Latest Posts

Bersani: «Il coraggio dell’Italia» Oggi il manifesto dei progressisti, di Simone Collini

Chiuso il confronto sulle regole e definito il testo della «Carta d’intenti per l’Italia bene comune», le primarie entrano nel vivo. E non è detto che i motivi di polemica siano destinati a diminuire, anzi. Oggi il leader del Pd Bersani, quello di Sel Vendola e quello del Psi Nencini presenteranno il manifesto che andrà sottoscritto da chi vuole correre per essere scelto come candidato premier. Ma questa mattina dovrebbero essere illustrate anche le modalità di voto della sfida ai gazebo. Il condizionale è d’obbligo perché la riunione tra gli sherpa dei tre partiti della coalizione progressista, che doveva essere risolutiva, si è chiusa con il fronte vendoliano recalcitrante ad accettare la norma (benvista da Pd e Psi) per la quale possa votare al secondo turno (fissato per il 2 dicembre nel caso nessun candidato ottenesse il 50% dei consensi il 25 novembre) soltanto chi si è registrato (cioè ha firmato l’appello a sostegno del centrosinistra) entro la domenica precedente. Per di più, quando sono iniziate a trapelare indiscrezioni su quale fosse il punto di caduta della trattativa (si può votare al solo secondo turno esclusivamente in «rari e isolati» casi, ovvero dimostrando che al primo turno si era malati o all’estero), il coordinatore della campagna di Renzi, Roberto Reggi, si è precipitato a Roma per contestare questa norma, quella per cui il luogo dove registrarsi sarà diverso da quello dove si voterà e anche quella per cui i nomi di chi sottoscriverà il manifesto del centrosinistra saranno pubblici e l’albo degli elettori sarà consultabile.

LO SLOGAN DI BERSANI

La discussione è andata avanti ma Bersani ha dato mandato ai suoi di chiudere prima di stamattina questa partita, per poter lanciare oggi manifesto e regole e aprire una nuova fase della sfida. Il leader del Pd apre infatti la sua campagna domani, che tra le altre cose è il giorno del quinto anniversario della nascita del Pd (le primarie che hanno eletto Veltroni segretario si sono svolte il 14 ottobre 2007). Il luogo scelto per la partenza è Bettola, paese natale del segretario democratico, e per la precisione a fornire il set sarà la pompa di benzina che gestiva il padre, Giuseppe. E domani verrà ufficialmente svelato anche lo slogan della campagna di Bersani (la scritta verrà posta sul piccolo palco montato nel piazzale della pompa di benzina) che sarà «Il coraggio dell’Italia». Il leader del Pd, che guarda alle primarie ma soprattutto alla sfida per Palazzo Chigi, lo ha scelto per ricordare che il Paese ha saputo far fronte anche ai problemi più drammatici, ma anche per chiamare gli italiani a una «riscossa civica», insieme a un centrosinistra che dovrà avere il coraggio di «ripensare al lavoro», «fermare i privilegi», «ridare prestigio alla politica» (sarà su queste e altre questioni che verrà declinato lo slogan principale).

UNA CARTA SENZA MONTI

Bersani oggi intanto rischia però di dover fare i conti con due fronti polemici. Agli attriti con i renziani, che esploderanno non appena le regole verranno ufficialmente presentate, rischiano infatti di aggiungersi delle critiche provenienti dai cosiddetti montiani del Pd. La «carta» che verrà presentata oggi non contiene infatti riferimenti espliciti all’operato di Monti, diversamente da quella messa a punto da Bersani prima dell’estate, nella quale si parlava dell’«autorevolezza» dell’attuale premier. Una scelta obbligata, visto che Vendola spingeva per inserire un riferimento a Monti di segno negativo. La decisione di non citare l’attuale capo del governo fa però storcere la bocca a quanti, nello stesso Pd (da Gentiloni a Morando, da Tonini a Ceccanti a Vas- sallo) guardano con favore all’ipotesi del Monti bis e guardano invece con preoccupazione a una «carta» in cui si critica la linea del rigore a livello europeo.

L’Unità 13.10.12

Il Nobel per la pace all’Europa “La sua storia batterà la crisi”, di Andrea Bonanni

Il premio Nobel per la Pace 2012 va all’Unione europea. La decisione del comitato norvegese ha sorpreso un po’ tutti. E’ la prima volta che il premio viene assegnato, se non ad una nazione in senso stretto, ad una organizzazione di tipo statuale. In passato erano stati premiati leader di governo e presidenti (l’ultimo è stato Obama), mai i Paesi che essi rappresentavano.
In realtà il Nobel all’Ue è un riconoscimento alla sua storia e un incoraggiamento a superare «le gravi difficoltà economiche e il considerevole malessere sociale che la affligge». «Il comitato Nobel norvegese desidera mettere l’accento su ciò che considera come il risultato più importante dell’Ue: la lotta vittoriosa per la pace la riconciliazione, la democrazia e i diritti umani», è scritto nella motivazione. I 5 saggi eletti dal parlamento di Oslo ripercorrono le fasi cruciali della costruzione europea: la riconciliazione franco-tedesca che dimostra come «nemici storici possano diventare partner strettamente legati »; l’allargamento a Grecia, Spagna e Portogallo, condizionato ad una pacifica transizione verso la democrazia dopo la fine delle dittature fasciste; la riunificazione con l’Europa orientale «che ha messo fine alle divisioni
tra Est ed Ovest»; infine il ruolo di pacificazione che l’Europa ha assunto nei Balcani e lo stimolo al rispetto dei diritti umani e delle regole democratiche in Turchia. Naturalmente la notizia è stata accolta con enorme soddisfazione sia dai dirigenti delle istituzioni europee sia nelle capitali dell’Unione. Ma non sono mancate proteste e dichiarazioni ironiche. Il polacco Lech Walesa e il presidente ceco Vaclav Klaus si sono detti delusi e indignati.
Gli euroscettici britannici oscillano tra un prudente silenzio e manifestazioni di oltraggiato stupore. Cameron, alle prese con le richieste di un referendum per uscire dall’Ue, non ha rilasciato commenti delegando il compito al ministero degli Esteri. La stampa anglosassone non ha risparmiato le battute ironiche: non potevano certo dare all’Ue il Nobel all’economia.
Ma anche chi sinceramente si rallegra, finora ha evitato toni troppo trionfalistici: il presidente del Parlamento europeo, Martin Schulz, pur dicendosi felice e orgoglioso, ha ricordato «è la pace interna ad essere in pericolo, oggi, in Europa». La maggior parte dei capi di governo, comunque, nei commenti sottolineano il significato di incoraggiamento in un momento difficile che viene dal premio. Incoraggiamento che arriva peraltro da un Paese, la Norvegia, che per ben 2 volte ha bocciato con un referendum la proposta di entrare nella Ue.
Il Nobel ha comunque già avuto un risultato paradossale: nessuno, al momento, è in grado di indicare quale sarà la persona che a dicembre andrà fisicamente a ritirare il riconoscimento. La vecchia battuta di Kissinger sull’Europa che «non ha un numero di telefono» da chiamare in caso di crisi è evidentemente ancora d’attualità. «Prima di pensare a questo problema, preferisco assaporare la soddisfazione di queste ore», ha commentato il presidente del Consiglio europeo, Van Rompuy, uno dei candidati a rappresentare l’Unione. Gli altri sono il presidente della Commissione, Barroso, il presidente del Parlamento europeo, Schulz, l’alto rappresentante per la politica estera, Catherine Ashton, e il governo cipriota che esercita in questi sei mesi la presidenza semestrale dell’Unione. La questione può apparire banale. Ma non deve esserlo poi tanto, se si è deciso di rimettere la decisione al vertice dei capi di governo a Bruxelles la settimana prossima.

La Repubblica 13.10.12

******

“Premio giusto, ma non basta”, di GIAN ENRICO RUSCONI

Il Premio Nobel per la Pace assegnato all’Unione Europa può essere giudicato da punti di vista diversi, anche contrastanti. E’ innanzitutto il riconoscimento di quanto l’Europa ha fatto secondo i suoi principi ispiratori: «l’impegno coronato da successo per la pace, la riconciliazione e per la democrazia e i diritti umani. Il ruolo di stabilità giocato dall’Unione ha aiutato a trasformare la gran parte d’Europa da un continente di guerra in un continente di pace». E’ vero. La motivazione del Premio ricorda che l’Unione europea si è costruita a partire dalla riuscita riconciliazione tra Germania e Francia e dal superamento di tutte le ostilità armate che avevano diviso, in varie combinazioni, le nazioni (o nazionalità) europee nel corso del «secolo breve». Non da ultimo le nazioni dell’area balcanica di cui fanno parte le ultime aspiranti ad entrare nell’Unione (Croazia, Montenegro).
Non sono passati neppure cento anni dalla «catastrofe originaria dell’Europa» del 1914, innescata a Sarajevo ma ferocemente combattuta e decisa in terra di Francia e nel Nord-Est italiano. Poi è seguita la stagione ancora più terribile della «pace sbagliata» di Versailles, delle crisi dei sistemi liberali, della instaurazione delle dittature totalitarie, seguite da un’altra guerra che da europea è diventata compiutamente e definitivamente mondiale. Poi è stata la volta della Guerra fredda con l’ultima divisione d’Europa e di Germania, superata anche grazie ad una Comunità europea, che nel frattempo si era sufficientemente consolidata per essere un fattore decisivo nella soluzione del problema. Infine con l’ingresso di numerosi paesi dell’Europa centrale e orientale – dice la motivazione del Nobel – «si è aperta una nuova era nella storia d’Europa, le divisioni tra Est e Ovest sono in gran parte terminate, la democrazia è stata rafforzata, molti conflitti su base etnica sono stati risolti».
Per la verità, qui il testo avrebbe dovuto essere più cauto nel fare queste affermazioni sul rafforzamento della democrazia e la risoluzione dei conflitti etnici. Avrebbe dovuto assumere un tono di auspicio e di raccomandazione, anziché di constatazione di presunte realtà di fatto che – ahimè – non trovano riscontro.

Ammettere più esplicitamente, nella motivazione del Premio, i limiti attuali dell’azione dell’Unione non avrebbe tolto nulla alla positività della vicenda che ha caratterizzato la sua nascita, che l’ha accompagnata, facendola maturare gradualmente, tenacemente – non senza l’opposizione (non dimentichiamolo) da parte di forze politiche che oggi magari si associano al coro delle congratulazioni. E’ giusto premiare questa Europa. Ma non basta.
La motivazione del Premio ricorda quasi per inciso che oggi «l’Ue sta affrontando una difficile crisi economica e forti tensioni sociali. Ma il Comitato per il Nobel vuole concentrarsi su quello che considera il più importante risultato dell’Ue ecc.». Francamente, a mio avviso, limitarsi a parlare di «difficile crisi economica e forti tensioni sociali» è eufemistico, almeno per alcuni paesi. Certo: la situazione odierna non è di «guerra» neppure «civile», forse perché i popoli europei sono diventati più saggi. Ma esistono serie divergenze di valutazione delle classi politiche dirigenti dei paesi europei e ondate anti-europeiste che non basta esorcizzare come populiste o antipolitiche. Soprattutto assistiamo al riemergere di fratture culturali nazionali, con il loro seguito di stereotipi, pregiudizi e reciproci maliziosi giudizi sommari, che non ci saremmo attesi una decina d’anni fa, in una Europa amichevolmente conciliata e democratizzata – come ci si aspettava.
Viene la tentazione di parafrasare europeizzandole le parole tradizionalmente messe in bocca al grande italiano Massimo d’Azeglio: «Fatta l’Europa, dobbiamo fare gli europei». Cederemmo volentieri a questa innocua retorica se non sapessimo già per il nostro paese (e non lo constatassimo tutti i giorni, proprio in questi giorni) quanto proibitiva sia questa impresa. Che il Premio Nobel serva almeno come incoraggiamento.

La Stampa 13.10.12

Sciopero e cortei, scuola ferma, «No al bastone e alla carota», da Il Messaggero

Tre anni fa urlavano: «Noi la crisi non la paghiamo». Oggi è diverso: «L’abbiamo pagata, adesso basta». Gli studenti medi sono scesi in piazza in tutta Italia per protestare contro la «privatizzazione della scuola pubblica», ovvero contro il disegno di legge Aprea, che questo processo potrebbe avviare. E’ una battaglia che i ragazzi combattono a colpi di carota: da nord a sud, in mano i ragazzi avevano un ortaggio, ironica risposta al ministro dell’istruzione Profumo che aveva parlato di un Paese «che ha bisogno di bastone e carota».
Se la settimana scorsa si era registrato qualche episodio di violenza, lanci di oggetti, tentati sfondamenti e cariche, ieri ha prevalso la protesta pacifica. Pochi anche i gesti provocatori: il primo, al mattino, è stato un blitz nella sede italiana del parlamento europeo di via IV novembre a Roma, altro breve momento di tensione a Milano, dove è stata presa una bandiera della sede della Regione.
La mobilitazione dei ragazzi ha coinciso con lo sciopero dell’intero comparto della conoscenza indetto dalla Flc-Cgil. Così le generazioni si sono ritrovate in piazza. A Roma il corteo dei giovani (spesso giovanissimi) è partito di buon mattino da piazza Esedra, pochi striscioni, molti slogan, gli infiltrati temuti alla vigilia non ci sono. Poco più in là, a Santa Maria Maggiore li aspettano festanti i più solidi sindacalisti. E’ il fischietto che incontra l’iPhone. «Salutiamo i nostri ragazzi», dicono i megafoni della Cgil. A osservare lo spettacolo c’è Giorgio Cremaschi della Fiom che si lascia andare all’ottimismo: «E’ la fine della grande gelata. Abbiamo un nemico comune: Monti e l’austerità». Il serpentone diventa unico, con i giovani davanti e gli altri dietro. Fino a piazza Venezia tutto scorre tranquillo. Poi gli studenti, invece di dirigersi verso piazza Santi Apostoli, come prevedeva il percorso ufficiale (con comizio sindacale), si piazzano davanti all’Altare della Patria chiedendo, con educazione tutto sommato, di proseguire il corteo. L’intenzione iniziale era di andare davanti al Senato, ma dopo un lungo conciliabolo con i dirigenti della questura si concorda di arrivare al Ministero dell’istruzione di viale Trastevere. I celerini schierati si spostano e si riparte, con clima allegro e con molte ripercussioni sul traffico. «Salutiamo la gente in coda», dice al megafono Federico Del Giudice, uno dei leader della Rete dalla conoscenza «siamo qui per i vostri figli». Gli automobilisti non ricambiano la dedica. Quando si arriva al ministero le carote, brandite fino ad allora, vengono scagliate contro i poliziotti schierati a difesa del palazzo: «Ci è andata bene, di solito sono uova», commenta un agente.
A Milano la crisi della Regione è stata al centro della manifestazione: «Fuori la mafia dal Pirellone», recitano slogan e manifesti sin dalla partenza in piazza Cordusio. Quando i ragazzi sono arrivati davanti alla sede regionale l’obiettivo è diventato Formigoni, con inevitabile coro: «Dimissioni». A Genova, oltre alle carote, gli studenti hanno portato un cumulo di pietre (mai lanciate) davanti alla prefettura con un cartello: «Avete ridotto la scuola in macerie». Poi la protesta è stata portata anche al Salone Nautico, in corso in questi giorni, senza creare alcun disagio all’evento. Mille persone sono scese in piazza anche a Napoli. Gli studenti torinesi hanno ricordato un ragazzo morto sotto le macerie della sua classe. A Firenze la parola d’ordine è stata «Stop a Profumo, non facciamolo parlare», riferimento alla visita del ministro il 16 ottobre in occasione dell’inaugurazione dell’anno di studi dell’Accademia delle Belle arti.
Prima di scioglieri i cortei arriva il nuovo appuntamento: il 27 ottobre, con un’iniziativa che già dal titolo dice tutto: No Monti day.

Il Messaggero 13.10.12

******

Tweet e immagini in diretta «Siamo soltanto all’inizio»

Sul web l’hanno già ribattezzata la «Rivoluzione arancione». Armati di iPhone hanno raccontato in diretta la manifestazione, postando sul web le foto del lancio delle carote contro la sede del ministero. Sul web l’hanno già ribattezzata la «Rivoluzione arancione». Armati di iPhone hanno raccontato in diretta la manifestazione, postando sul web le foto del lancio delle carote contro la sede del ministero dell’Istruzione. Francesco crea l’hashtag «carota» e descrive i primi momenti del corteo che ha sfilato per le vie del Centro: «Partiamo in migliaia da piazza della Repubblica contro la privatizzazione di fatto della scuola». Scorrono poi decine di cinguettii nei canali creati per raccontare la protesta: 12ott, noninvendita e studentinpiazza. Spunta anche «Re di bastoni» dedicato al ministro Profumo al quale gli studenti non hanno perdonato la frase: «Per la ricerca in Italia occorre un po’ di carota e un po’ di bastone».
Poco prima dell’inizio del corteo c’è chi avverte su Twitter: «Ragazzi di destra a piazza Re di Roma, spiegamento delle forze dell’ordine» allarme che poi fortunatamente non ha trovato fondamento. Poi tutti in marcia attraversando il centro di Roma. «Diritto allo studio», «no alla scuola privata», «abbiamo ricevuto troppe bastonate, ora è il tempo delle carote» i sogno degli studenti che scorrono sul web. «Contro i continui tagli alla scuola, contro il ddl Aprea, contro chi privatizzando i saperi ci priva di un futuro, noi manifestiamo» le parole di Stefano.
La foto più condivisa, non c’è dubbio, viene postata alle 11 sul canale Rete della Conoscenza: ragazze in via Cavour mostrano uno striscione dove la sigla Atac viene rivisitata in Arrivo tardi a casa con il commento «studenti sanzionano la fermata dell’Atac contro l’aumento del biglietto della metro». La deviazione del corteo verso il ministero, non viene annunciata sul web, forse per timore di essere fermati. Solo dopo Claudio annuncia: «Roma bloccata, tagliata a metà da un corteo da Piazza della Repubblica al Ministero». Sulla pagina Facebook «12 ottobre mobilitazione studentesca Roma» c’è chi si lamenta per il corteo: «Potevamo chiamarla passeggiata, no manifestazione» scrive Lau, mentre Marco risponde: «Non sono d’accordo, oggi abbiamo fatto molti passi avanti».
La rete continua a gridare fino a tarda notte la protesta degli studenti che intanto annunciano: «È solo l’inizio: lanciata la 3 giorni di mobilitazione 24-25-26 ottobre».

Il Messaggero 13.10.12

******

Carote e slogan. Studenti in piazza in novanta città. Lanci di ortaggi e blitz al Pirellone

C’è chi la mangia, chi la mostra con aria minacciosa, chi la agita scandendo slogan dietro gli striscioni. Poi c’è chi la tira contro i poliziotti, chi corre a riprenderla per lanciarla ancora più forte contro il portone del ministero dell’Istruzione. Se qualche settimana fa gli operai dell’Alcoa (anche ieri in piazza a Cagliari) usarono le mele «caricate» con i petardi per rendere più rumorosa la loro protesta, la carota è il nuovo simbolo di quella degli studenti. A centinaia le hanno tirate fuori dai borsoni ieri in viale Trastevere per bersagliare il Miur. E lo stesso hanno fatto i loro compagni a Milano e a Torino.
Una risposta con gli ortaggi al ministro dell’Istruzione Francesco Profumo che (come fecero Winston Churchill e Benito Mussolini) aveva detto: «Il Paese va allenato. Dobbiamo usare un po’ di bastone e un po’ di carota. Qualche volta un po’ di più il bastone e un po’ meno la carota. In altri momenti più carote, ma mai troppe». La battuta non è piaciuta né agli studenti né ai sindacati che sono scesi nelle strade di 90 città (da Trento a Trapani, 50 mila partecipanti per gli organizzatori) per protestare contro i tagli alla scuola e per il diritto allo studio.
Nonostante i timori di infiltrati violenti, gli incidenti dell’inizio del mese non si sono ripetuti: nella Capitale il corteo degli studenti è stato preceduto da un blitz alla sede romana del Parlamento europeo e durante la manifestazione i ragazzi del Fronte della gioventù comunista hanno strappato alcune bandiere dell’Ue. La protesta è proseguita fra gli applausi degli abitanti dell’Esquilino, il blocco simbolico della fermata «Cavour» della metropolitana, la contestazione del sindaco Gianni Alemanno sul prezzo del biglietto del trasporto pubblico (con lo striscione «Atac: arrivo tardi a casa») e la deviazione a piazza Venezia, presidiata dai blindati, verso il Miur con il massiccio lancio di carote al grido «Profumo, facce l’insalata!».
A Milano assediato il Pirellone: i ragazzi (alcuni a volto coperto, altri hanno cercato di arrampicarsi sulla cancellata) hanno scandito slogan chiedendo le dimissioni del governatore lombardo Roberto Formigoni e dell’assessore all’Istruzione Valentina Aprea, mentre in piazza Cordusio i manifestanti hanno tirato uova e fumogeni contro la filiale Unicredit coperta di manifesti. «Fuori la mafia dalla Regione», c’era scritto. Momenti di tensione solo a Palazzo Lombardia, sede della giunta regionale: un gruppetto di ragazzi ha strappato la bandiera con la rosa camuna e l’ha portata in corteo. A Torino, oltre al lancio di carote contro la sede territoriale del Miur, è stato «sigillato» il palazzo della Provincia e occupato il ponte della Gran Madre, dove si è tenuta un’assemblea, mentre a Genova i manifestanti (fra loro anche i No Tav) hanno raggiunto il Salone nautico e lasciato di fronte alla Prefettura un cumulo di pietre con il cartello «Avete ridotto la scuola in macerie».
Carri armati di cartone e palloni colorati contro i finanziamenti alle spese militari invece a Bologna. Transennata la fontana del Nettuno e ai passanti distribuite cassette di mele «perché la scuola è alla frutta». Proteste anche a Firenze dove gli studenti (che hanno fatto una catena umana di 2 mila persone) vogliono impedire al ministro Profumo di prendere la parola martedì prossimo all’inaugurazione dell’anno di studi dell’Accademia delle Belle Arti. A Napoli, infine, sotto il diluvio occupato il Maschio Angioino.
Ma la sensazione è che l’«autunno caldo» sia appena cominciato: la «Rete della Conoscenza» ha annunciato il blocco di scuole e università per il 24,25 e 26 ottobre prossimi. Alla vigilia del «No Monti Day» del 27, per il quale si temono scontri come quelli dell’anno scorso a Roma in piazza

Il Corriere della Sera 13.10.12

*****

Studenti armati di carote, centomila in piazza contro i tagli alla scuola
Cortei in novanta città:“La nostra risposta a lbastone di Profumo”, di CORRADO ZUNINO

La rivolta della carota nasce su un falso storico, ma trova nelle piazze in sciopero e in corteo un’efficacia teatrale degna della generazione precaria. Il ministro dell’Istruzione Francesco Profumo quando usò la metafora, lunedì scorso a Genova, e sottolineò la necessità della carota e del bastone in questo paese da allenare, si riferiva alla lenta burocrazia dei rettori italiani. Ieri, però, gli studenti hanno fatto propria l’immagine e sguainato carote per le strade italiane prestate alla loro manifestazione e a quella dei precari della Cgil. «Ministro, facce l’insalata», è stato il contrappasso.
Centomila presenze denunciate in ottantasette piazze italiane è un calcolo credibile. I volti dei nuovi ribelli, in una giornata accesa dal dibattito sulle otto ore di lavoro in più per i “prof”, mostravano come una rappresentativa minoranza della gioventù scolastica d’Italia fosse pronta a portare avanti un movimento in vita da cinque stagioni. Pioggia su Napoli con due cortei separati di studenti (medi e universitari) e l’occupazione del Maschio Angioino. Magliette sudate a Roma, dove dai camioncini in affitto pompa il rap italiano dei ghetti, l’hardcore rivoluzionario. Nella capitale e a Torino e a Milano si alzano al cielo le carote e servono a lanciare i cori contro Profumo: «Niente arrosto tutto fumo ». In tutti gli altri cortei le carote daranno vitamine a una giornata senza violenze.
Gli studenti di Genova assediano il Salone nautico mandando in tilt il traffico di mezza città: «Organizzate la rivolta finché siete vivi», incita uno striscione. A Bari li riceve Nichi Vendola. Colpisce la capacità di un movimento che fin qui non ha fermato nessuna legge di penetrare nel paese, persino nella sua provincia. A Carbonia i ragazzi si mischiano con i lavoratori di Portovesme. Ad Ancona, Campobasso, Salerno, Cosenza, in undici città siciliane, il traffico e le lezioni si fermano. La protesta arriva a Brindisi, dove a maggio una studentessa venne uccisa dalla bomba innescata da un uomo rancoroso. E a Taranto, dove tutto, anche il futuro degli studenti, ruota intorno a una fabbrica di acciaio e di veleni.
Se i docenti supplenti nelle retrovie vogliono fermare la macina di Profumo, chi sta davanti srotola striscioni contro la legge Aprea «cancella-studenti » che, per critica di piazza, ora viene addossata anche al Pd. Chi sta davanti — quasi sempre minorenni, a Roma frequentano le scuole della periferia del Casilino, licei ma anche istituti tecnici — blocca il corteo alle fermate d’ordinanza: l’agenzia del Bancoposta che dovrà erogare gli odiati prestiti d’onore, le sedi di Unicredit. Si balla e si parla di Europa, di capitalismo da abbattere. A Milano, ancora, i ragazzini che si affacciano alla politica chiedono le dimissioni della giunta Formigoni e portano via dal pennone la bandiera della Regione Lombardia: «Siamo stanchi di una casta malata, corrotta e legata alle mafie. Indegni ». Tutti, Uds, autorganizzati, cani sciolti, pretendono una scuola che nella stagione della spending review sembra una bestemmia: «Di qualità e di massa». Annunciano un «Manifesto per la liberazione dei saperi » e una tre giorni di occupazioni scolastiche e universitarie — sarà il 24, 25 e 26 ottobre — per mettere in discussione «il metodo preistorico delle lezioni » e parlare di crisi. «Vogliamo ribaltare il paradigma di una società individualista e ingiusta».

La Repubblica 13.10.12

"La BCE e i veri dati sull'occupazione", di Fulvio Fammoni

La BCE sforna dati a ripetizione sulla occupazione in Europa particolarmente utili per fare chiarezza sul vero stato del lavoro in Italia, anche se purtroppo fermi al 2010 e con proposte di soluzioni sbagliate. Per anni si è demagogicamente affermato che noi stavano meglio della media europea. Per suffragare questa affermazione si usava il dato formale della percentuale di disoccupati che era più basso, ma si taceva che il tasso di occupazione lo era molto di più. Come si poteva contemporaneamente avere una disoccupazione quasi nella media e una occupazione molto più bassa? Come poteva la Spagna avere più disoccupati di noi e una percentuale di occupati più alta? Non considerando l’enorme area degli inattivi (siamo i primi Europa) e al suo interno chi è assimilabile alla condizione di disoccupato, come gli scoraggiati. Adesso la Bce, non estremisti o disfattisti come amava definirci il precedente ministro del Lavoro, mette la parola fine a questa discussione. «L’Italia è un chiaro esempio di come le cifre ufficiali sulla disoccupazione possano sottostimare la sottoutilizzazione della forza lavoro» è scritto nel rapporto della Bce. Guardando ai dati del 2010, quando il tasso di disoccupazione era intorno al 8.4%, «l’inclusione dei lavoratori scoraggiati renderebbe il tasso di disoccupazione italiano il sesto più elevato dell’ eurozona al 12.5%, 4.1 punti in più del tasso ufficiale di disoccupazione». Molti giornali e tg hanno titolato su una disoccupazione al 12.5%, ma si è trattato di una informazione parziale perché riferita al 2010. La metodologia usata dalla Bce se rapportata ai dati del 2012 (10.7% di disoccupati e scoraggiati in incremento) porta la disoccupazione reale attorno al 15%, un vero e proprio smottamento occupazionale. Lo ha segnalato per tempo l’Ires Cgil evidenziando non solo che il dato ufficiale della disoccupazione è ora più alto in Italia che nella Ue a 27, ma che la vera area della sofferenza occupazionale è arrivata all’enorme cifra di 4 milioni e 400mila persone. Si fa così giustizia delle non verità del precedente governo, ma il problema resta in tutta la sua drammaticità e purtroppo con il perdurare della recessione si aggraverà. Chi oggi propone l’aumento dell’orario di lavoro non solo fa propaganda, ma non si pone nemmeno il problema di riassorbire questo bacino come se risolvere questo dramma, oltre che decisivo per le persone, fosse ininfluente per la cosiddetta produttività del sistema. Chi invece non dice niente è il governo, che invece dichiara quasi su tutto. Nel 2012 la crescita della nostra disoccupazione è molto più accentuata rispetto all’Europa. Fra gennaio e luglio l’aumento dei disoccupati in Italia (+ 292.000) rappresenta un terzo dell’intero incremento complessivo europeo (+ 881.000). L’andamento della crisi e le scelte dell’esecutivo producono dunque effetti insopportabilmente negativi sull’occupazione. A questi milioni di persone non si può dire che la crisi si sta allontanando, soprattutto da parte di chi contemporaneamente stima, o meglio sottostima, in calo il Pil anche nel 2013. È evidente che il lavoro è il principale fattore non affrontato anche da questo governo per uscire dalla crisi

L’Unità 13.10.12

"La BCE e i veri dati sull'occupazione", di Fulvio Fammoni

La BCE sforna dati a ripetizione sulla occupazione in Europa particolarmente utili per fare chiarezza sul vero stato del lavoro in Italia, anche se purtroppo fermi al 2010 e con proposte di soluzioni sbagliate. Per anni si è demagogicamente affermato che noi stavano meglio della media europea. Per suffragare questa affermazione si usava il dato formale della percentuale di disoccupati che era più basso, ma si taceva che il tasso di occupazione lo era molto di più. Come si poteva contemporaneamente avere una disoccupazione quasi nella media e una occupazione molto più bassa? Come poteva la Spagna avere più disoccupati di noi e una percentuale di occupati più alta? Non considerando l’enorme area degli inattivi (siamo i primi Europa) e al suo interno chi è assimilabile alla condizione di disoccupato, come gli scoraggiati. Adesso la Bce, non estremisti o disfattisti come amava definirci il precedente ministro del Lavoro, mette la parola fine a questa discussione. «L’Italia è un chiaro esempio di come le cifre ufficiali sulla disoccupazione possano sottostimare la sottoutilizzazione della forza lavoro» è scritto nel rapporto della Bce. Guardando ai dati del 2010, quando il tasso di disoccupazione era intorno al 8.4%, «l’inclusione dei lavoratori scoraggiati renderebbe il tasso di disoccupazione italiano il sesto più elevato dell’ eurozona al 12.5%, 4.1 punti in più del tasso ufficiale di disoccupazione». Molti giornali e tg hanno titolato su una disoccupazione al 12.5%, ma si è trattato di una informazione parziale perché riferita al 2010. La metodologia usata dalla Bce se rapportata ai dati del 2012 (10.7% di disoccupati e scoraggiati in incremento) porta la disoccupazione reale attorno al 15%, un vero e proprio smottamento occupazionale. Lo ha segnalato per tempo l’Ires Cgil evidenziando non solo che il dato ufficiale della disoccupazione è ora più alto in Italia che nella Ue a 27, ma che la vera area della sofferenza occupazionale è arrivata all’enorme cifra di 4 milioni e 400mila persone. Si fa così giustizia delle non verità del precedente governo, ma il problema resta in tutta la sua drammaticità e purtroppo con il perdurare della recessione si aggraverà. Chi oggi propone l’aumento dell’orario di lavoro non solo fa propaganda, ma non si pone nemmeno il problema di riassorbire questo bacino come se risolvere questo dramma, oltre che decisivo per le persone, fosse ininfluente per la cosiddetta produttività del sistema. Chi invece non dice niente è il governo, che invece dichiara quasi su tutto. Nel 2012 la crescita della nostra disoccupazione è molto più accentuata rispetto all’Europa. Fra gennaio e luglio l’aumento dei disoccupati in Italia (+ 292.000) rappresenta un terzo dell’intero incremento complessivo europeo (+ 881.000). L’andamento della crisi e le scelte dell’esecutivo producono dunque effetti insopportabilmente negativi sull’occupazione. A questi milioni di persone non si può dire che la crisi si sta allontanando, soprattutto da parte di chi contemporaneamente stima, o meglio sottostima, in calo il Pil anche nel 2013. È evidente che il lavoro è il principale fattore non affrontato anche da questo governo per uscire dalla crisi
L’Unità 13.10.12

Franceschini: “Con le preferenze campagne costosissime lo scambio osceno in Lombardia insegna”, di Goffredo De Marchis

Dario Franceschini avverte gli alleati della “strana” maggioranza: «Sono sicuro che non si possa votare la riforma elettorale contro il primo partito del Paese. Lo capiscono anche i bambini». E se riconosce all’Udc la legittimità di lavorare per il Monti bis, «trovo assurdo immaginare di fare una legge che abbia come conseguenza certa l’ingovernabilità in modo che nessuno vinca solo per tenersi Monti, è un atto contro il Paese», dice il capogruppo democratico alla Camera.
Però sulle preferenze il Pd ha qualche imbarazzo. Il fronte dei sostenitori è largo, da Enrico Letta a Massimo D’Alema.
«Non mi pare che ci sia questo problema. C’è invece una posizione molto chiara da parte di tutto il partito sia sul doppio turno, la nostra proposta originaria, sia sulla mediazione depositata al senato. Possono esistere sfumature diverse su quanto sia pericoloso il ritorno alle preferenze.
Ma la posizione di tutto il Pd è chiarissima: tutti siamo per i collegi uninominali».
Il problema delle preferenze è l’esempio del caso Fiorito?
«La corruzione può avere tanti canali. Sarebbe sciocco dire che c’è un automatismo. La mia considerazione è un’altra: vanno superate le liste bloccate del Porcellum che sottraggono all’elettore il diritto di scegliersi il rappresentante, ma si può fare in un modo moderno che sono i collegi uninominali. Un deputato e un senatore eletto da un piccolo pezzo del territorio. Così c’è un controllo diretto».
E sbarrare il nome sulla scheda non garantisce lo stesso risultato?
«Le preferenze comportano dei costi enormi della campagne elettorali. Basta vedere l’osceno caso della Lombardia e alle regionali le circoscrizioni sono grandi come una provincia, al massimo. Nella proposta sostenuta da Pdl, Lega e Udc la scelta verrebbe spalmata su enormi circoscrizioni regionali. Abbiamo idea di cosa costerebbe una campagna elettorale in regioni grandi come la Sicilia e Veneto? Ci sarà un motivo per cui in tutti i grandi paesi europei le preferenze per eleggere il Parlamento non esistono».
Non è che il Pd, sotto sotto, punta a tenersi il Porcellum?
«Io vorrei che per una volta i partiti non facessero un calcolo di convenienza. Se lo facesse il Pd questo calcolo, firmerebbe subito per le preferenze. Siamo una forza politica radicata e con una buona qualità dei candidati, abbiamo circoli sezioni, associazioni: avremmo tutto da guadagnare da una legge con le preferenze. Ma vogliamo fare un ragionamento sistemico: evitare la lievitazione dei costi della politica e instaurare un sistema moderno e trasparente, quello dei collegi».
Se Alfano, Casini e Maroni vanno avanti il Pd che fa? Si spacca, resiste o cede?
«Siamo di fronte a un testo base che deve essere ancora votato in commissione. Ci auguriamo un ravvedimento. Comunque non andranno avanti a maggioranza ».
Lo hanno fatto sulla riforma costituzionale.
«Appunto. Non sono andati da nessuna parte. Ma hanno fatto saltare la riduzione del numero dei parlamentari. Sanno che non sono concessi i bis».
A proposito di bis, considera l’appello di Napolitano un sostegno all’ipotesi del ritorno di Monti a Palazzo Chigi?
«Quello del presidente è un richiamo giusto per evitare che si ripeta il meccanismo delle coalizioni eterogenee che vincono e non riescono a governare. Cosa che è capitata sia al centrosinistra che al centrodestra. Ma la risposta, al di là della legge elettorale, dev’essere politica. Con il Porcellum in fondo il Pd ha scelto una prima volta l’Unione e poi il suo contrario, ossia la vocazione maggioritaria. Ecco perché oggi, con qualsiasi riforma, i democratici dicono che lavoreranno per una coalizione il più possibile omogenea e con delle regole».
È giusto il parallelo con la Grecia?
«Il tema è quello. Sia in Francia che in Grecia la frammentazione è stata molto visibile perché i tempi sono difficili. Ma in Francia hanno un governo stabile grazie al doppio turno. In Grecia hanno dovuto rivotare. Il premio di maggioranza quindi dev’essere il più possibile alto in modo che la sera delle elezioni gli italiani sappiano chi le ha vinte».

La Repubblica 13.10.12

******

“L’imbroglio delle preferenze”, di GIANLUIGI PELLEGRINO

BISOGNA stare attenti a non fraintendere le parole del Capo dello Stato. Napolitano si felicita perché la riforma elettorale è giunta finalmente (se non a tempo scaduto) nella sede propria delle aule parlamentari.
Ma l’apprezzamento del Presidente finisce qui. Nel merito il suo messaggio, pur nel rispetto dei ruoli, è nella sua oggettività assai ben critico se non di autentica bocciatura del testo base approvato in commissione. Che infatti è indifendibile, per ragioni evidenti che certo il Presidente non poteva esplicitare. Dietro la sacrosanta esigenza del superamento del porcellum, si rischia in realtà un approdo quasi peggiore, perché aggravato dal sapore della beffa. Restano infatti per oltre il trenta per cento i listini bloccati e quindi il boccone più indigesto della legge porcata. E per gli altri due terzi si propone un appiccicoso quanto surreale salto nel passato, con ritorno all’inguardabile sistema delle preferenze.
Non è nemmeno necessario, come pure sarebbe sufficiente, richiamare il recente rosario di scandali per ricordare che sono tutti, non a caso, legati alle preferenze. Non solo le vicende dei Fiorito “batman”, degli Zambetti “pisciaturu”, dei Piccolo “superman”, e dei Maruccio di ogni risma; ma anche il decreto di scioglimento del Comune di Reggio Calabria per infiltrazioni mafiose è interamente motivato sugli scambi connessi a quel sistema di raccolta dei voti, purtroppo in vigore nelle elezioni comunali e regionali. Il che già dovrebbe bastare e rendere impensabile la sua estensione alle politiche. Ma la ragione di fondo che deve imporre un no senza condizioni a questa opzione, è persino più rilevante, perché riguarda al fondo la cultura politica e delle istituzioni necessaria per provare a risanare la “democrazia ma-lata”, fotografata con impietoso allarme ieri da Ezio Mauro.
Ed infatti proprio le elezioni politiche devono essere un voto di opinione e non un voto di clientela. I partiti postideologici se vogliono dare un senso alla loro missione devono recuperare la strada della credibilità che invece perdono per sempre se scelgono sistemi che fomentano al loro interno guerre intestine, familistiche se non criminali. Comitati d’affari dei quali infine i partiti medesimi restano vittime e subalterni. Svuotati dall’interno. Nella loro stessa anima.
Optare per le preferenze vuol dire ostentare, in un masochismo accecato, una clamorosa indifferenza a questa esigenza vitale, quando l’alternativa valida la conoscono tutti. Sono i collegi l’unico strumento idoneo a saldare voto di opinione, nuova centralità dei progetti politici, valorizzazione dei candidati, virtuoso collegamento con il territorio. Si deve poi ovviamente azzerare qualsiasi residuo di listino bloccato, cimelio non richiesto del porcellum.
Sul fronte della governabilità infine, Napolitano ha parlato chiaro. Se è vero che si devono evitare coalizioni forzate è altrettanto vero che il premio deve servire a sostenere un governo di legislatura, risultando invece di dubbia costituzionalità se serve solo come cadeau a questo o quel partito. Con il rischio di produrre il medesimo cortocircuito che oggi il porcellum presenta al Senato dove il premio opera persino in danno di chi deve formare la maggioranza di governo.
Vale per la riforma elettorale quel che vale per l’anticorruzione. Non serve una legge purchessia, ma la legge che tutti sanno sarebbe utile per il paese e che però si stenta ad approvare per tornaconti personali o di partito. Lì per avere salvacondotti nei processi, qui per la trasparente tentazione di far finta di ridare la parola agli elettori, ma scegliendo sistemi buoni solo a garantire se stessi e a reclutare i peggiori. Democratici, dipietristi e vendoliani hanno votato contro. Ma non basta. Anche al porcellum dissero di opporsi per poi abusarne abbastanza. Arrivati alla soglia della riforma implorata dai cittadini, il più odioso dei tradimenti deve essere contrastato con forza visibile e senza infingimenti.
La cronaca ogni giorno ci dice che si è giunti al fondo del pozzo. Dovrebbe quanto meno esserci l’istinto a provare a spingere verso l’alto per cercare la risalita. Continuare a scavare, non è sopravvivere, ma solo un cieco cupio dissolvi.

La Repubblica 13.10.12

"Ritornare al sogno", di Barbara Spinelli

Fu una di quelle opere – l’unità fra europei edificata nel dopoguerra – che gli uomini compiono quando sull’orlo dei baratri decidono di conoscere se stessi: quando vedono i disastri di cui sono stati capaci, esplorano le ragioni d’una fallibilità troppo incallita per esser feconda.
E tuttavia non si fanno sopraffare dall’indolenza smagata che secondo Paul Valéry fu la malattia dello spirito europeo all’indomani del ’14-18: la «noia di ricominciare il passato», l’inattitudine a riprendersi e ri-apprendere. Il Nobel della pace è stato dato ieri a quel ricominciamento della storia, e alla svolta che fu la riconciliazione tra Francia e Germania, che in soli 70 anni avevano combattuto tre guerre. Dalla messa in comune di risorse vitali per i due paesi – il carbone e l’acciaio, fonti di ricchezza e morte – nacque l’Unione che abbiamo oggi. Mai era apparso così chiaro, nell’attribuzione dei Nobel, il nesso fra pace, democrazia, diritto. Come se l’invenzione d’Europa fosse la conferma vivente che firmare le tregue non è fare la pace.
Che per tenere insieme su scala continentale i tre obiettivi – pace, democrazia, diritto – occorre andare oltre i trattati fra Stati, oltre la non belligeranza fra sovrani che non riconoscono potere alcuno, né legge, sopra di sé.
Quando propose e creò la Comunità del carbone e dell’acciaio, Jean Monnet spiegò il ragionamento che lo aveva ispirato: «Quando si guarda al passato e si prende coscienza dell’enorme disastro che gli europei hanno provocato a se stessi negli ultimi due secoli, si rimane letteralmente annichiliti. Il motivo è molto semplice: ciascuno ha cercato di realizzare il suo destino, o quello che credeva essere il suo destino, applicando le proprie regole». Fu grazie a questa consapevolezza che l’unità degli europei divenne un modello, e per gran parte del mondo ancora lo è: dalle stragi etniche o razziali, dagli scontri fra culture o religioni, si esce solo se gli Stati nazione smettono l’illusione di bastare a se stessi – la regola della sovranità assoluta – e creano comuni istituzioni politiche che realizzino il destino di più paesi associati, non di uno soltanto. In Asia, in Medio Oriente, il metodo comunitario resta la via aurea per superare i nazionalismi: molto più della solitaria potenza americana.
Fu una sorta di conversione, quella sperimentata dagli Europei. Al posto dello sguardo nazionale, lo sguardo cosmopolita; al posto dei trattati fra Stati, un’unione sin da principio parzialmente federale, cui le vecchie sovranità assolute venivano delegate. L’Europa è un sogno antico, ma è nel ’900 che diventa progetto pratico, necessità, dando vita a un’istituzione statuale. Un’istituzione che affianca Stati che si riconoscono non solo fallibili ma pericolosi per se stessi, se consegnati alle dismisure nazionaliste. Solo dopo la propria guerra dei trent’anni (quella che dal 1914 va al 1945) il continente scopre che non basta deporre le armi ma che urge capire perché insorgono i conflitti di sangue. «Insorgono a causa della facilità con cui gli Stati rimettono in causa il funzionamento delle loro istituzioni», disse ancora Monnet. Bene saperlo fin d’ora: le guerre divorano le democrazie, ma è il degradare delle democrazie e delle loro istituzioni che getta popoli senza più nocchieri nelle guerre.
Si trattava dunque di cessare i conflitti bellici e al tempo stesso di ridar forza alle istituzioni, di renderle meno discontinue. L’unità nasce dicendo no ai nazionalismi ma anche a quel che li fa impazzire: la povertà, la democrazia corrosa, il rarefarsi dello Stato di diritto prima ancora che dei diritti umani.
Conferito in questi giorni, il premio è singolare. Quasi sembra che faccia dell’ironia, anche se difficilmente immaginiamo una giuria ironica. È come se non suggellasse un progresso, ma indicasse come rischiamo di perderlo. Mostra quel che l’Europa ha voluto essere, e non è ancora o non è più. Gli scontri sull’euro, la Grecia trasformata in capro espiatorio, il peso abnorme di un solo Stato (Germania): non è l’unione cui si è aspirato per decenni, ma una costruzione che si decostruisce e arretra invece di completarsi. È come se la giuria ci dicesse, fra le righe: «Voi europei avete inventato qualcosa di grande, ma non siete all’altezza di quel che oggi premiamo. Siete una terra promessa, ma voi abitate ancora il deserto come gli ebrei fuggiti dall’Egitto». Se l’Europa si compiacerà del premio vorrà dire che dell’evento avrà visto solo la superficie celebrativa, non il caos che ribolle sotto la superficie.
Un premio così non si riceve soltanto. Lo si medita, lo si interroga, come nella Grecia antica s’interpellava l’oracolo di Delfi. Anche perché il responso non muta, nei millenni: conosci te stesso, ripeterà. Conosci il tradimento delle promesse iniziali e il ridicolo delle tue apoteosi. Prova a capire come mai l’Unione non sveglia più speranze ma diffidenza, paura, a volte ribrezzo.
Rimasta a metà cammino, l’Europa non è ancora l’istituzione sovranazionale che preserva la democrazia e lo Stato sociale. Viene identificata con uno dei suoi
mezzi – l’euro – come se la moneta e le misure fin qui congegnate fossero la sua
finalità, il suo orizzonte di civiltà. La fissazione sui piani di salvataggio finanziario e il rifiuto di ogni via alternativa hanno fatto perdere di vista la democrazia, e la solidarietà, e l’idea di un’Europa che, unita, diventa potenza nel mondo.
L’ideale sarebbe se l’Europa non andasse a prendere il premio, e comunicasse al Comitato Nobel che i propri cittadini (non gli Stati, ben poco meritevoli) verranno a ritirarlo quando l’opera sarà davvero voluta, e di conseguenza compiuta. Quando avremo finalmente una Costituzione che – come nella Federazione americana – cominci con le parole «Noi, cittadini….». Quando ci si rimetterà all’opera, e ci si spoglierà della noia di ricominciare la storia. I sotterfugi tecnici non durano: durano solo le istituzioni. La svolta è politica, mentale, e proprio come nel 1945, è la massima di sant’Agostino che toccherà adottare:
Factus eram ipse mihi magna quaestio – Io stesso ero divenuto per me un grosso problema, e un grosso enigma.

La Repubblica 13.10.12