attualità, politica italiana

“Una minaccia che non esiste”, di Michele Ainis

Su questo finale di partita volteggia, come un corvo, la minaccia: o election day il 10 febbraio o la sfiducia a Monti. Un altolà pronunciato da Alfano, urlato da Santanchè, sibilato a denti stretti da Silvio Berlusconi. Ma è una pistola scarica, e per una somma di ragioni. Anzi: siccome ogni legislatura dura 5 anni, siccome fin qui la XVI legislatura ci ha rallegrato per 4 anni e 8 mesi, quest’ultimo perentorio avvertimento equivale alla minaccia d’uccidere un morto. Difficile che il morto si faccia troppo male.
D’altronde non è in buona salute nemmeno l’assassino, sicché la sua cartella clinica disegna un secondo paradosso. E infatti, a quali scopi tende la minaccia? A serrare i ranghi del gruppo parlamentare pidiellino, a sollecitarne l’istinto di sopravvivenza davanti al rischio di prendere due scoppole di fila, ove le elezioni regionali fossero distanziate da quelle nazionali. Perché un ceffone ti fa male, due ti stendono per terra: e allora la rielezione può diventare un terno al lotto. Ma in realtà è più probabile l’opposto, se ti presenti agli elettori come il killer del governo che hai appoggiato. Se giustifichi il colpo di pistola con l’esigenza di risparmiar quattrini, quando l’anno scorso il centrodestra ci ha costretti a votare per tre volte in un mese, fra amministrative e referendum. Se confidi nell’obbedienza dei tuoi parlamentari verso il capo, mentre proprio quest’estremo ordine può innescare nella truppa il massimo disordine.
Ma se l’obiettivo del voto in febbraio è improbabile politicamente, tecnicamente è pressoché impossibile. Proviamo a mettere in fila qualche numero, tanto a dare i numeri ci pensa la politica. Supponiamo che la mozione di sfiducia a Monti venga depositata già durante questa settimana, anzi domani, anzi stanotte. C’è un problema però, si chiama legge elettorale: Napolitano ha già detto in mille lingue che non scioglierà anzitempo il Parlamento senza la riforma del Porcellum. Ce n’è poi un altro, si chiama legge di stabilità: e qui oltre al problema incontriamo pure il precedente. 13 novembre 2010, Pd e Idv presentano una mozione di sfiducia al IV governo Berlusconi. Vertice fra i vertici delle nostre istituzioni, dopo di che la decisione: prima la legge di stabilità, poi il voto sulla stabilità dell’esecutivo. Bersani un po’ borbotta, invece Berlusconi guadagna un mese per salvarsi la pelle. E il 14 dicembre ci riesce, proprio lui che in quest’altro dicembre vorrebbe far la pelle al gabinetto Monti.
Conclusione? Con 7 decreti ancora da convertire in Parlamento, la legge di stabilità verrà confezionata insieme al panettone. A quel punto potremmo pure aprire una crisi di governo, a dispetto delle feste comandate. Però ogni crisi chiede tempo, molto tempo: nei primi cinquant’anni di Repubblica (dal 1948 al 1998) abbiamo speso 1693 giorni per risolvere 50 crisi di governo. Tanto per dire, trascorsero 121 giorni dopo il tracollo del primo governo Andreotti (nel 1972), 91 dopo Forlani (nel 1987). E guardacaso il record spetta all’esecutivo più simile a quello che c’è adesso: 125 giorni quando cadde Dini, nel 1996. Senza contare i tempi tecnici che poi occorrono per indire le elezioni, se alla fine della giostra Napolitano licenzia il Parlamento. La Costituzione fissa un massimo di 70 giorni, dal 1994 al 2008 la media è stata di 65 giorni dopo lo scioglimento.
Conclusione bis: se davvero il centrodestra metterà ai voti la sfiducia a Monti, finirà per allungargli la vita. Conclusione tris: è inutile tuonare, se non hai energia per fulminare. Vale per Berlusconi, vale per la Lega che in novembre ha minacciato le dimissioni dei suoi parlamentari, per i sindaci che promettono di liberare in massa la poltrona, per le province che ricattano lo Stato annunciando il taglio dei riscaldamenti nelle scuole. Come diceva Bukowski, puoi anche minacciare il sole con una pistola ad acqua; ma poi ti bagnerai i calzoni.
Il Corriere della Sera 05.12.12