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"Bersani lancia la sfida: il Pd è la sola speranza", di Simone Collini

«Mio padre era capace di abbandonare tutto, qui in officina, se arrivava un bambino con la bicicletta rotta a chiedere aiuto». Ci pensa un po’ su. «Ecco cosa vuol dire darsi da fare». Poi Pier Luigi Bersani si guarda intorno, il ponte meccanico con sopra una macchina da riparare, strumentazioni elettroniche moderne, una vecchia Due cavalli faccia al muro. «Qui non era mica così in grande. Si era partiti dal niente. C’erano i fondamentali. C’era la voglia di rimboccarsi le maniche».
Lui aiutava fuori, alla pompa di benzina. Qui dentro in officina no, pensava a tutto Giuseppe, che tutti chiamavano Pino. Che votava Dc. E che era tutt’altro che entusiasta del modo in cui il figlio minore impiegava il suo tempo libero. Poco distante da questo distributore Esso c’è il “Bar Colombo”. «Lì feci il mio primo comizio. Mi ricordo, era un lunedì di mercato, la piazza era piena. Ad ascoltarmi ci saranno state sì e no venti persone. Le idee che portavo non è che fossero di una popolarità smisurata. Ma la vera ansia era attraversare il ponte e ascoltare quello che poi avevano da dirmi a casa. Ma ci vuole coraggio. Io ci ho messo coraggio. Quello che ora voglio risvegliare negli italiani, che come hanno saputo reagire in passato di fronte a difficoltà gravi oggi devono accettare uno sforzo comune, perché chi ha di più deve dare di più, con spirito di solidarietà». Nell’officina entra il fratello, Mauro. Il distributore è invece rimasto al cugino, Sergio. Entra anche qualche vecchio amico. Abbracci, risate, occhi che all’improvviso si fanno lucidi. «I ricordi arrivano a folate».
E allora conviene lasciarsi andare alle battute, per non cedere troppo alla commozione. «Quel ponte? No, non ci entrerebbe un camper. Ma non è un problema, facciamo una deroga e lo allarghiamo. Convocando l’assemblea nazionale? Macché, non c’è bisogno, lo facciamo subito». E suo nipote, quel bambino che stava con suo fratello e che chiedeva di Renzi? «No, no, è figlio di amici, non è mio nipote», mette in chiaro. E giù una bella risata per scaricare la tensione.
Bersani parte dalle radici per la sfida del «cambiamento». Torna a Bettola, suo paese natale, per il via della campagna elettorale. Poi toccherà al Cern di Ginevra, e dopo i luoghi dell’ eccellenza italiana toccherà a quelli della crisi, ai simboli della necessità di ricostruire, e quindi a L’Aquila. Perché le primarie sono la prossima tappa, ma l’obiettivo è Palazzo Chigi. «Mi sono posto questa domanda: uno che si candida, cosa deve dire? Quel che farà, sì. Ma prima di tutto chi è. Troppo spesso le parole sul futuro sono state al vento. Non è questa la nostra consuetudine. Io favole non ne racconterò. Se qualcuno le vuole scelga altri, io non sono capace. Ma intanto il passato è scritto, c’è». Ecco perché ha scelto di cominciare da qui il percorso che lo dovrebbe portare al governo. Perché per lui la politica è ancora «essere fedeli agli ideali della gioventù», citando le parole di Enrico Berlinguer. «Ho fatto tante cose», dice ricordando gli anni da presidente di Regione, quelli da ministro. «Ma il Bersani vero è questo qua, tra il distributore e l’officina, dove stanno le mie radici. Il Paese ha bisogno di cambiamento, ma le foglie nuove possono venire solo se ci sono le radici». E pazienza se Renzi manda a dire che «vanno tagliati i rami vecchi». Gli si può rispondere che «non può essere lui a decidere quali tagliare». Poco importa che il sindaco di Firenze lamenti che sulle regole delle primarie Bersani «non è stato di parola». Gli si può ricordare che è stato cambiato lo Statuto del Pd per permettergli di candidarsi «e sfido chiunque a dubitare della nostra volontà di apertura». Ma lo si può fare così, senza dedicarci più che una battuta. «L’insegnamento fondamentale che mi è venuto da quell’officina è che la vita reale, la vita comune dei cittadini viene prima di ogni altra cosa, della comunicazione, dell’interpretazione politica, e io terrò fermo questo punto».
Nella piazza principale del Paese, dove c’è quel «Bar Colombo» del primo comizio, è stato montato un palchetto di non più di cinque metri quadrati e corredato della sola scritta «Il coraggio dell’Italia». Più una grande chiave inglese in polistirolo grigio, con in rosso «costruiamo il futuro». Si sta accalcati, stretti tra la chiesa e il municipio. In prima fila c’è chi tiene un lenzuolo, con su scritto: «Noi aggiustiamo, non rottamiamo». Si aspetta che finisca la messa. Poi si aspetta che il gruppo di musica popolare finisca di suonare un valzer. Chitarra, violino, fisarmonica e piffero, prodotto dall’ultimo artigiano rimasto a costruirlo, in una valle qui a fianco, Bobbio. Gliel’ha chiesto Bersani di venire a suonare qui. Il valzer, il piffero, un’ Italia sparita. «No, ti sbagli». Il sorriso di chi è convinto di saperla lunga. Poi sale sul palchetto ed è da qui che dice che «Monti deve continuare a dare un contributo al Paese», che il prossimo governo deve mandare avanti «il meglio dell’esperienza» dell’attuale esecutivo. È il giorno dopo la presentazione della «carta d’intenti», e sui giornali si sottolinea l’assenza di espliciti riferimenti all’operato dell’attuale premier. «Mi misurano il tasso di montismo, mi fanno il prelievo tutte le mattine. Cosa devo dire? Lo abbiamo voluto noi Monti, abbiamo lavorato per questa scelta. E lo sosteniamo, anche ingoiando bocconi amari. Se non ci fossimo rotti le gambe noi a correre ogni volta a votare la fiducia, con una destra che non c’è più, hai voglia dov’ era questo governo». Però in futuro no, un Monti-bis, un governissimo col Pdl «non esiste».
Si vota tra sei mesi circa, ma ieri era il quinto anno dalla nascita del Pd. «In molti erano scettici allora, ma è diventato il primo partito. Con i suoi limiti e con i suoi difetti, questo bambino qui è l’unica speranza del Paese».
L’Unità 15.10.12