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"L'Orario di lavoro dei docenti è materia contrattuale non si potrebbe cambiare per legge", di Lucio Ficara

Per la scuola secondaria di primo e secondo grado, fino a che è in vigore questo contratto, si tratta di 18 ore settimanali di insegnamento distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Per cambiare questa regola, bisognerebbe rinnovare il contratto. L’orario di lavoro del personale docente della scuola è regolato dal vigente contratto CCNL 2006/2009 art. 28 comma 5. In questo comma è scritto: “In coerenza con il calendario scolastico delle lezioni definito a livello regionale, l’attività di insegnamento si svolge in 25 ore settimanali nella scuola dell’infanzia, in 22 ore settimanali nella scuola elementare e in 18 ore settimanali nelle scuole e istituti d’istruzione secondaria ed artistica, distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Alle 22 ore settimanali di insegnamento stabilite per gli insegnanti elementari, vanno aggiunte 2 ore da dedicare, anche in modo flessibile e su base plurisettimanale, alla programmazione didattica da attuarsi in incontri collegiali dei docenti interessati, in tempi non coincidenti con l’orario delle lezioni.
Nell’ambito delle 22 ore d’insegnamento, la quota oraria eventualmente eccedente l’attività frontale e di assistenza alla mensa viene destinata, previa programmazione, ad attività di arricchimento dell’offerta formativa e di recupero individualizzato o per gruppi ristretti di alunni con ritardo nei processi di apprendimento, anche con riferimento ad alunni stranieri, in particolare provenienti da Paesi extracomunitari.
Nel caso in cui il collegio dei docenti non abbia effettuato tale programmazione o non abbia impegnato totalmente la quota oraria eccedente l’attività frontale di assistenza alla mensa, tali ore saranno destinate per supplenze in sostituzione di docenti assenti fino ad un massimo di cinque giorni nell’ambito del plesso di servizio”. Per cui è il comma 5 dell’art.. 28 del contratto che regola il numero delle ore settimanale di lezione che deve svolgere un docente.
Per la scuola secondaria di primo e secondo grado, fino a che è in vigore questo contratto, si tratta di 18 ore settimanali di insegnamento distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Per cambiare questa regola, bisognerebbe rinnovare il contratto, in quanto a regolare l’orario di lavoro del personale scolastico è una norma contrattuale e non una legge. Infatti nel testo unico è scritto : l’orario di servizio è stabilito in sede di contrattazione collettiva ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni.
Dunque se fossero vere le indiscrezioni dell’aumento di 6 ore settimanali per i docenti delle scuole secondarie, attuate dalla legge di stabilità approvata ieri dal Consiglio dei Ministri, si tratterebbe ancora una volta di ostracismo contrattuale e di un trattato di guerra contro i diritti pattuiti con i lavoratori. Si tratta nuovamente da parte del Miur di calpestare a colpi di legge il patto sottoscritto con i sindacati. Bisogna ricordare che solo qualche settimana fa il Miur ha firmato una dichiarazione congiunta con tutti i sindacati che rende pienamente valido in tutte le sue parti il contratto della scuola scaduto nel 2009.
Vorremmo sapere dalla viva voce del Ministro se quella dichiarazione congiunta ha ancora un valore e se il comma 5 dell’art. 28 del contratto, rimarrà valido fino al rinnovo dello stesso.

da La tecnica della Scuola 11.10.12

"L'Orario di lavoro dei docenti è materia contrattuale non si potrebbe cambiare per legge", di Lucio Ficara

Per la scuola secondaria di primo e secondo grado, fino a che è in vigore questo contratto, si tratta di 18 ore settimanali di insegnamento distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Per cambiare questa regola, bisognerebbe rinnovare il contratto. L’orario di lavoro del personale docente della scuola è regolato dal vigente contratto CCNL 2006/2009 art. 28 comma 5. In questo comma è scritto: “In coerenza con il calendario scolastico delle lezioni definito a livello regionale, l’attività di insegnamento si svolge in 25 ore settimanali nella scuola dell’infanzia, in 22 ore settimanali nella scuola elementare e in 18 ore settimanali nelle scuole e istituti d’istruzione secondaria ed artistica, distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Alle 22 ore settimanali di insegnamento stabilite per gli insegnanti elementari, vanno aggiunte 2 ore da dedicare, anche in modo flessibile e su base plurisettimanale, alla programmazione didattica da attuarsi in incontri collegiali dei docenti interessati, in tempi non coincidenti con l’orario delle lezioni.
Nell’ambito delle 22 ore d’insegnamento, la quota oraria eventualmente eccedente l’attività frontale e di assistenza alla mensa viene destinata, previa programmazione, ad attività di arricchimento dell’offerta formativa e di recupero individualizzato o per gruppi ristretti di alunni con ritardo nei processi di apprendimento, anche con riferimento ad alunni stranieri, in particolare provenienti da Paesi extracomunitari.
Nel caso in cui il collegio dei docenti non abbia effettuato tale programmazione o non abbia impegnato totalmente la quota oraria eccedente l’attività frontale di assistenza alla mensa, tali ore saranno destinate per supplenze in sostituzione di docenti assenti fino ad un massimo di cinque giorni nell’ambito del plesso di servizio”. Per cui è il comma 5 dell’art.. 28 del contratto che regola il numero delle ore settimanale di lezione che deve svolgere un docente.
Per la scuola secondaria di primo e secondo grado, fino a che è in vigore questo contratto, si tratta di 18 ore settimanali di insegnamento distribuite in non meno di cinque giornate settimanali. Per cambiare questa regola, bisognerebbe rinnovare il contratto, in quanto a regolare l’orario di lavoro del personale scolastico è una norma contrattuale e non una legge. Infatti nel testo unico è scritto : l’orario di servizio è stabilito in sede di contrattazione collettiva ai sensi del decreto legislativo 3 febbraio 1993, n. 29 e successive modificazioni.
Dunque se fossero vere le indiscrezioni dell’aumento di 6 ore settimanali per i docenti delle scuole secondarie, attuate dalla legge di stabilità approvata ieri dal Consiglio dei Ministri, si tratterebbe ancora una volta di ostracismo contrattuale e di un trattato di guerra contro i diritti pattuiti con i lavoratori. Si tratta nuovamente da parte del Miur di calpestare a colpi di legge il patto sottoscritto con i sindacati. Bisogna ricordare che solo qualche settimana fa il Miur ha firmato una dichiarazione congiunta con tutti i sindacati che rende pienamente valido in tutte le sue parti il contratto della scuola scaduto nel 2009.
Vorremmo sapere dalla viva voce del Ministro se quella dichiarazione congiunta ha ancora un valore e se il comma 5 dell’art. 28 del contratto, rimarrà valido fino al rinnovo dello stesso.
da La tecnica della Scuola 11.10.12

Scuola: Bindi a Profumo, non voteremo altri sacrifici

”Vedremo se le anticipazioni, davvero preoccupanti, che riguardano il mondo della scuola sono solo gossip, come afferma il ministro Profumo. Ma fin d’ora il ministro sappia che per quanto ci riguarda la scuola ha gia’ dato molto e non e’ il caso di chiedere ulteriori sacrifici. Soprattutto quando si presentano come uno stravolgimento del contratto, nello stesso anno in cui non sono stati pagati gli scatti e molti di loro si sono visti sfumare la pensione”. Lo afferma in una nota la presidente dell’Assemblea del Pd e vicepresidente della Camera, Rosy Bindi. ”Sappia – prosegue Bindi rivolgendosi al ministro – che non saremo disponibili a votare tagli mascherati e misure che disattendono i legittimi diritti degli insegnanti e le aspettative di migliaia di giovani che da anni aspirano inutilmente all’insegnamento”.

da Agenzia Ansa

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“Docenti al lavoro per 24 ore a settimana”, di Eugenio Bruno
Arriva la mini-stretta sulla scuola – Pd e sindacati in allarme per l’impatto sui precari: basta tagli

Nel giro di vite sul pubblico impiego spunta una “mini-stretta” sulla scuola. Che, vista dalla parte dei docenti, tanto “mini” non è. Se è vero che dal prossimo anno scolastico i professori degli istituti di ogni ordine e grado si troveranno a lavorare 24 ore a settimana. In cambio di due settimane di ferie in più.
Una norma inserita in extremis nel disegno di legge di stabilità varato martedì notte punta a uniformare il tempo passato nelle classi delle secondarie di primo e secondo grado (oggi 18 ore) con quello trascorso in cattedra nelle elementari (22 ore di lezione + 2 di programmazione dei moduli). Per i docenti di medie e superiori, dunque, l’innalzamento del tempo dedicato al lavoro sarà di 6 ore a settimana. E sarà compensato prolungando di 15 giorni le vacanze estive.
Dalla disposizione che al Miur stanno ancora mettendo a punto dovrebbero derivare risparmi per circa 180 milioni di euro. Una parte dei quali dovrebbe confluire nel fondo di funzionamento della scuola e quindi ritornare agli istituti. Di fatto, l’aumento di orario per i docenti in questione servirà ad assicurare la copertura quasi integrale del sacrificio imposto all’Istruzione dal decreto 95 sulla spending. E pari a 182,9 milioni di euro nel 2013, 172,7 nel 2014 e 225,5 nel 2015.
Oltre all’impatto sui docenti che già lavorano resta da capire l’effetto che la stretta avrà sui precari. Le sei ore in più dovrebbero essere impiegate nello svolgimento delle supplenze brevi all’interno dello stesso istituto. Bloccando di fatto la nomina di supplenti esterni. Ed è in riferimento a queste misure che il segretario democratico, Pier Luigi Bersani, ha parlato di una sforbiciata di 6.300-6.400 posti di lavoro tra gli insegnanti. Gli ha fatto eco la capogruppo del suo partito in commissione Cultura della Camera, Manuela Ghizzoni: «Non si può giocare con le parole, quando queste nascondono concetti molto dolorosi».
Il suo riferimento è andato alle dichiarazioni pronunciate in mattinata dal ministro Francesco Profumo a margine dell’iniziativa “iSchool”, che è stata promossa da World Wide Rome, Asset, Camera e Tecnopolo Spa e si è svolta al Palalottomatica di Roma con la partecipazione di oltre 5mila studenti. Per la scuola , ha spiegato il titolare dell’Istruzione, «non sono previsti tagli diretti» ma solo un «contributo di solidarietà».
Di diverso avviso i sindacati. Il segretario della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo, ha riassunto così le conseguenze dell’aumento dell’orario di lavoro: «Ci saranno maggiori carichi di lavoro per i docenti, la riduzione di migliaia di supplenze per gli spezzoni e di quelle brevi». Una stima dei soggetti interessati ancora non c’è, ma le cifre circolate ieri oscillavano tra i 30mila e i 70mila precari interessati. Sostanzialmente analoghi i toni usati da Francesco Scrima (Cisl) e Massimo Di Menna (Uil). Il primo ha sottolineato che «la scuola non è un laboratorio di taglio e cucito. Non accetteremo tagli né diretti né indiretti», chiedendo un incontro al Governo. Il secondo ha chiesto «di finirla con decisioni prese e gestite al di fuori di trasparenza, coinvolgimento e condivisione» perché «il Paese si attende una nuova politica che avvicini l’Italia all’Europa: eliminare sprechi e prebende e utilizzare i risparmi per sostenere la scuola».

IN SINTESI

LA MINI-STRETTA
Nel ddl di stabilità arriva la mini-stretta per i professori degli istituti di ogni ordine e grado: dal prossimo anno scolastico lavoreranno 24 ore a settimana in cambio di due settimane di ferie estive in più
I RISPARMI
Il giro di vite che riguarda gli istituti scolastici dovrebbe assicurare risparmi stimati in circa 180 milioni di euro, una parte dei quali finirebbe nel fondo di funzionamento
della scuola
Gli interventi

SCUOLA
L’innalzamento del tempo
di lavoro per i docenti
Il Ddl di stabilità ha imbarcato in zona Cesarini una norma che uniforma il tempo passato nelle classi delle secondarie di primo e secondo grado (oggi 18 ore) con quello trascorso in cattedra nelle elementari (22 ore di lezione + 2 di programmazione dei moduli). Per i docenti di medie e superiori, quindi, l’innalzamento corrisponde a 6 ore a settimana e sarà compensato prolungando di 15 giorni le vacanze estive
6 ore

ESODATI
Governo e Parlamento
studiano la nuova soluzione
Governo e Parlamento stanno cercando una via uscita, dopo lo stop della Ragioneria al Ddl che punta alla salvaguardia per tutti quei lavoratori che si troveranno tra il 2013 e il 2014 senza coperture fino alla pensione. L’obiettivo è quello di avere cifre realistiche sui “nuovi” esodati per i quali Palazzo Chigi sarebbe disponibile a garantire la tutela aggiuntiva utilizzando il fondo esodati da 100 milioni inserito nella legge di stabilità
IL FONDO
100 milioni

STATALI
Il blocco del rinnovo
dei contratti degli statali
Con la legge di stabilità viene confermato il blocco per un altro anno del rinnovo dei contratti, uno stop già partito nel 2011 con il decreto 78/2010 varato dal precedente esecutivo. Secondo le organizzazioni sindacali, la misura decisa dal Governo Monti comporterà tra il 2010 e il 2014 una perdita di salario complessiva di oltre 6mila euro per gli statali, che si ritroveranno una busta paga alleggerita in media di 240 euro

LA PERDITA DI SALARIO
240 euro

L’AUMENTO DI ORARIO
PERMESSI

Il giro di vite sui permessi
ex legge 104
Dal Governo arriva anche il disco verde al dimezzamento della retribuzione nei giorni di permesso per l’assistenza a parenti disabili, che non siano coniugi o figli, riconosciuto dalla legge 104/1992. Secondo gli ultimi dati disponibili (fermi al 2010) sarebbero 244.997 i beneficiari di questo tipo di permesso (7,4% del totale dei dipendenti) per un costo stimato che si aggira sui 725 milioni e 280mila euro
IL COSTO COMPLESSIVO
725 milioni

MINISTERI

La stretta sulle spese rimodulabili dei ministeri
Il provvedimento varato martedì notte dal Governo prevede per i ministeri un giro di vite su consulenze informatiche, auto blu e spese per gli immobili, oltre alla cosiddetta “operazione “cieli bui”. Da questo pacchetto si stima di ricavare almeno 600 milioni di risparmi anche se la cifra potrebbe essere rivista sulla base del lavoro di affinamento che stanno conducendo i tecnici dell’Esecutivo
I RISPARMI
600 milioni

Il Sole 24 Ore 11.10.12

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LEGGE STABILITA’:VENTURA(PD)A GRILLI, LA CAMBIAREMO IN PARLAMENTO =

“La considerazione del ministro dell’Economia Grilli e’ contenuta nella natura stessa del provvedimento del governo, ovvero nella Legge di Stabilita’ che e’, appunto, un ddl ein quanto tale aperto alle modifiche del Parlamento”. Cosi’ Michele Ventura, vicepresidente vicario dei deputati del PD commenta le parole del ministro Vittorio Grilli. “Non una concessione, dunque, ma un diritto/dovere – aggiunge – di cui facciamo tesoro assicurando fin da ora l’esecutivo che per noi Democratici modifiche sono necessarie, entro gli obiettivi del Def, sul fronte della sanita’ e del pubblico impiego a partire dalla scuola”.

da Agi Agenzia

"Il talento di Tonino nello scegliere le persone sbagliate", di Mattia Feltri

Ah, quando si dice la sfortuna. Litigò con Elio Veltri. Con la Freccia del Sud, Pietruzzo Mennea. Con Giulietto Chiesa. Gira e rigira erano questioni di soldi a dividere Antonio Di Pietro dai prestigiosi seguaci. Valerio Carrara, unico senatore eletto dall’Italia dei Valori nel 2001, dopo venti minuti di legislatura passò con Silvio Berlusconi. Domenico Scilipoti (ex docente del Departamento de Anatomía Humana all’Università Federale del Paraná, ex vicesindaco socialdemocratico di Terme Vigliatore e acclamato frontman della legislatura in corso, di cui è deputato con qualche guaietto giudiziario per debiti e calunnie), il celeberrimo 14 dicembre 2010 si iscrisse al Gruppo Misto e salvò il governo del Pdl. Lo aiutò Antonio Razzi (ex presidente degli immigrati abruzzesi in Svizzera, associazione che gli ha intentato causa per sottrazione di fondi) che il medesimo giorno abbandonò Idv per tuffarsi in NoiSud; nessun denaro mi è stato promesso, disse Razzi, al massimo la rielezione.

Ah che sfortuna. Anche Cristo – disse Tonino – sbagliò uno dei tredici apostoli. E’ che qui di apostolo non se ne salva uno. Sergio de Gregorio, già intervistatore scuppettaro di Tommaso Buscetta, già compagno di merende e coindagato di Valter Lavitola (scampò gli arresti per voto del Senato), già direttore editoriale di Italia dei Valori , il dipetresco giornale, nel 2006 entrò giulivo al Senato con Idv che abbandonò quando il centrodestra gli offrì la presidenza della commissione Difesa.

Aiutateci a fare le candidature on line – implora oggi uno sbigottito Di Pietro a veder tanti mariuoli nel suo palingenetico movimento – ché quattro occhi vedono meglio di due. Altro che quattro: quattromila ne servono. Ad Americo Porfidia pochi hanno fatto caso, ma si iscrisse a Noi Sud due mesi prima di Razzi, e anche lui il 14 dicembre baciò in fronte il Cavaliere. A Manfredonia è assessore Annalisa Prencipe, a cui trovarono in casa reperti archeologici fatto per cui è ancora sotto inchiesta, e ora è pure coinvolta, ma con l’intera amministrazione, in un’indagine su piani di recupero delle periferie.

Ecco, valli a prendere tutti i ceffi. Come Paolo Nanni, consigliere provinciale a Bologna, che si inventava (dice la procura) cene e convegni per mettersi in tasca i denari. Vai a prendere tutti quei politici di periferia che sotto lo stemma alato dell’Idv falsificavano firme, favorivano amici, si imbattevano in mafiosi di vario lignaggio.

Però, ecco, la sfortuna s’accanisce. Fa centro con regolarità malandrina e centra il cuore del partito.

Perché questo Vincenzo Maruccio non si direbbe propriamente caduto dal cielo. Ha fatto pratica ed è avvocato nello studio Scicchitano a Roma, lo stesso dove Di Pietro ha il domicilio professionale (per restare iscritto all’Albo). Questo Maruccio ha difeso in un paio di cause il nostro ex pm. Lo ha scorrazzato, da ragazzo di bottega, mettendosi al volante dell’auto, quasi come un Belsito in erba. È stato imposto dal capo – a 31 anni, nel 2009, senza aver sostenuto probanti sfide politiche – all’assessorato regionale nella giunta Marrazzo. Un enfant prodige. Un ometto di fiducia. Ah, che sfortuna.

"Il talento di Tonino nello scegliere le persone sbagliate", di Mattia Feltri

Ah, quando si dice la sfortuna. Litigò con Elio Veltri. Con la Freccia del Sud, Pietruzzo Mennea. Con Giulietto Chiesa. Gira e rigira erano questioni di soldi a dividere Antonio Di Pietro dai prestigiosi seguaci. Valerio Carrara, unico senatore eletto dall’Italia dei Valori nel 2001, dopo venti minuti di legislatura passò con Silvio Berlusconi. Domenico Scilipoti (ex docente del Departamento de Anatomía Humana all’Università Federale del Paraná, ex vicesindaco socialdemocratico di Terme Vigliatore e acclamato frontman della legislatura in corso, di cui è deputato con qualche guaietto giudiziario per debiti e calunnie), il celeberrimo 14 dicembre 2010 si iscrisse al Gruppo Misto e salvò il governo del Pdl. Lo aiutò Antonio Razzi (ex presidente degli immigrati abruzzesi in Svizzera, associazione che gli ha intentato causa per sottrazione di fondi) che il medesimo giorno abbandonò Idv per tuffarsi in NoiSud; nessun denaro mi è stato promesso, disse Razzi, al massimo la rielezione.
Ah che sfortuna. Anche Cristo – disse Tonino – sbagliò uno dei tredici apostoli. E’ che qui di apostolo non se ne salva uno. Sergio de Gregorio, già intervistatore scuppettaro di Tommaso Buscetta, già compagno di merende e coindagato di Valter Lavitola (scampò gli arresti per voto del Senato), già direttore editoriale di Italia dei Valori , il dipetresco giornale, nel 2006 entrò giulivo al Senato con Idv che abbandonò quando il centrodestra gli offrì la presidenza della commissione Difesa.
Aiutateci a fare le candidature on line – implora oggi uno sbigottito Di Pietro a veder tanti mariuoli nel suo palingenetico movimento – ché quattro occhi vedono meglio di due. Altro che quattro: quattromila ne servono. Ad Americo Porfidia pochi hanno fatto caso, ma si iscrisse a Noi Sud due mesi prima di Razzi, e anche lui il 14 dicembre baciò in fronte il Cavaliere. A Manfredonia è assessore Annalisa Prencipe, a cui trovarono in casa reperti archeologici fatto per cui è ancora sotto inchiesta, e ora è pure coinvolta, ma con l’intera amministrazione, in un’indagine su piani di recupero delle periferie.
Ecco, valli a prendere tutti i ceffi. Come Paolo Nanni, consigliere provinciale a Bologna, che si inventava (dice la procura) cene e convegni per mettersi in tasca i denari. Vai a prendere tutti quei politici di periferia che sotto lo stemma alato dell’Idv falsificavano firme, favorivano amici, si imbattevano in mafiosi di vario lignaggio.
Però, ecco, la sfortuna s’accanisce. Fa centro con regolarità malandrina e centra il cuore del partito.
Perché questo Vincenzo Maruccio non si direbbe propriamente caduto dal cielo. Ha fatto pratica ed è avvocato nello studio Scicchitano a Roma, lo stesso dove Di Pietro ha il domicilio professionale (per restare iscritto all’Albo). Questo Maruccio ha difeso in un paio di cause il nostro ex pm. Lo ha scorrazzato, da ragazzo di bottega, mettendosi al volante dell’auto, quasi come un Belsito in erba. È stato imposto dal capo – a 31 anni, nel 2009, senza aver sostenuto probanti sfide politiche – all’assessorato regionale nella giunta Marrazzo. Un enfant prodige. Un ometto di fiducia. Ah, che sfortuna.

"L’ultima spiaggia del Celeste" , di Piero Colaprico

Dove c’era la “capitale morale”, c’è adesso Mimmo Zambetti, il primo assessore regionale beccato a comprare il portafoglio dei voti della ‘ndrangheta. Ci sono le intercettazioni, una microspia nell’auto, e i carabinieri che lo fotografano dopo l’incontro con le persone che vanno a ritirare in un’associazione politica l’ultima rata, 30 mila euro. «Bisogna fare attenzione, quando si mangia», gli dicono, e lui, l’assessore pdl, è così stressato, spaventato, che a sessant’anni scoppia a piangere, e i boss si divertono. In Lombardia, a Milano, oggi. Non nel Sud di vent’anni fa.
Roberto Formigoni, presidente della Regione, sotto inchiesta per corruzione, all’inizio sorvola la questione: «Riguarda lui, Zambetti, e non ha più le deleghe», dice. Come se bastasse. Come se non ascoltasse.
E ci vuole la Lega, in tarda serata, per fargli capire che ormai il banco della Regione può saltare: «Ho in mano le dimissioni di tutti i consiglieri e assessori della Lega e lasciamo a Formigoni la scelta se fare un passo indietro o di lato», dice Matteo Salvini. E il suo ultimatum a Formigoni sembra diverso da quelli di Umberto Bossi a Silvio Berlusconi: «O azzera la giunta, o dimissioni. Siamo consci che ad aprile si va a votare ». Si vedrà, ma intanto abbiamo visto già parecchio in questa post-Milano dove abbandonano gli affaristi senza più tanti soldi, e dove anche i clan si sbattono come precari per fare e ricevere favori e mazzette, ecco anche persone come Formigoni, o come il prefetto Valerio Lombardi, finire dentro storie e atteggiamenti che ti fanno dire: «Ma siamo ancora a Milano?».
Come non scorgere un misto di sorpresa e indignazione, di «dove siamo?», anche nelle parole pronunciate ieri mattina da un’altra immigrata, del procuratore aggiunto Ilda Boccassini: «È un fatto che la ‘ndrangheta — dice, scandendo le parole — può inquinare la vita politica in Lombardia. In questa inchiesta è acclarato che un rappresentante delle istituzioni si rivolge a un gruppo criminale, in questo caso a soggetti in ruoli apicali. Zambetti ha la consapevolezza di rivolgersi a dei mafiosi». È la prima volta che viene «dimostrato» — questo il verbo usato: dimostrato — uno scambio di voti con criminalità: «La ‘ndrangheta può incidere sulla democrazia del Paese e sulla libertà di voto», dice Boccassini, come se fosse nella Reggio Calabria con il consiglio comunale sciolto dal ministero dell’Interno e non nella metropoli più mondiale d’Italia.
Oggi, come vent’anni fa, esattamente come vent’anni fa quando c’era Tangentopoli, quando avvennero le stragi a Palermo, due parole tornano a scuotere il Paese: mafia e corruzione. Zambetti, con il suo ufficio alla Regione, seduto nella ora traballante giunta Formigoni, dentro un palazzone dove non mancano inquisiti, sembra evocarle tutt’e due. Persino al di là dei suoi demeriti. «Lo scambio dei voti — ripete Ilda Boccassini, come se fosse già in requisitoria — è devastante per la democrazia e Zambetti era un patrimonio per l’organizzazione».
Viene perciò da chiedere: qual è il patrimonio dell’altra Milano, della Milano pulita? Di quella delle istituzioni, della Milano che dovrebbe funzionare? Formigoni dice che è innocente, è un suo diritto, ma da uomo delle istituzioni non ha mai sinora sentito il dovere di spendere una parola per spiegare come mai sono due suoi amici, Piero Daccò e Antonio Simone, a prendersi con le loro avide mani ricche fette della torta che la mano pubblica, e cioè la Regione, versa a due Fondazioni, San Raffaele e Maugeri.
Come non spiega Formigoni, così fa finta di niente Nicole Minetti, consigliere e modella, pluri-intercettata, e accusata di concorso in sfruttamento della prostituzione. Franco Nicoli Cristiani, Pdl, arrestato con una mazzetta in tasca, tace allo stesso modo. Ma si è dimesso dal consiglio regionale, da dove non si dimette Filippo Penati, Pd, che aspetta per decidere se arriva o no il rinvio a giudizio. Un altro ex assessore, Massimo Ponzoni, è stato arrestato, in tutto sono tredici gli inquisiti, compreso Davide Boni, della Lega.
Allo stesso modo di costoro, nella post-Milano nemmeno il prefetto Lombardi ha voglia di spiegarsi troppo. A Milano, quando governava il centrodestra di Letizia Moratti, il pericolo erano «i negher», gli stranieri, gli zingari, gli abusivi. Anche se gli attentati non mancavano, le infiltrazioni pure, la parola ‘ndrangheta veniva pronunciata rarissime volte. Quasi mai. Così come la politica al potere pretendeva, anche Lombardi, da occhio dello Stato sulla città, provò ad andare in soccorso di questa visione miope, e disse che la mafia non controlla il territorio. Si espresse male, venne fuori il classico «la mafia non esiste».
Al potere Lombardi è sempre stato sensibile, anche quando aveva le forme di Marysthelle Polanco, compagna di un narcos appena arrestato e nel medesimo periodo anche amica di bunga bunga di Silvio Berlusconi. È rimasta leggendaria anche su Internet la telefonata, con la ballerina che entrava con l’auto nel cortile, con lui che lanciava un sonante: «Mi saluti il presidente».
Tutto questo è passato, ma ora Lombardi, prefetto di Milano, si trova impelagato in un’altra questione: quella dei soldi mandati alle associazioni solidali dal Comune gestione Moratti e «spariti». La questione non riguarda la casa che il figlio ha avuto dall’Istituto Ciechi. È — bisogna essere precisi — questa: lui ha nominato come amministratore della Fondazione Pini un tizio e questo tizio è stato arrestato. E come mai?
Perché un funzionario comunale infedele gli ha girato un contributo di 100mila euro e questi 100mila sono scomparsi. E i due, il nominato dal prefetto e il funzionario amicissimo della giunta Moratti, insieme parlavano dell’aiuto che avrebbero potuto ricevere dal prefetto. E lo vanno a trovare un giorno, e una sera lo invitano a cena con il figlio, ma Lombardi all’ultimo non va.
Ora — la domanda — ma perché un funzionario pubblico, un rappresentante del governo, non spiega alla parte di città che ha letto Repubblica come stanno le cose su questi suoi rapporti d’amicizia con un arrestato? Non immagina che, appena finito il giro degli interrogatori ai detenuti, sarà interrogato anche lui dalla magistratura? Dov’è la trasparenza? E dove sono anche quelli che la chiedono davvero?
Forse, a spiegare lo stato delle cose, può essere ancora utile un ultimo pezzo dello sconcerto dell’immigrata e procuratore aggiunto antimafia Boccassini: «Una pletora di imprenditori lombardi — questa la sua analisi, impietosa — preferisce la scelta illegale di rivolgersi al crimine organizzato, piuttosto che intentare cause civili lunghe anni» per il recupero crediti. E «chi usa metodi violenti, esce vincente sullo Stato ».
Non si denuncia e non si parla, questa è diventata Milano. Chissà se tornerà più l’altra Milano: quella che si sapeva far valere, quella di chi qui aveva cercato e realizzato un sogno, un’idea. Di chi aveva fatto fortuna o l’aveva comunque cercata, e che fosse operaio, o fosse ricco, comunque non si faceva mettere sotto. Non aveva troppa paura né dei politici, né dei criminali. Di quelli che talvolta sono la stessa cosa, anche a Milano, ormai anche a Milano.

La Repubblica 11.10.12

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“UN’ALTRA TANGENTOPOLI”, GAD LERNER

DALLA Calabria alla Lombardia, come vent’anni fa, stiamo vivendo il tracollo rapidissimo di una classe politica che precipita nel vortice di una Nuova Tangentopoli. Con un’incoscienza che misuriamo anche nella prima reazione di Formigoni all’arresto del suo assessore rivelatosi complice della ‘ndrangheta: «È un fatto grave ma ne risponde Zambetti ». Si resta attoniti di fronte a questo tentativo di minimizzare, da parte di un potente aggrappato alla poltrona, l’«inquinamento della democrazia» denunciato ieri da Ilda Boccassini. È un inutile tentativo di far sopravvivere una giunta già profondamente delegittimata da sistematici episodi di corruzione, per i quali lo stesso Formigoni è indagato.
Come già la Polverini nel Lazio, anche il presidente della giunta regionale lombarda è destinato a uscire presto di scena. I leghisti che l’hanno sorretto finora per meri calcoli di potere andrebbero incontro all’autodistruzione, perseverando in una scelta che contraddice la loro identità. Dopo decenni di rassegnazione a una politica ridotta ad affarismo, il sistema sta collassando. Dal dirigente Pdl che vuole posteggiare nello spazio riservato al disabile, e per questo gli buca le gomme dell’auto, al funzionario che lucra sulle colonie estive dei bambini, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa, che affitta un suo capannone a venditori di merce contraffatta, ai capigruppo che si appropriano di denaro pubblico, fino al culmine dei voti di preferenza comprati dalla criminalità organizzata, di giorno in giorno la galleria degli orrori supera ogni immaginazione. Di questo passo torneremo al lancio delle monetine e magari al cappio esibito in Parlamento, trucchi buoni solo per allontanare la necessaria riforma della politica. Non a caso, l’apparato mediatico di proprietà dell’uomo che ha allevato questa razza predona, ha ricominciato con spregiudicatezza a cavalcare la sacrosanta indignazione dei cittadini contro la “magna casta” (è il titolo di un giornale berlusconiano che fino a ieri sparava contro le “toghe rosse”). Da Fiorito alla Minetti, i protagonisti del degrado vengono invitati a far mostra di sé nei salotti televisivi per essere sottoposti al dileggio di chi li aveva scritturati, nella speranza che il coro “tutti ladri!” stordisca l’opinione pubblica, manipolando il necessario discernimento delle responsabilità.
Gli stessi che hanno rigonfiato scandalosamente i costi della politica e hanno riempito le istituzioni di farabutti, ora si fingono nauseati in attesa di riproporsi magari come artefici della bonifica. Anche nel corso della prima Tangentopoli si comportarono così, da forcaioli, salvo rivoltarsi all’improvviso contro i giudici non appena emerso l’uomo forte della destra al cui servizio si misero in fila. Basta vedere, oggi, come hanno esaltato fin che possibile il “coraggio” della Polverini nella speranza che resistesse, per poi scaricarla. Faranno lo stesso con Formigoni. L’unica differenza è che l’uomo forte cui si aggrapparono vent’anni fa per resuscitare un sistema di potere ferito, non è più presentabile.
La Nuova Tangentopoli si manifesta in un contesto di emergenza democratica più acuta di quella vissuta nel 1992. Non solo per la recessione economica e l’impoverimento diffuso della popolazione. Ma anche perché l’influenza delle organizzazioni criminali e dei clan affaristici nelle istituzioni è ormai pervasiva, incontrastata da una politica priva di anticorpi, come dimostra l’inchiesta della magistratura lombarda. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, dileggiato quando segnalò che anche in Lombardia la ‘ndrangheta controlla porzioni rilevanti di territorio e prospera con le sue attività di riciclaggio finanziario e imprenditoriale.
Dal cardinale Scola a Comunione e Liberazione, dalla destra pulita di Gabriele Albertini all’Assalombarda, c’è da augurarsi che si levi una sollecitazione univoca per indurre Formigoni a levarsi di mezzo, consentendo il ripristino di una normale dialettica democratica
sulle ceneri della giunta degli indagati e degli arrestati. Lo stesso governo tecnico deve affrettarsi, per esempio, a rimuovere il prefetto di Milano già dispensatore di favori a una delle favorite del Sultano, e ora compromesso in relazione improprie con dei corrotti da cui ha ottenuto a prezzi di favore la casa per il figlio.
La compravendita di voti controllati dalla ‘ndrangheta a favore dell’assessore Zambetti, infine, dovrebbe seppellire il tentativo di reintrodurre nella legge elettorale nazionale quel sistema delle preferenze che già tanti danni produce nella politica locale. O vogliamo forse che dalla Nuova Tangentopoli usciamo inneggiando alle manette e a chissà quale nuovo uomo forte? L’indignazione dei cittadini deve produrre un vero ricambio di classe dirigente, cioè una riforma della politica. La Lombardia che ha già vissuto la pacifica “liberazione” di Milano, ha in sé tutte le risorse per farsene battistrada.

La Repubblica 11.10.12

"L’ultima spiaggia del Celeste" , di Piero Colaprico

Dove c’era la “capitale morale”, c’è adesso Mimmo Zambetti, il primo assessore regionale beccato a comprare il portafoglio dei voti della ‘ndrangheta. Ci sono le intercettazioni, una microspia nell’auto, e i carabinieri che lo fotografano dopo l’incontro con le persone che vanno a ritirare in un’associazione politica l’ultima rata, 30 mila euro. «Bisogna fare attenzione, quando si mangia», gli dicono, e lui, l’assessore pdl, è così stressato, spaventato, che a sessant’anni scoppia a piangere, e i boss si divertono. In Lombardia, a Milano, oggi. Non nel Sud di vent’anni fa.
Roberto Formigoni, presidente della Regione, sotto inchiesta per corruzione, all’inizio sorvola la questione: «Riguarda lui, Zambetti, e non ha più le deleghe», dice. Come se bastasse. Come se non ascoltasse.
E ci vuole la Lega, in tarda serata, per fargli capire che ormai il banco della Regione può saltare: «Ho in mano le dimissioni di tutti i consiglieri e assessori della Lega e lasciamo a Formigoni la scelta se fare un passo indietro o di lato», dice Matteo Salvini. E il suo ultimatum a Formigoni sembra diverso da quelli di Umberto Bossi a Silvio Berlusconi: «O azzera la giunta, o dimissioni. Siamo consci che ad aprile si va a votare ». Si vedrà, ma intanto abbiamo visto già parecchio in questa post-Milano dove abbandonano gli affaristi senza più tanti soldi, e dove anche i clan si sbattono come precari per fare e ricevere favori e mazzette, ecco anche persone come Formigoni, o come il prefetto Valerio Lombardi, finire dentro storie e atteggiamenti che ti fanno dire: «Ma siamo ancora a Milano?».
Come non scorgere un misto di sorpresa e indignazione, di «dove siamo?», anche nelle parole pronunciate ieri mattina da un’altra immigrata, del procuratore aggiunto Ilda Boccassini: «È un fatto che la ‘ndrangheta — dice, scandendo le parole — può inquinare la vita politica in Lombardia. In questa inchiesta è acclarato che un rappresentante delle istituzioni si rivolge a un gruppo criminale, in questo caso a soggetti in ruoli apicali. Zambetti ha la consapevolezza di rivolgersi a dei mafiosi». È la prima volta che viene «dimostrato» — questo il verbo usato: dimostrato — uno scambio di voti con criminalità: «La ‘ndrangheta può incidere sulla democrazia del Paese e sulla libertà di voto», dice Boccassini, come se fosse nella Reggio Calabria con il consiglio comunale sciolto dal ministero dell’Interno e non nella metropoli più mondiale d’Italia.
Oggi, come vent’anni fa, esattamente come vent’anni fa quando c’era Tangentopoli, quando avvennero le stragi a Palermo, due parole tornano a scuotere il Paese: mafia e corruzione. Zambetti, con il suo ufficio alla Regione, seduto nella ora traballante giunta Formigoni, dentro un palazzone dove non mancano inquisiti, sembra evocarle tutt’e due. Persino al di là dei suoi demeriti. «Lo scambio dei voti — ripete Ilda Boccassini, come se fosse già in requisitoria — è devastante per la democrazia e Zambetti era un patrimonio per l’organizzazione».
Viene perciò da chiedere: qual è il patrimonio dell’altra Milano, della Milano pulita? Di quella delle istituzioni, della Milano che dovrebbe funzionare? Formigoni dice che è innocente, è un suo diritto, ma da uomo delle istituzioni non ha mai sinora sentito il dovere di spendere una parola per spiegare come mai sono due suoi amici, Piero Daccò e Antonio Simone, a prendersi con le loro avide mani ricche fette della torta che la mano pubblica, e cioè la Regione, versa a due Fondazioni, San Raffaele e Maugeri.
Come non spiega Formigoni, così fa finta di niente Nicole Minetti, consigliere e modella, pluri-intercettata, e accusata di concorso in sfruttamento della prostituzione. Franco Nicoli Cristiani, Pdl, arrestato con una mazzetta in tasca, tace allo stesso modo. Ma si è dimesso dal consiglio regionale, da dove non si dimette Filippo Penati, Pd, che aspetta per decidere se arriva o no il rinvio a giudizio. Un altro ex assessore, Massimo Ponzoni, è stato arrestato, in tutto sono tredici gli inquisiti, compreso Davide Boni, della Lega.
Allo stesso modo di costoro, nella post-Milano nemmeno il prefetto Lombardi ha voglia di spiegarsi troppo. A Milano, quando governava il centrodestra di Letizia Moratti, il pericolo erano «i negher», gli stranieri, gli zingari, gli abusivi. Anche se gli attentati non mancavano, le infiltrazioni pure, la parola ‘ndrangheta veniva pronunciata rarissime volte. Quasi mai. Così come la politica al potere pretendeva, anche Lombardi, da occhio dello Stato sulla città, provò ad andare in soccorso di questa visione miope, e disse che la mafia non controlla il territorio. Si espresse male, venne fuori il classico «la mafia non esiste».
Al potere Lombardi è sempre stato sensibile, anche quando aveva le forme di Marysthelle Polanco, compagna di un narcos appena arrestato e nel medesimo periodo anche amica di bunga bunga di Silvio Berlusconi. È rimasta leggendaria anche su Internet la telefonata, con la ballerina che entrava con l’auto nel cortile, con lui che lanciava un sonante: «Mi saluti il presidente».
Tutto questo è passato, ma ora Lombardi, prefetto di Milano, si trova impelagato in un’altra questione: quella dei soldi mandati alle associazioni solidali dal Comune gestione Moratti e «spariti». La questione non riguarda la casa che il figlio ha avuto dall’Istituto Ciechi. È — bisogna essere precisi — questa: lui ha nominato come amministratore della Fondazione Pini un tizio e questo tizio è stato arrestato. E come mai?
Perché un funzionario comunale infedele gli ha girato un contributo di 100mila euro e questi 100mila sono scomparsi. E i due, il nominato dal prefetto e il funzionario amicissimo della giunta Moratti, insieme parlavano dell’aiuto che avrebbero potuto ricevere dal prefetto. E lo vanno a trovare un giorno, e una sera lo invitano a cena con il figlio, ma Lombardi all’ultimo non va.
Ora — la domanda — ma perché un funzionario pubblico, un rappresentante del governo, non spiega alla parte di città che ha letto Repubblica come stanno le cose su questi suoi rapporti d’amicizia con un arrestato? Non immagina che, appena finito il giro degli interrogatori ai detenuti, sarà interrogato anche lui dalla magistratura? Dov’è la trasparenza? E dove sono anche quelli che la chiedono davvero?
Forse, a spiegare lo stato delle cose, può essere ancora utile un ultimo pezzo dello sconcerto dell’immigrata e procuratore aggiunto antimafia Boccassini: «Una pletora di imprenditori lombardi — questa la sua analisi, impietosa — preferisce la scelta illegale di rivolgersi al crimine organizzato, piuttosto che intentare cause civili lunghe anni» per il recupero crediti. E «chi usa metodi violenti, esce vincente sullo Stato ».
Non si denuncia e non si parla, questa è diventata Milano. Chissà se tornerà più l’altra Milano: quella che si sapeva far valere, quella di chi qui aveva cercato e realizzato un sogno, un’idea. Di chi aveva fatto fortuna o l’aveva comunque cercata, e che fosse operaio, o fosse ricco, comunque non si faceva mettere sotto. Non aveva troppa paura né dei politici, né dei criminali. Di quelli che talvolta sono la stessa cosa, anche a Milano, ormai anche a Milano.
La Repubblica 11.10.12
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“UN’ALTRA TANGENTOPOLI”, GAD LERNER
DALLA Calabria alla Lombardia, come vent’anni fa, stiamo vivendo il tracollo rapidissimo di una classe politica che precipita nel vortice di una Nuova Tangentopoli. Con un’incoscienza che misuriamo anche nella prima reazione di Formigoni all’arresto del suo assessore rivelatosi complice della ‘ndrangheta: «È un fatto grave ma ne risponde Zambetti ». Si resta attoniti di fronte a questo tentativo di minimizzare, da parte di un potente aggrappato alla poltrona, l’«inquinamento della democrazia» denunciato ieri da Ilda Boccassini. È un inutile tentativo di far sopravvivere una giunta già profondamente delegittimata da sistematici episodi di corruzione, per i quali lo stesso Formigoni è indagato.
Come già la Polverini nel Lazio, anche il presidente della giunta regionale lombarda è destinato a uscire presto di scena. I leghisti che l’hanno sorretto finora per meri calcoli di potere andrebbero incontro all’autodistruzione, perseverando in una scelta che contraddice la loro identità. Dopo decenni di rassegnazione a una politica ridotta ad affarismo, il sistema sta collassando. Dal dirigente Pdl che vuole posteggiare nello spazio riservato al disabile, e per questo gli buca le gomme dell’auto, al funzionario che lucra sulle colonie estive dei bambini, dall’assessore regionale alla Sicurezza, Romano La Russa, che affitta un suo capannone a venditori di merce contraffatta, ai capigruppo che si appropriano di denaro pubblico, fino al culmine dei voti di preferenza comprati dalla criminalità organizzata, di giorno in giorno la galleria degli orrori supera ogni immaginazione. Di questo passo torneremo al lancio delle monetine e magari al cappio esibito in Parlamento, trucchi buoni solo per allontanare la necessaria riforma della politica. Non a caso, l’apparato mediatico di proprietà dell’uomo che ha allevato questa razza predona, ha ricominciato con spregiudicatezza a cavalcare la sacrosanta indignazione dei cittadini contro la “magna casta” (è il titolo di un giornale berlusconiano che fino a ieri sparava contro le “toghe rosse”). Da Fiorito alla Minetti, i protagonisti del degrado vengono invitati a far mostra di sé nei salotti televisivi per essere sottoposti al dileggio di chi li aveva scritturati, nella speranza che il coro “tutti ladri!” stordisca l’opinione pubblica, manipolando il necessario discernimento delle responsabilità.
Gli stessi che hanno rigonfiato scandalosamente i costi della politica e hanno riempito le istituzioni di farabutti, ora si fingono nauseati in attesa di riproporsi magari come artefici della bonifica. Anche nel corso della prima Tangentopoli si comportarono così, da forcaioli, salvo rivoltarsi all’improvviso contro i giudici non appena emerso l’uomo forte della destra al cui servizio si misero in fila. Basta vedere, oggi, come hanno esaltato fin che possibile il “coraggio” della Polverini nella speranza che resistesse, per poi scaricarla. Faranno lo stesso con Formigoni. L’unica differenza è che l’uomo forte cui si aggrapparono vent’anni fa per resuscitare un sistema di potere ferito, non è più presentabile.
La Nuova Tangentopoli si manifesta in un contesto di emergenza democratica più acuta di quella vissuta nel 1992. Non solo per la recessione economica e l’impoverimento diffuso della popolazione. Ma anche perché l’influenza delle organizzazioni criminali e dei clan affaristici nelle istituzioni è ormai pervasiva, incontrastata da una politica priva di anticorpi, come dimostra l’inchiesta della magistratura lombarda. Qualcuno dovrebbe chiedere scusa a Roberto Saviano, dileggiato quando segnalò che anche in Lombardia la ‘ndrangheta controlla porzioni rilevanti di territorio e prospera con le sue attività di riciclaggio finanziario e imprenditoriale.
Dal cardinale Scola a Comunione e Liberazione, dalla destra pulita di Gabriele Albertini all’Assalombarda, c’è da augurarsi che si levi una sollecitazione univoca per indurre Formigoni a levarsi di mezzo, consentendo il ripristino di una normale dialettica democratica
sulle ceneri della giunta degli indagati e degli arrestati. Lo stesso governo tecnico deve affrettarsi, per esempio, a rimuovere il prefetto di Milano già dispensatore di favori a una delle favorite del Sultano, e ora compromesso in relazione improprie con dei corrotti da cui ha ottenuto a prezzi di favore la casa per il figlio.
La compravendita di voti controllati dalla ‘ndrangheta a favore dell’assessore Zambetti, infine, dovrebbe seppellire il tentativo di reintrodurre nella legge elettorale nazionale quel sistema delle preferenze che già tanti danni produce nella politica locale. O vogliamo forse che dalla Nuova Tangentopoli usciamo inneggiando alle manette e a chissà quale nuovo uomo forte? L’indignazione dei cittadini deve produrre un vero ricambio di classe dirigente, cioè una riforma della politica. La Lombardia che ha già vissuto la pacifica “liberazione” di Milano, ha in sé tutte le risorse per farsene battistrada.
La Repubblica 11.10.12