La democrazia riceve il Nobel per la Pace. Perché ha trasformato l’Europa da continente di sanguinosi e atroci conflitti a unione di intenti nella libertà e nella tolleranza, le condizioni che creano la pace e allontanano le ragioni della guerra. È la democrazia che ha portato i popoli europei a creare un’unione e a godere di un benessere largo del quale hanno beneficiato sia i molti che i pochi. Ed è la democrazia ad essere in grave crisi oggi, insieme all’identità dell’Unione Europea, insieme alla crescita delle diseguaglianze sociali e, come si vede nell’umiliata Grecia, insieme alla pace sociale. L’Italia è sull’orlo di questo ciclo vorticoso di crisi e instabilità. Per ragioni simili e diverse a quelle che segnano i paesi del Sud Europa.
L’Italia è ad un tempo un laboratorio e un monito di questa fase di appannamento del regime democratico. Ezio Mauro parlava su questo giornale di democrazia malata, descrivendo i sistemi di corruzione che coprono tutta la penisola, le gravissime combutte dei politici eletti con la malavita organizzata che ha suoi uomini nel governo della regione più ricca ed europea del paese, nel profondo nord trasformato in un libero mercato delle camarille e della spartizione mafiosa del bene pubblico. L’origine dei mali sta dentro la politica. Sta nella sua pratica generalizzata, usata come un grande affare per sé, la propria famiglia, i propri amici, la propria fazione. Familismo immorale e clientelismo cronico. Con l’aiuto questa volta – ecco l’aspetto preoccupante – della riscrittura delle regole (di quel brutto Titolo V della Costituzione
scritto sotto la dettatura della Lega e dei partiti «nuovi») affinché fare affari senza lacci e con pochi controlli diventasse prassi ordinaria, nel nome della sussidiarietà. Nella politica ha allora trovato il proprio porto franco una società civile affamata di risorse ottenute con poca fatica, di privilegi, di complicità illecite. Il marcio è nelle istituzioni perché è fuori. C’è davvero poco di che illudersi a leggere le cronache di queste settimane. Eppure non c’è un altrove dal quale attingere per trovare le risorse che dovranno risanare la nostra democrazia. E quindi occorre che cittadini onesti e pubblica opinione con senso di responsabilità e amore della verità vogliano mettere la loro consapevolezza e la loro fatica al servizio di questa democrazia malata.
Amare la democrazia tuttavia non è facile quando questa non sa essere convincente abbastanza, non sa dare segnali espliciti che vale la pena rendere un servizio buono alla società. Perché mentre i comitati mafiosi e politici delle amministrazioni regionali demoliscono il bene pubblico, il governo degli onesti tecnici non sa proporre altro che l’erosione dei due pilastri della cittadinanza democratica: la scuola e la sanità. Ad un anno dal suo insediamento, questo governo di emergenza economica non è ancora riuscito a produrre un disegno di legge sulla corruzione mentre è riuscito con più di un intervento a continuare nell’opera di dimagrimento dei servizi pubblici buoni e utili, ad appesantire le contribuzioni delle fasce medie e basse, a rendere il lavoro più precario. Il governo della democrazia dovrebbe fare uno sforzo per
prendere decisioni che favoriscano la maggioranza della popolazione, e invece, gli sforzi sembrano andare nella direzione contraria. Questa politica è improvvida, soprattutto in questo momento di grave crisi di credibilità del sistema. Perché il rischio è che l’appello ai cittadini onesti cada nel vuoto se la democrazia non si dimostrerà conveniente per tutti – conveniente in senso buono, perché fa il bene dei suoi cittadini. Coltivare la scuola pubblica e non privarla anno dopo anno di risorse vitali; difendere la struttura sanitaria pubblica: su queste scelte la democrazia misura la sua capacità di convincerci che è un bene per tutti difenderla. Ma se tutto viene depauperato, non solo la legalità e la legittimità, bensì anche questi beni che generazioni di cittadini hanno costruito, allora c’è il rischio che in molti pensino che in fondo la democrazia non ha poi così tanto valore.
Ecco perché nel laboratorio Italia si combattono due battaglie: per l’onestà e per la giustizia sociale; per la democrazia delle regole e per la democrazia del welfare. Se queste due battaglie sono tenute disgiunte, se la prima battaglia non è affiancata dalla seconda, allora molti cittadini già provati dalla crisi e attoniti di fronte allo sciacallaggio delle loro risorse possono provare indifferenza per il malanno della democrazia. Il Nobel che l’Unione Europea si è guadagnato è un monito e un incitamento a tenere unite queste due battaglie in tutti i paesi europei, perché c’è il rischio serio che un passo più in là nella direzione sbagliata la democrazia si trovi a vivere il suo tramonto.
La Repubblica 15.10.12
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"Patto produttività, 72 ore per l'accordo", di Massimo Franchi
Il 18 ottobre si avvicina. La deadline di giovedì fissata da Mario Monti per trovare un’intesa imprese-sindacati sulla produttività (con cui il premier vorrebbe presentarsi al vertice Europeo) è sempre più vicina. Nel pomeriggio è previsto un nuovo incontro tra le parti nel quale, per la prima volta, dovrebbe essere presentato e discusso un testo preparato da Confindustria, la parte che più spinge per arrivare ad un accordo. Da qua a dire che entro giovedì quel testo sarà sottoscritto, ce ne passa. Non pochi sono i nodi, fin qui solo accennati. Molti e diversi sono i capitoli a cui i vari attori danno importanza. Se per le imprese i temi fondamentali sono flessibilità dell’orario e inquadramento, per i sindacati invece il capitolo più importante è quello di un possibile aumento dei salari netti e (in primis per la Cgil) quello della certificazione della rappresentanza. Molte sono anche le particolarità di una trattativa cominciata a palazzo Chigi l’11 settembre con l’invito del governo a tornarvi con un accordo tra le parti: la produttività è strettamente legata all’accordo sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali il 28 giugno 2011 e in gran parte rimasto ancora lettera morta. L’altra stranezza riguarda l’incentivo preparato dal governo. Se per il ministro dello Sviluppo Corrado Passera «la produttività è uno spread che ci costa molto più di quello finanziario: il primo ci costa 5 miliardi, quello sulla produttività 70 miliardi di fatturato in meno», nella Legge di stabilità le cifre sono molto diverse, ma ugualmente ballerine: si parla di uno stanziamento per defiscalizzare gli accordi aziendali di produttività per 1,2 miliardi nel 2013 e di 400 milioni nel 2014, ma tutti concordano sul fatto che, in caso di mancato accordo tra le parti entro giovedì, d’incanto quei soldi sparirebbero, venendo dirottati verso altri capitoli di spesa. Un “ricatto”, una spada di Damocle che ha molto infastidito i sindacati. «Noi lavoriamo fino all’ultimo per trovare una soluzione, ma il governo non può scaricare sulle parti sociali un tema così complesso come la produttività, né fissare una data invalicabile che rischia di compromettere la qualità dell’accordo», attacca Elena Lattuada, segretaria confederale Cgil, che assieme al collega Fabrizio Solari è al tavolo per Corso Italia. «Siamo in alto mare le fa eco Paolo Pirani, segretario confederale Uil vedremo se ci sono le condizioni per chiudere, ma di certo i tempi sono molto stretti: possiamo realisticamente puntare a linee guida per la contrattazione in essere ed ad affermare un percorso imperniato sulla produttività indicando le materie che vengono delegate alla contrattazione secondaria». Più pragmatico Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl: «Di questi tempi buttare a mare la possibilità che il governo finanzi più di un miliardo di sgravi fiscali mi sembra un grave errore. Cerchiamo di trovare il miglior accordo possibile, ma non perdiamo questa occasione: i lavoratori prenderebbero un piccolo rischio demandando alla produttività una parte del loro salario, ma recupererebbero con meno tassazione su quella quota di stipendio». Fin qui il metodo. È però sul merito che si concentrano le difficoltà più forti da superare. Governo e imprese puntano dunque a demandare ai contratti aziendali di secondo livello accordi sulla produttività che verrebbero defiscalizzati. La quota di aziende che, a oggi in Italia, applica il contratto di secondo livello è di circa il 30 per cento. È chiaro che un eventuale incentivo produrrebbe uno squilibrio tra contratto nazionale e aziendale, a favore del secondo. Una prospettiva vista come fumo negli occhi da molte federazioni della Cgil che considerano il contratto nazionale il cardine della contrattazione, quello in cui si stabilisce il potere d’acquisto del lavoratore. Il compromesso possibile sarebbe quello di fissare gli aumenti a livello nazionale e demandarli a livello aziendale per “sfruttare” la defiscalizzazione. C’è poi il tema del rinnovo dei contratti in corso. Le nuove regole si applicherebbero anche nei contratti (tessili, energia, telecomunicazioni, alimentaristi, edili) già in discussione? I sindacati sono per il “No” visto che in molti casi sono state presentate piattaforme unitarie. Il capitolo più delicato è quello del demansionamento. In tempo di crisi, le imprese chiedono a gran voce di poter far cambiare mansione ad un proprio dipendente, abbassandolo di livello. Ad oggi il Codice civile (articolo 2103) lo vieta: in teoria l’azienda deve licenziare il dipendente e riassumerlo con il nuovo inquadramento. I sindacati vedono il rischio di un via libera al demansionamento e chiedono paletti. Discorso similie per l’orario flessibile. In entrambi casi il possibile accordo tra le parti sociali andrà poi tradotto in legge da governo e Parlamento. L’unico punto dato per (abbastanza) definito è quello sulla certificazione della rappresentanza. Dando attuazione all’accordo del 28 giugno, sindacati e Confindustria (le altre imprese non lo hanno mai firmato) di dare rapidamente corpo alla certificazione degli iscritti ai sindacati (tramite l’Inps) e dei voti nelle varie Rsu (e qua i tempi si allungano). Rimane però il problema del terzo di eletti riservato in modo proporzionale ai sindacati firmatari degli accordi: nei metalmeccanici la Fiom-Cgil è esclusa.
L’Unità 15.10.12
"Patto produttività, 72 ore per l'accordo", di Massimo Franchi
Il 18 ottobre si avvicina. La deadline di giovedì fissata da Mario Monti per trovare un’intesa imprese-sindacati sulla produttività (con cui il premier vorrebbe presentarsi al vertice Europeo) è sempre più vicina. Nel pomeriggio è previsto un nuovo incontro tra le parti nel quale, per la prima volta, dovrebbe essere presentato e discusso un testo preparato da Confindustria, la parte che più spinge per arrivare ad un accordo. Da qua a dire che entro giovedì quel testo sarà sottoscritto, ce ne passa. Non pochi sono i nodi, fin qui solo accennati. Molti e diversi sono i capitoli a cui i vari attori danno importanza. Se per le imprese i temi fondamentali sono flessibilità dell’orario e inquadramento, per i sindacati invece il capitolo più importante è quello di un possibile aumento dei salari netti e (in primis per la Cgil) quello della certificazione della rappresentanza. Molte sono anche le particolarità di una trattativa cominciata a palazzo Chigi l’11 settembre con l’invito del governo a tornarvi con un accordo tra le parti: la produttività è strettamente legata all’accordo sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali il 28 giugno 2011 e in gran parte rimasto ancora lettera morta. L’altra stranezza riguarda l’incentivo preparato dal governo. Se per il ministro dello Sviluppo Corrado Passera «la produttività è uno spread che ci costa molto più di quello finanziario: il primo ci costa 5 miliardi, quello sulla produttività 70 miliardi di fatturato in meno», nella Legge di stabilità le cifre sono molto diverse, ma ugualmente ballerine: si parla di uno stanziamento per defiscalizzare gli accordi aziendali di produttività per 1,2 miliardi nel 2013 e di 400 milioni nel 2014, ma tutti concordano sul fatto che, in caso di mancato accordo tra le parti entro giovedì, d’incanto quei soldi sparirebbero, venendo dirottati verso altri capitoli di spesa. Un “ricatto”, una spada di Damocle che ha molto infastidito i sindacati. «Noi lavoriamo fino all’ultimo per trovare una soluzione, ma il governo non può scaricare sulle parti sociali un tema così complesso come la produttività, né fissare una data invalicabile che rischia di compromettere la qualità dell’accordo», attacca Elena Lattuada, segretaria confederale Cgil, che assieme al collega Fabrizio Solari è al tavolo per Corso Italia. «Siamo in alto mare le fa eco Paolo Pirani, segretario confederale Uil vedremo se ci sono le condizioni per chiudere, ma di certo i tempi sono molto stretti: possiamo realisticamente puntare a linee guida per la contrattazione in essere ed ad affermare un percorso imperniato sulla produttività indicando le materie che vengono delegate alla contrattazione secondaria». Più pragmatico Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl: «Di questi tempi buttare a mare la possibilità che il governo finanzi più di un miliardo di sgravi fiscali mi sembra un grave errore. Cerchiamo di trovare il miglior accordo possibile, ma non perdiamo questa occasione: i lavoratori prenderebbero un piccolo rischio demandando alla produttività una parte del loro salario, ma recupererebbero con meno tassazione su quella quota di stipendio». Fin qui il metodo. È però sul merito che si concentrano le difficoltà più forti da superare. Governo e imprese puntano dunque a demandare ai contratti aziendali di secondo livello accordi sulla produttività che verrebbero defiscalizzati. La quota di aziende che, a oggi in Italia, applica il contratto di secondo livello è di circa il 30 per cento. È chiaro che un eventuale incentivo produrrebbe uno squilibrio tra contratto nazionale e aziendale, a favore del secondo. Una prospettiva vista come fumo negli occhi da molte federazioni della Cgil che considerano il contratto nazionale il cardine della contrattazione, quello in cui si stabilisce il potere d’acquisto del lavoratore. Il compromesso possibile sarebbe quello di fissare gli aumenti a livello nazionale e demandarli a livello aziendale per “sfruttare” la defiscalizzazione. C’è poi il tema del rinnovo dei contratti in corso. Le nuove regole si applicherebbero anche nei contratti (tessili, energia, telecomunicazioni, alimentaristi, edili) già in discussione? I sindacati sono per il “No” visto che in molti casi sono state presentate piattaforme unitarie. Il capitolo più delicato è quello del demansionamento. In tempo di crisi, le imprese chiedono a gran voce di poter far cambiare mansione ad un proprio dipendente, abbassandolo di livello. Ad oggi il Codice civile (articolo 2103) lo vieta: in teoria l’azienda deve licenziare il dipendente e riassumerlo con il nuovo inquadramento. I sindacati vedono il rischio di un via libera al demansionamento e chiedono paletti. Discorso similie per l’orario flessibile. In entrambi casi il possibile accordo tra le parti sociali andrà poi tradotto in legge da governo e Parlamento. L’unico punto dato per (abbastanza) definito è quello sulla certificazione della rappresentanza. Dando attuazione all’accordo del 28 giugno, sindacati e Confindustria (le altre imprese non lo hanno mai firmato) di dare rapidamente corpo alla certificazione degli iscritti ai sindacati (tramite l’Inps) e dei voti nelle varie Rsu (e qua i tempi si allungano). Rimane però il problema del terzo di eletti riservato in modo proporzionale ai sindacati firmatari degli accordi: nei metalmeccanici la Fiom-Cgil è esclusa.
L’Unità 15.10.12
"Scuola: come produrre senza produttività?", di Massimo Chiriatti
C’è una difficoltà ricorrente in economia: non è facile valutare un beneficio futuro se il raggiungimento dell’obiettivo implica un costo attuale. Un esempio è la proposta governativa sull’aumento delle ore di lavoro in classe degli insegnanti che ha scatenato reazioni, tra le migliori vedi Mante eGalatea. Fare bene l’insegnante ha dei costi oggi per generare opportunità incalcolabili, almeno in prospettiva. Non è possibile pensare di “ridurre i costi” con il metro della razionalità e del ritorno economico dell’investimento. La relazione, il contatto con ogni studente consuma tempo e attenzione non propriamente misurabili.
Il rapporto costi-produttività è la materia di studio del professor William Baumol, un grande economista conosciuto per il concetto della “malattia dei costi”.
In breve, nei settori ad alta intensità di lavoro (ad esempio insegnare in classe o curare persone) la produttività non può aumentare molto data l’attenzione richiesta nell’interazione con la singola persona e quindi consistono in attività che non possono essere automatizzate.
William Baumol si concentra sulla differenza di produttività che esiste tra i settori economici in cui la tecnologia e i metodi possono sostanzialmente portare alla crescita e altre aree dove ad aumentare sono perlopiù i costi, come nel settore dell’istruzione.
Nello specifico, un insegnante non può aumentare nel corso degli anni la sua produttività, perché oltre un certo numero di allievi non si può andare, in quanto si perderebbe di efficienza. Però i costi (stipendi) crescono all’incirca quanto gli altri settori esposti al mercato della competitività e al continuo miglioramento dell’efficienza.
C’è da sottolineare che la proposta del governo non mira a “ridurre” i costi, ma a “spostarli” su:
– altri insegnanti, che resteranno disoccupati
– famiglie, che si accolleranno i costi di recupero
– società, che avrà un livello medio generale d’istruzione più basso.
Oggi intelligenza, professionalità e formazione sono le doti del lavoratore della conoscenza. Pertanto non possiamo espellere o comunque ridurre il numero di persone che cercano di creare cultura, che è la ricchezza che dobbiamo continuare ad accrescere per salvare questo Paese.
Ciò non significa che la scuola deve rimanere nel Novecento. Nessuno richiede più la standardizzazione né che ci si dedichi solo alle poche eccellenze, ma che tutta la classe cresca. La scuola deve invece riformarsi per rispondere ad alcune questioni, tipo: dove abbiamo sbagliato per trovarci in queste condizioni? Perchè non sfruttiamo modelli comeOilproject? Perché alcune imprese si lamentano che non abbiamo competenze allineate al mercato del lavoro? Sarà vero, ma poi i migliori emigrano per trovare occupazione.
Non perdiamo tempo scegliendo la scorciatoia del “quanto”, preoccupiamoci invece di “come” insegnare bene.
Il Sole 24 Ore 15.10.12
"Scuola: come produrre senza produttività?", di Massimo Chiriatti
C’è una difficoltà ricorrente in economia: non è facile valutare un beneficio futuro se il raggiungimento dell’obiettivo implica un costo attuale. Un esempio è la proposta governativa sull’aumento delle ore di lavoro in classe degli insegnanti che ha scatenato reazioni, tra le migliori vedi Mante eGalatea. Fare bene l’insegnante ha dei costi oggi per generare opportunità incalcolabili, almeno in prospettiva. Non è possibile pensare di “ridurre i costi” con il metro della razionalità e del ritorno economico dell’investimento. La relazione, il contatto con ogni studente consuma tempo e attenzione non propriamente misurabili.
Il rapporto costi-produttività è la materia di studio del professor William Baumol, un grande economista conosciuto per il concetto della “malattia dei costi”.
In breve, nei settori ad alta intensità di lavoro (ad esempio insegnare in classe o curare persone) la produttività non può aumentare molto data l’attenzione richiesta nell’interazione con la singola persona e quindi consistono in attività che non possono essere automatizzate.
William Baumol si concentra sulla differenza di produttività che esiste tra i settori economici in cui la tecnologia e i metodi possono sostanzialmente portare alla crescita e altre aree dove ad aumentare sono perlopiù i costi, come nel settore dell’istruzione.
Nello specifico, un insegnante non può aumentare nel corso degli anni la sua produttività, perché oltre un certo numero di allievi non si può andare, in quanto si perderebbe di efficienza. Però i costi (stipendi) crescono all’incirca quanto gli altri settori esposti al mercato della competitività e al continuo miglioramento dell’efficienza.
C’è da sottolineare che la proposta del governo non mira a “ridurre” i costi, ma a “spostarli” su:
– altri insegnanti, che resteranno disoccupati
– famiglie, che si accolleranno i costi di recupero
– società, che avrà un livello medio generale d’istruzione più basso.
Oggi intelligenza, professionalità e formazione sono le doti del lavoratore della conoscenza. Pertanto non possiamo espellere o comunque ridurre il numero di persone che cercano di creare cultura, che è la ricchezza che dobbiamo continuare ad accrescere per salvare questo Paese.
Ciò non significa che la scuola deve rimanere nel Novecento. Nessuno richiede più la standardizzazione né che ci si dedichi solo alle poche eccellenze, ma che tutta la classe cresca. La scuola deve invece riformarsi per rispondere ad alcune questioni, tipo: dove abbiamo sbagliato per trovarci in queste condizioni? Perchè non sfruttiamo modelli comeOilproject? Perché alcune imprese si lamentano che non abbiamo competenze allineate al mercato del lavoro? Sarà vero, ma poi i migliori emigrano per trovare occupazione.
Non perdiamo tempo scegliendo la scorciatoia del “quanto”, preoccupiamoci invece di “come” insegnare bene.
Il Sole 24 Ore 15.10.12
"Un segnale per tutti", di Carlo Galli
Non c’è la viltà all’origine del Gran Rifiuto di Veltroni. Certo, il Pd di oggi è diverso da quello che da lui è stato fondato cinque anni fa: la vocazione maggioritaria non è più all’ordine del giorno, e la contrapposizione fra Veltroni e D’Alema appartiene decisamente al passato – semmai, i due sono oggi dalla stessa parte, dalla parte dei notabili – . Certo, per Veltroni, stretto fra la solitaria battaglia di Bersani – che ne fa il dominus del partito, almeno agli occhi dell’opinione pubblica – e la sfida provocatoria di Renzi, lo spazio politico si era oggettivamente ristretto. Gli equilibri politici dentro il Pd stanno subendo modifiche che Veltroni ha forse anticipato. Ma ciò non vale per lui più di quanto valga per gli altri big del Pd; in ogni caso, non c’era nulla di irreparabile, nulla che con un po’ di spirito di adattamento non si sarebbe potuto aggiustare e superare, per garantirsi una più che decorosa permanenza al potere.
No. Probabilmente il gesto di Veltroni – reso pubblico lo stesso giorno in cui Bersani lancia la sua campagna elettorale, evento al quale l’annuncio veltroniano rischia di sovrapporsi – va letto in positivo; non come una rinuncia né come un colpo basso, ma come un atto politico, dotato di una valenza generale, che va al di là della vicenda personale. Un atto che non chiude col presente, ma che anzi interviene con perizia, e con spirito innovativo, su uno dei fronti polemici più esposti e più caldi: sulla contrapposizione fra vecchio e nuovo, a cui Renzi, il vero destinatario del messaggio, ha voluto dare una comoda e propagandistica declinazione generazionale, interpretandola come lo scontro fra vecchi e giovani. E trasformando così il rinnovamento, di cui l’Italia tutta (e non solo la politica) ha veramente bisogno, in rottamazione – un termine che ha in sé una carica di disprezzo e di violenza per nulla rassicurante.
Sia chiaro. Se si è giunti a ciò, se questa ipotesi semplicistica ha trovato tanto consenso, è perché dalla politica sono giunti, finora, segnali di sordità (e cecità) davanti a un’esigenza che è invece sotto gli occhi di tutti: il radicale cambio di passo del Paese. Che continua a sprofondare nella sua crisi sistemica con un misto di rassegnazione e di panico anche perché il ceto politico non sembra in grado, finora, di fornire indicazioni, modelli, esempi, di autentico cambiamento, di vera assunzione di responsabilità. Dopo Fiorito e Polverini – strappati alle loro poltrone a furore di popolo (e di magistratura) – è ora dalla Lombardia, da Formigoni, che giunge l’ennesimo segnale di resistenza a oltranza su posizioni indifendibili, su crinali esposti alle raffiche di
ogni critica, su poltrone che in ogni altro Paese occidentale sarebbero state, con vergogna, abbandonate da mesi. La richiesta di rottamazione – che è sbagliata perché pretende di esaurire la politica e la sua complessità in una sorta di meccanico passaggio di consegne generazionale – trova la sua origine proprio in questo tenace, impudico, patetico, arrogante, attaccamento al potere, anche in condizioni disperate. È la risposta sbagliata a una situazione esasperante.
Ecco: la rinuncia di Veltroni al Parlamento è un atto politico perché è un altro tipo di risposta, tanto ai tenaci occupatori di cariche pubbliche quanto alle demagogie dei rottamatori. I primi sono sfidati da un abbandono che è esemplare perché non forzato, perché non avviene sull’onda di scandali e di malversazioni; i secondi sono privati di un pretesto, e la loro rabbia si rivela quindi per quello che è: la copertura dell’arrivismo dei capi e del qualunquismo (o del semplicismo) dei seguaci. Il gesto di Veltroni non è un addio alla politica per ragioni soggettive: lo stesso interessato, citando Prodi e Amato, mostra di prefigurarsi un avvenire di intenso coinvolgimento nella politica, anche se non più negli spazi istituzionali. Ma non è un addio alla politica anche per ragioni oggettive: e non solo perché questa decisione avrà necessariamente riflessi sulle dinamiche interne del Pd ma soprattutto perché mostra che la politica, se vuole, sa rinnovarsi da sola, senza avere bisogno né della magistratura né delle urla di piazza; e che in tale rinnovamento si rafforza, perde l’aspetto dell’attaccamento al potere personale e diviene (o ridiventa) ciò che deve essere: la costante volontà di contribuire con l’azione e con l’esperienza all’interesse generale. È insomma, quel gesto, l’indicazione che la politica non è solo il “posto”, e che è bella, grande, importante proprio per questo. Perché coincide con la vita intera di una persona, con la sua voglia di agire responsabilmente in società, non con la sua permanenza su una poltrona – come invece pensano tanto i devoti del potere quanto i rottamatori – . Un messaggio che oggi è di un singolo, e che dovrebbe diventare di molti.
La Repubblica 15.10.12
"Un segnale per tutti", di Carlo Galli
Non c’è la viltà all’origine del Gran Rifiuto di Veltroni. Certo, il Pd di oggi è diverso da quello che da lui è stato fondato cinque anni fa: la vocazione maggioritaria non è più all’ordine del giorno, e la contrapposizione fra Veltroni e D’Alema appartiene decisamente al passato – semmai, i due sono oggi dalla stessa parte, dalla parte dei notabili – . Certo, per Veltroni, stretto fra la solitaria battaglia di Bersani – che ne fa il dominus del partito, almeno agli occhi dell’opinione pubblica – e la sfida provocatoria di Renzi, lo spazio politico si era oggettivamente ristretto. Gli equilibri politici dentro il Pd stanno subendo modifiche che Veltroni ha forse anticipato. Ma ciò non vale per lui più di quanto valga per gli altri big del Pd; in ogni caso, non c’era nulla di irreparabile, nulla che con un po’ di spirito di adattamento non si sarebbe potuto aggiustare e superare, per garantirsi una più che decorosa permanenza al potere.
No. Probabilmente il gesto di Veltroni – reso pubblico lo stesso giorno in cui Bersani lancia la sua campagna elettorale, evento al quale l’annuncio veltroniano rischia di sovrapporsi – va letto in positivo; non come una rinuncia né come un colpo basso, ma come un atto politico, dotato di una valenza generale, che va al di là della vicenda personale. Un atto che non chiude col presente, ma che anzi interviene con perizia, e con spirito innovativo, su uno dei fronti polemici più esposti e più caldi: sulla contrapposizione fra vecchio e nuovo, a cui Renzi, il vero destinatario del messaggio, ha voluto dare una comoda e propagandistica declinazione generazionale, interpretandola come lo scontro fra vecchi e giovani. E trasformando così il rinnovamento, di cui l’Italia tutta (e non solo la politica) ha veramente bisogno, in rottamazione – un termine che ha in sé una carica di disprezzo e di violenza per nulla rassicurante.
Sia chiaro. Se si è giunti a ciò, se questa ipotesi semplicistica ha trovato tanto consenso, è perché dalla politica sono giunti, finora, segnali di sordità (e cecità) davanti a un’esigenza che è invece sotto gli occhi di tutti: il radicale cambio di passo del Paese. Che continua a sprofondare nella sua crisi sistemica con un misto di rassegnazione e di panico anche perché il ceto politico non sembra in grado, finora, di fornire indicazioni, modelli, esempi, di autentico cambiamento, di vera assunzione di responsabilità. Dopo Fiorito e Polverini – strappati alle loro poltrone a furore di popolo (e di magistratura) – è ora dalla Lombardia, da Formigoni, che giunge l’ennesimo segnale di resistenza a oltranza su posizioni indifendibili, su crinali esposti alle raffiche di
ogni critica, su poltrone che in ogni altro Paese occidentale sarebbero state, con vergogna, abbandonate da mesi. La richiesta di rottamazione – che è sbagliata perché pretende di esaurire la politica e la sua complessità in una sorta di meccanico passaggio di consegne generazionale – trova la sua origine proprio in questo tenace, impudico, patetico, arrogante, attaccamento al potere, anche in condizioni disperate. È la risposta sbagliata a una situazione esasperante.
Ecco: la rinuncia di Veltroni al Parlamento è un atto politico perché è un altro tipo di risposta, tanto ai tenaci occupatori di cariche pubbliche quanto alle demagogie dei rottamatori. I primi sono sfidati da un abbandono che è esemplare perché non forzato, perché non avviene sull’onda di scandali e di malversazioni; i secondi sono privati di un pretesto, e la loro rabbia si rivela quindi per quello che è: la copertura dell’arrivismo dei capi e del qualunquismo (o del semplicismo) dei seguaci. Il gesto di Veltroni non è un addio alla politica per ragioni soggettive: lo stesso interessato, citando Prodi e Amato, mostra di prefigurarsi un avvenire di intenso coinvolgimento nella politica, anche se non più negli spazi istituzionali. Ma non è un addio alla politica anche per ragioni oggettive: e non solo perché questa decisione avrà necessariamente riflessi sulle dinamiche interne del Pd ma soprattutto perché mostra che la politica, se vuole, sa rinnovarsi da sola, senza avere bisogno né della magistratura né delle urla di piazza; e che in tale rinnovamento si rafforza, perde l’aspetto dell’attaccamento al potere personale e diviene (o ridiventa) ciò che deve essere: la costante volontà di contribuire con l’azione e con l’esperienza all’interesse generale. È insomma, quel gesto, l’indicazione che la politica non è solo il “posto”, e che è bella, grande, importante proprio per questo. Perché coincide con la vita intera di una persona, con la sua voglia di agire responsabilmente in società, non con la sua permanenza su una poltrona – come invece pensano tanto i devoti del potere quanto i rottamatori – . Un messaggio che oggi è di un singolo, e che dovrebbe diventare di molti.
La Repubblica 15.10.12