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"Napolitano: insinuati sospetti su di me", di Antonella Rampino

In memoria di un uomo «competente, serio e discreto». In memoria di Loris D’Ambrosio, consigliere giuridico di due presidenti della Repubblica, e morto di un crepacuore lo scorso luglio, nel pieno della polemica che investì il Quirinale per le telefonate di Napolitano con Nicola Mancino «captate» dalla procura di Palermo che indagava sulla trattativa Stato-mafia. In memoria di un magistrato di alto valore, antico sodale di Giovanni Falcone e autore materiale del 41-bis, Giorgio Napolitano è salito al castello Pulci per inaugurare, col Guardasigilli Paola Severino e il vicepresidente del Csm Michele Vietti, la scuola di formazione per magistrati diretta da Valerio Onida.
E dice subito, il presidente, che adesso sembra attenuato quel conflitto tra magistratura e politica che fu così «acuto e paralizzante tra maggioranza e opposizione sui temi della giustizia e della sua riforma» da provocare, nel 2008, un suo deciso richiamo «a non percepirsi ed esprimersi come mondi ostili». Dice subito quel che ha sempre detto, «rigorosa osservanza delle leggi, il più severo controllo di legalità sono imperativo assoluto per la salute della Repubblica e dobbiamo avere il massimo rispetto per la magistratura». Ma, insiste col pensiero rivolto ai giovani giudici che si perfezioneranno a Scandicci, «il magistrato è chiamato all’assoluta imparzialità, al senso della misura», «a non lasciarsi condizionare e turbare da contrapposizioni e polemiche».
E proprio perché «la politica e la giustizia non possono percepirsi ed esprimersi come mondi ostili», Napolitano rivendica «coerenza e trasparenza» nel sollevare il conflitto d’attribuzione alla Corte Costituzionale contro la Procura di Palermo. Fu quella, ripete ancora una volta, «una decisione obbligata, perché si è tentato, attraverso i canali di un’informazione sensazionalistica e qualche marginale settore politico» – riferimento chiaro al «Fatto quotidiano» e all’Italia dei Valori- di «mescolare un’iniziativa di assoluta correttezza istituzionale con il travagliato percorso delle indagini giudiziarie sulle ipotesi di trattiva Stato-mafia negli Anni 90, insinuando nel modo più gratuito il sospetto di interferenze da parte della Presidenza della Repubblica».
Decisione obbligata «per chi abbia giurato dinanzi al Parlamento di osservare la Costituzione, e avverta la necessità di una chiara puntualizzazione nella sola sede appropriata delle norme poste a tutela del libero svolgimento delle funzioni del presidente della Repubblica». «Decisione obbligata» dopo che la Procura di Palermo, – e solo la Procura di Palermo, sottolinea- «aveva data pubblica notizia di avvenute intercettazioni di mie conversazioni telefoniche, con un’interpretazione difforme da quella che io ritengo costituzionalmente legittima».
È la risposta, durissima, ai pm di Palermo che solo pochi giorni fa, nella memoria con la quale si costituiscono in giudizio presso la Corte Costituzionale, gli avevano dato del monarca, perchè a loro giudizio solo per i re vale l’immunità totale. Parole sinora mai commentate da Napolitano, dopo che in quel documento la Procura di Palermo aveva anche reso noto il numero delle intercettazioni di cui era stato oggetto, nel numero di quattro mentre si era sinora sostenuto che fossero solo due, e su un totale di alcune migliaia di telefonate registrate di Nicola Mancino.
Al centro di tutto, e anche del discorso di Scandicci, c’è una lettera sinora inedita di Loris D’Ambrosio, nella quale il magistrato al presidente scrive di non aver «mai esercitato pressioni o ingerenze che, anche minimamente, potessero tendere a favorire il senatore Mancino o qualsiasi altro rappresentante dello stato comunque implicato nei processi di Palermo, Caltanissetta e Firenze».
In quella accorata missiva del 18 giugno scorso, ora pubblicata in un volume che raccoglie tutti gli scritti di Napolitano sulla giustizia, D’Ambrosio diceva di essere «profondamente amareggiato dal fatto che sia stia cercando di spostare sulla Sua persona e sul Suo altissimo ruolo istituzionale condotte che invece soltanto a me sono riferibili». Il giorno dopo, Napolitano gli risponde: «Tentano di colpire lei per colpire me». Perché è una vera lettera di dimissioni, quella che il consigliere giuridico scrive al suo presidente. Una vicenda amara, e di ancor più amara conclusione.
La Stampa 16.10.12