecipazione della nostra gente. Qui non c’è l’uomo solo al comando, qui ci sono milioni di protagonisti della nuova politica».
Parole chiave degli interventi di tutti, il lavoro, la giustizia sociale, la legalità, l’onestà. «Al primo giorno a Palazzo Chigi è Bersani che parla chiamerò la Caritas, l’Arci e i Comuni a far dire agli italiani che c’è un sacco di gente che non riesce a mangiare, e partiamo da lì». Parole come pietre per una Milano Lombardia, Italia che arranca nella crisi e nella precarietà, e che se ancora non se ne fosse accorta prima sta capendo ora fino in fondo dalle cronache giudiziarie il modo con cui Formigoni e le sue giunte Pdl-Lega hanno mantenuto per anni il potere. «Noi siamo quelli che amano le regole dice Ambrosoli Non abbiamo bisogno di continuità col passato, ma di nuove prospettive. È il momento di alzarci in piedi, il momento dell’indignazione». E Bersani, lo dirà in chiusura, promette una «grande lenzuolata di norme contro la corruzione. È ora che si premino gli onesti, non i furbi. E qui in Lombardia le ronde padane non hanno nemmeno fermato la ‘ndrangheta». Giustizia sociale, lotta alla povertà e alla precarietà sono i temi intorno ai quali ruota anche l’intervento di Vendola, che ricorda una volta di più: «Non sarò l’elemento di disturbo per il governo Bersani, ma la garanzia di governabilità e di stabilità». Si parla molto di donne, anche. Proprio qui, nella stessa piazza in cui solo qualche giorno fa migliaia di persone si sono ritrovate per manifestare contro la violenza alle donne, la dignità femminile diventa un tema centrale, come mai prima nelle campagne elettorali. «Liberiamoci di questo maschilismo patetico invita Vendola di questa volgarità. Riprendiamoci la politica alta, non quella che parla al basso ventre».
Il passaggio chiama automaticamente in causa Grillo, che si appresta, domani pomeriggio, al suo bagno di folla proprio qui, in piazza Duomo a Milano. Per lui che tra l’altro ieri sera ha disdetto un confronto su Sky, «perché lì qualcosina gliel’avrebbero chiesta» Bersani ha alcune domande, destinate pure queste a restare senza risposta: «Come fa chiede il leader Pd a parlare di Berlinguer, come ha fatto a Bologna, e poi a Roma a stringere la mano a quelli di casa Pound? Come fa a dire che i figli degli immigrati nati in Italia non sono italiani?». Populismo, non-politica, il «tanto sono tutti uguali».
Il palco di Milano sa benissimo che la tentazione per tanti può essere forte, dopo anni di corruzione e tangenti e mafie, persino. Ed è anche per questo che, lo ricorda Bersani in chiusura, «è fondamentale ricostruire un rapporto vero, sentimentale tra politica, istituzioni e cittadini».

L’Unità 18.02.13