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A casa. Dopo l'ennesimo scandalo alla Regione Lombardia a Formigoni non resta che una sola scelta

“Vogliamo sciogliere il consiglio regionale della Lombardia, il problema è che per farlo dobbiamo arrivare a 41” consiglieri dimissionari. Così Marco Minniti, deputato del Pd, intervenendo ad Agorà su Rai3. “Quella presidenza, quel consiglio, ha cessato di svolgere le sue funzioni – spiega Minniti – La vicenda di Zambetti ha segnato un passo decisivo: si è messa in discussione la legittimità democratica del Consiglio regionale della Lombardia. Se la legge per lo scioglimento dei consigli comunali fosse applicabile ai consigli regionali, cosa che mi auguro faccia il legislatore, il consiglio regionale della Lombardia sarebbe stato posto sotto indagine per inquinamento mafioso. Nel momento in cui si dimostra che un’organizzazione criminale ha influito sull’elezione anche di un solo rappresentante – conclude – si e’ inquinato il processo democratico”.
“Mi pare che emerga il lascito di una stagione in cui, come testimoniano gli ultimi e sempre più numerosi avvenimenti, la politica e’ stata concepita più come un modo per arricchirsi e occupare il potere che per servire l’interesse generale dell’Italia”. Lo ha detto Nicola Latorre , vicepresidente del Gruppo PD al Senato in merito agli ultimi scandali della regione Lombardia.

“I fenomeni di degenerazione a cui assistiamo – ha continuato – sono il frutto di anni in cui si e’ diffuso un modo di fare politica improntato alla costruzione di un ruolo diretto tra leader e popolo che ha prodotto personalizzazione e crisi dei luoghi della mediazione politica e istituzionale. Il Consiglio Regionale Lombardo deve sciogliersi perché la situazione è politicamente insostenibile”.

Sulla legge elettorale, Latorre ha poi detto che “non si può più menare il can per l’aia. E’ indispensabile cambiarla- ha aggiunto- e mi auguro dunque che si arrivi a un accordo il più largo possibile tra le forze politiche tenendo ben presente che anche i fatti di questi giorni dimostrano come il meccanismo delle preferenze incoraggi le forme di corruzione e il voto di scambio. Anche la cronaca insomma – ha concluso Latorre – consiglierebbe di privilegiare i collegi uninominali, peraltro contenuti nella nostra proposta”.

Per i senatori del PD Luigi Vimercati e Marilena Adamo “quanto sta emergendo in Lombardia dall’inchiesta sull’infiltrazione della ‘ndrangheta e la corruzione pone inquietanti interrogativi che non possono risolversi con il candido stupore manifestato in queste ore dal presidente Formigoni”.

“Poiché l’unico dato incontrovertibile è che la sua giunta era al centro di losche mire criminali – proseguono i due senatori PD, – Formigoni non può limitarsi alle alzate di spalle, soprattutto dopo che l’opposizione in Consiglio Regionale ha da tempo denunciato traffici e operazioni di dubbia natura che si svolgevano attorno al Pirellone”.

“Ricordiamo tutti – concludono Adamo e Vimercati – l’atteggiamento al limite dell’insolenza tenuto da Formigoni in questi mesi verso il PD e le altre forze d’opposizione. Ma la questione morale che sta ora emergendo è il sigillo di un più complessivo fallimento politico. Per questo crediamo opportuno che debba chiedere scusa ai cittadini e compiere l’unico atto dignitoso che gli rimane, rassegnare cioè le dimissioni”.

da www.partitodemocratico.it

"I partiti personali aumentano la corruzione", di Michele Prospero

Quanto sta accadendo in Lombardia e nel Lazio registra una caduta impressionante del tasso di eticità del ceto amministrativo locale. La scarsa qualità della classe politica e l’infimo senso del pubblico che traspare in molta destra che governa i territori accelerano la delegittimazione della politica. Le manette ai polsi di un altro assessore della giunta guidata da Roberto Formigoni smascherano una inaccettabile compenetrazione di affari, mafia e gestione del governo.
Sotto la scure della Procura sta franando una macchina granitica che poggia sul sistema di potere personale di un governatore che si reputa inamovibile e attorno al quale ruotano spezzoni subalterni di classe politica (anche del Carroccio) che malversa con incursioni spericolate nel melmoso continuum politica-denaro. Nel profondo Nord, nelle aree più ricche del Paese, affiora l’intreccio perverso tra amministrazione e voto di scambio, tra carriera politica personale e appoggio della criminalità organizzata nel raccoglimento (ben remunerato, sembra) delle migliaia di preferenze che occorrono per la scalata al seggio. Questi fenomeni degenerativi confermano che nel ventennio post-partitico soprattutto a destra è stata adottata una selezione rovesciata della classe politica. Quante più abbondanti divenivano le risorse destinate alle autonomie locali, tanto più venivano reclutate persone senza scrupoli, prive di ogni autentica passione politica e attratte solo dalla febbre dell’oro con la quale accumulare risorse e comprare i voti. La elezione popolare del governatore, e il ricorso al voto di preferenza per i consiglieri, hanno preparato una dose micidiale di macro e micro personalizzazione del potere che si insinuava nelle amministrazioni senza incrociare degli anticorpi reali, dato lo sfaldamento della politica organizzata.

Solo i partiti non personali, quelli che mantengono cioè una parvenza di vita associativa, che vantano ancora tracce di tradizioni ideali e porzioni di reti fiduciarie attive nei territori, restano estranei al malaffare. Quando il presidente della Regione e i consiglieri hanno dietro un partito che indirizza, controlla, coordina, censura il degrado etico viene arrestato. La caduta dello spirito pubblico si cura solo con la buona politica, cioè con partiti in grado di sondare i livelli di vita, le abitudini, le carriere e i simboli degli eletti. Altre soluzioni non esistono, sono soltanto delle illusorie vie di fuga.

L’inchiesta che nel Lazio coinvolge anche il braccio destro di Antonio di Pietro mostra proprio la convergenza organica esistente tra l’invenzione di partiti personali privi di strutture democratiche interne e la corruzione, la mutazione di risorse pubbliche in dotazione privata, il trasformismo più deteriore. Non è solo un caso accidentale che proprio un partito personale-giustizialista, che persevera nel mettere il nome del capo nel simbolo, risulti particolarmente sfortunato nella selezione della classe politica della «società civile» al punto da portare in Parlamento statisti del calibro di Scilipoti, Razzi, De Gregorio, Misiti.

Il fallimento della velleità di rispondere al malaffare e al peculato dilagante con i partiti personali antipolitici ripropone uno scomodo elemento di verità. La corruzione odierna non è il frutto di un eccesso di partito ma è il risultato di una drammatica carenza di partito. Per questo occorre smascherare la mossa ingannevole di tanti novelli aspiranti capi che cercano di afferrare il degrado morale della politica per proporsi alla testa di liste civiche e di nuovi partiti personali senza vita, senza partecipazione. Le inchieste svelano quanto effimera sia una alternativa di «società civile» ai partiti, che sono invece una cerniera indispensabile, da ricostruire in fretta.

L’Unità 11.10.12

"I partiti personali aumentano la corruzione", di Michele Prospero

Quanto sta accadendo in Lombardia e nel Lazio registra una caduta impressionante del tasso di eticità del ceto amministrativo locale. La scarsa qualità della classe politica e l’infimo senso del pubblico che traspare in molta destra che governa i territori accelerano la delegittimazione della politica. Le manette ai polsi di un altro assessore della giunta guidata da Roberto Formigoni smascherano una inaccettabile compenetrazione di affari, mafia e gestione del governo.
Sotto la scure della Procura sta franando una macchina granitica che poggia sul sistema di potere personale di un governatore che si reputa inamovibile e attorno al quale ruotano spezzoni subalterni di classe politica (anche del Carroccio) che malversa con incursioni spericolate nel melmoso continuum politica-denaro. Nel profondo Nord, nelle aree più ricche del Paese, affiora l’intreccio perverso tra amministrazione e voto di scambio, tra carriera politica personale e appoggio della criminalità organizzata nel raccoglimento (ben remunerato, sembra) delle migliaia di preferenze che occorrono per la scalata al seggio. Questi fenomeni degenerativi confermano che nel ventennio post-partitico soprattutto a destra è stata adottata una selezione rovesciata della classe politica. Quante più abbondanti divenivano le risorse destinate alle autonomie locali, tanto più venivano reclutate persone senza scrupoli, prive di ogni autentica passione politica e attratte solo dalla febbre dell’oro con la quale accumulare risorse e comprare i voti. La elezione popolare del governatore, e il ricorso al voto di preferenza per i consiglieri, hanno preparato una dose micidiale di macro e micro personalizzazione del potere che si insinuava nelle amministrazioni senza incrociare degli anticorpi reali, dato lo sfaldamento della politica organizzata.
Solo i partiti non personali, quelli che mantengono cioè una parvenza di vita associativa, che vantano ancora tracce di tradizioni ideali e porzioni di reti fiduciarie attive nei territori, restano estranei al malaffare. Quando il presidente della Regione e i consiglieri hanno dietro un partito che indirizza, controlla, coordina, censura il degrado etico viene arrestato. La caduta dello spirito pubblico si cura solo con la buona politica, cioè con partiti in grado di sondare i livelli di vita, le abitudini, le carriere e i simboli degli eletti. Altre soluzioni non esistono, sono soltanto delle illusorie vie di fuga.
L’inchiesta che nel Lazio coinvolge anche il braccio destro di Antonio di Pietro mostra proprio la convergenza organica esistente tra l’invenzione di partiti personali privi di strutture democratiche interne e la corruzione, la mutazione di risorse pubbliche in dotazione privata, il trasformismo più deteriore. Non è solo un caso accidentale che proprio un partito personale-giustizialista, che persevera nel mettere il nome del capo nel simbolo, risulti particolarmente sfortunato nella selezione della classe politica della «società civile» al punto da portare in Parlamento statisti del calibro di Scilipoti, Razzi, De Gregorio, Misiti.
Il fallimento della velleità di rispondere al malaffare e al peculato dilagante con i partiti personali antipolitici ripropone uno scomodo elemento di verità. La corruzione odierna non è il frutto di un eccesso di partito ma è il risultato di una drammatica carenza di partito. Per questo occorre smascherare la mossa ingannevole di tanti novelli aspiranti capi che cercano di afferrare il degrado morale della politica per proporsi alla testa di liste civiche e di nuovi partiti personali senza vita, senza partecipazione. Le inchieste svelano quanto effimera sia una alternativa di «società civile» ai partiti, che sono invece una cerniera indispensabile, da ricostruire in fretta.
L’Unità 11.10.12

Stop di Bersani alla legge di stabilità “Ci sono diverse cose da aggiustare”, di Alberto D'Argenio

La Legge di Stabilità del governo Monti spacca i partiti. Il Pd è critico, ma Bersani annuncia che i democratici continueranno a fianco del Professore. E se Casini esprime «soddisfazione» per il taglio dell’Irpef, il Pdl parla di manovra che sa di «marketing politico ». Anche il presidente della Conferenza delle Regioni, Vasco Errani, esterna la «fortissima preoccupazione» per i tagli che «compromettono la possibilità di erogare servizi». Tesi smentita dal ministro della Sanità Balduzzi: «Non li intaccheranno». Spaccati anche i sindacati. Se Bonanni (Cisl) promuove il governo, la Camusso (Cgil) parla di «manovra depressiva». Intanto Giorgio Napolitano firma il decreto sui tagli ai costi della politica approvato dal governo la scorsa settimana.
Il dato di rilievo è il no di Bersani alla richiesta di Vendola di togliere il sostegno al governo perché «vincere le elezioni contro il sentimento del Paese è complicato ». Al leader di Sel il segretario democratico risponde: «Restiamo leali a Monti fino alle elezioni, ma su alcune misure diremo la nostra ». Per il Pd cosa non funzioni nella Legge di Stabilità lo spiega Francesco Boccia, per il quale tra l’altro il taglio dell’Irpef per i primi due scaglioni riguarda tutti i contribuenti, anche i ricchi. Critica alla quale il premier, parlando con i collaboratori più stretti, replica osservando che ci sono altre misure che pesano sui redditi alti, come i limiti a franchigie e detrazioni, la Tobin Tax e l’inserimento delle pensioni di invalidità nel calcolo dell’Irpef per chi ha altre entrate.
L’altro ieri notte al termine del Cdm Monti si è presentato in sala stampa rivendicando che «possiamo toccare con mano che la disciplina bilancio conviene, ora ci possiamo permettere qualche moderato sollievo». Ma a mandare su tutte le furie il premier è ancora il sottosegretario Polillo. Martedì sera, in tv, aveva anticipato il taglio dell’Irpef che il governo stava ancora discutendo, guadagnandosi una dura nota di reprimenda da parte di Palazzo Chigi. Ieri, sempre in televisione, ha spiegato che nell’interminabile Consiglio dei ministri «c’erano due tesi contrapposte», alla fine si è deciso di fare «fifty fifty», ovvero un punto meno di Irpef e uno in più di Iva (rispetto ai due in calendario dallo scorso novembre). Ricostruzione smentita dall’entourage di Monti. «Non c’è stato nessun compromesso, ma un mix di misure che risponde a diverse esigenze del Paese». La mossa a sorpresa sull’Irpef, confermano al Tesoro, in realtà è stata studiata per almeno due settimane da Monti e Grilli, che al Cdm si è presentato con le simulazioni delle diverse opzioni percorribili. Certo, in base al resoconto del ministro dell’Economia c’è stato un dibattito tra ministri, con Grilli che ha tirato le somme ricordando che intanto la riduzione dell’Irpef scatterà a gennaio, mentre l’innalzamento dell’Iva arriverà a luglio: «In questi sei mesi – ha spiegato – gli italiani godranno solo degli effetti benefici dell’Irpef e oltretutto non è detto che non si riesca a trovare il modo di evitare l’aumento dell’Iva, ci sono i proventi della lotta all’evasione da usare».
A Palazzo Chigi raccontano che di fronte alle critiche su una mossa “politica” il premier risponde: «Non cambia nulla, non ho nessuna intenzione di candidarmi e il taglio delle tasse è un intervento utile al Paese, non alla campagna elettorale». Così come spiega la ratio della decisione Irpef-Iva: «È una scelta ragionata perché se l’Iva è regressiva, la riduzione del-l’Irpef avrà un impatto significativo, spingerà la ripresa dei consumi e risponde a ragioni di equità». Il disegno del premier e di Grilli, spiegano i loro staff, ha come primo obiettivo quello di rassicurare i mercati che il pareggio di bilancio nel 2013 (anche grazie all’Iva) verrà centrato. In secondo luogo va incontro alle raccomandazioni europee, con la Ue (come Fmi e Ocse) che insiste con Roma sullo spostamento del carico fiscale dal reddito ai consumi. Con l’Irpef si finalmente un intervento «anticiclico » che farà crescere la domanda interna favorendo la ripresa e si aiuterà le aziende a trovare le risorse per aumentare la produttività senza tagliare il cuneo fiscale, misura che in questa fase costerebbe troppo.

La Repubblica 11.10.12

"Il silenzio di fronte agli scandali", di Francesco Manacorda

Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza?
L’ultimo arresto di ieri per un’accusa – più Calabria che Baviera – di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali.
Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore.
Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili. Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.
Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica.
Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito – almeno fino a ieri sera – tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino.
La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese – ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini – riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.

La Stampa 11.10.12

"Il silenzio di fronte agli scandali", di Francesco Manacorda

Ma che fine ha fatto a Milano e dintorni la tanto decantata «società civile»? Perché di fronte all’ondata di malcostume e di malaffare che si solleva dai palazzi della politica locale tacciono anche le voci di quella che un tempo era una borghesia imprenditoriale e delle professioni che guardava idealmente a Nord dei propri confini e alla quale buona parte d’Italia guardava a sua volta con non poche speranza?
L’ultimo arresto di ieri per un’accusa – più Calabria che Baviera – di voto di scambio, con tanto di tariffario delle preferenze veicolate dalla ’ndrangheta, si aggiunge a scandali seri e grotteschi (vedi alla voce Nicole Minetti) e certifica l’ennesimo colpo al potere di Roberto Formigoni. Cinque assessori delle sue giunte arrestati in otto anni, rendono sempre più debole la linea difensiva del presidente della Lombardia, che derubrica d’abitudine ogni inciampo della sua squadra a responsabilità personali. La condanna a dieci anni di reclusione appena inflitta al sodale Pierangelo Daccò per la spoliazione del San Raffaele potrebbe traslare sul piano politico responsabilità penali.
Il bel record di quattordici consiglieri regionali indagati a vario titolo su un totale di ottanta allarga il discredito anche al di fuori dello schieramento del governatore.
Ma mentre la lunghissima stagione del formigonismo mostra segnali inequivocabili della sua fine, quel che colpisce è proprio il silenzio che circonda la parabola di un sistema di potere. Quelle stesse categorie che più di tutte le altre dovrebbero essere colpite e ferite da quello che rivelano le inchieste giudiziarie, non foss’altro perché il rapporto inquinato tra affari e politica mina alla base ogni prospettiva di leale concorrenza e distorce in modo definitivo il mercato, non hanno invece reazioni apprezzabili. Del resto appare quasi impossibile trovare oggi nella capitale economica d’Italia, poteri «forti» che siano in grado di confrontarsi con il sistema costruito da Formigoni nei tre lustri e mezzo di sua permanenza al Pirellone. Le grandi banche, piegate prima sotto il peso della crisi finanziaria e adesso anche sotto quello di una congiuntura economica che affonda la lama nei loro bilanci, sono tutte concentrate verso azioni di risanamento interne. Quel che resta del capitalismo manifatturiero e dei suoi addentellati finanziari appare impegnato in battaglie talvolta feroci che scardinano il vecchio assetto dei patti di sindacato e si rivelano spesso come lotte per la sopravvivenza.
Se dalla grande impresa si passa a quel popolo di professionisti e partite Iva che dovrebbe costruire parte integrante della borghesia, il discorso cambia poco. Ripiegati su se stessi anche per la necessità di far fronte alla crisi economica, i ceti professionali non trovano del resto un’offerta politica che intercetti la loro domanda e affondano anzi nella grande palude dell’antipolitica.
Pesa probabilmente anche la difficoltà a fare i conti con un insuccesso collettivo: ancora pochi anni fa il mondo delle imprese offriva aperture di credito forti al governo regionale lombardo, come dimostra lo sterminato elenco di industriali e finanzieri che aderì al Comitato strategico per la competitività istituito proprio da Formigoni. E chi, come la Lega, ambiva a dar voce proprio ai ceti produttivi del Nord ha preferito – almeno fino a ieri sera – tirare a campare nel governo della Lombardia, stretta fra tatticismi elettorali e strategie politiche di incerto destino.
La degenerazione all’ombra del Pirellone, sulla quale pesano anche gli allarmi della Procura milanese – ripetuti ancora ieri da Ilda Boccassini – riguardo alle infiltrazioni della criminalità organizzata nel mondo politico ed economico lombardo, merita però una risposta rapida. Chi produce e lavora nell’area più avanzata del Paese e vede arretrare vistosamente il sistema di governo ha il dovere, forse prima ancora del diritto, di ritrovare la voce e farsi sentire.
La Stampa 11.10.12

"La crisi dei sistemi formativi. Fine del discorso educativo?", di Antonio Valentino

Da qualche decennio si parla della crisi dei sistemi formativi, scatenata soprattutto dalle grandi scoperte scientiche del secolo scorso che hanno rivoluzionato la mappa dei saperi così come si era andata sviluppando e consolidando nei secoli precedenti. La rivoluzione telematica degli ultimi decenni, con web e internet, e la globalizzazione del pianeta, ha addirittura sconvolto il senso, il valore e la natura del sapere e quindi dell’istruzione e della formazione. E conseguentemente dei sistemi formativi del mondo occidentale e asiatico e ha messo in crisi lo stesso discorso educativo.

La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni, a livello planetario, ha fatto addirittura parlare di una possibile fine dei sistemi formativi.

Gli studi e le ricerche a livello internazionale ci parlano di disinvestimenti un po’ in tutti i paesi (ovviamente, non mancano le eccezioni, ma il trend è abbastanza generizzato) nel settore dell’istruzione e della formazione e della tendenza a privilegiare apprendimenti funzionali essenzialmente allo sviluppo economico degli stati.

Per quanto riguarda il nostro paese, sono sotto gli occhi (e non solo) di tutti, i tagli, scriteriati e fortissimi da diversi anni, ma soprattutto devastanti in questi ultimi, che si abbattono sulla nostra scuola e che pesano anche sulla formazione del personale, ridotta a zero, sulla condizione allarmente di tanti edifici scolastici, sullo stato spesso pietoso dei laboratori.

Ma da noi, si sa, le cose sono sempre più complicate. E le rilevazioni internazionali, per quanto variegate, ce ne danno riscontro, regalandoci sempre gli ultimi posti quanto a risultati degli apprendimenti e a funzionamento complessivo.

I dati pubblicati recentemente per la rassegna Education at a glance – relativi all’Italia – sono molto significativi – e allarmanti – per quanto attiene gli investimenti per allievo.

Ma, come dicevo, la forte diminuzione di investimenti per l’istruzione, si rileva in quasi tutto l’Occidente capitalistico. Cito per tutte, le ricerche di Nussbaum in “Non per profitto” (2012, Il Mulino editore).

Ma quello che la studiosa rileva in misura preoccupante è la tendenza sempre più diffusa a finalizzare la formazione dei nostri allievi allo sviluppo economico e a mettere in secondo piano, se non in terzo e quarto, lo sviluppo culturale e la crescita umana dello studente. E questo – constata e documenta la Nussbaum – soprattutto attraverso la diminuzione degli investimenti nell’aria umanistica (comprensiva delle arti) e storico-sociale.

D’altra parte, se noi guardiamo in casa nostra, non possiamo non rilevare la grande pressione e influenza che esercitano “i poteri forti” del nostro paese per una istruzione prevalentemente orientata al ‘cittadino produttore’. D’altra parte, l’uscita recente sulla scuola del presidente Monti – che pure è persona stimabile e benemerita – (“La scolarità diffusa è il un passo necessario per ‘togliere il freno’ allo sviluppo dell’imprenditorialità e contribuire al diffondersi di un’offerta di lavoro più qualificato”), incontestabile in sé, è segnale non trascurabile di una sensibilità politica – con conseguenti obiettivi in fatto di formazione – che di interrogativi ne pongono. (A giudicare anche solo dalla sua ultima uscita, neanche Profumo – che pensa di sostituire le scuole con “centri digitali” e i docenti con i computer – non scherza).

Comunque, il grosso rischio che sembra si corra attualmente riguarda non tanto la fine del discorso educativo quanto un suo scivolamento verso logiche di profitto proprie della cultura neoliberistica imperante e – aspetto ancora più allarmante – verso forme di più accentuata diseguaglianza (dislivello) tra chi moltiplica le sue possibilità/opportunità di istruzione e formazione e chi non riesce neanche a pensarle. Con ricadute negative sul futuro del pianeta: il patrimonio collettivo delle intelligenze sarebbe fdestinato a perdere le potenzialità legate allo sviluppo culturale di quanti oggi non possono neanche alfabetizzarsi.

I cambiamenti in atto: tendenze

Le ricerche e le analisi della Nussbaum e di Amartha Sen, ma anche gli studi e le riflessioni di Morin e Augè – (per l’Italia mi limito ai nomi di Ceruti e Bocchi, autori per Cortina editore, di Educazione e Globalizzazione – 2004) – sono ulteriore e qualificata conferma di una percezione diffusa e motivata – al riguardo – da una pluralità di fatti e situazioni a livello planetario.

Il messaggio che viene dagli studi e dalle riflessioni più accreditati del mondo della cultura e dell’educazione è soprattutto chiaro in questa citazione da Marc Augè:

“Se non si compiono cambiamenti rivoluzionari nel campo dell’istruzione, c’è il rischio che l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala più grande la diseguaglianza delle condizioni economiche. L’istruzione è la prima delle priorità”. (in Che fine ha fatto il futuro, Eleuthera 2011)

Oggi, parlando in termini globali, un’altra tendenza – che ovviamente non è un capitolo a sé – si avverte sempre più chiaramente. È ancora Augè a richiamarla.

“…il patrimonio filosofico dell’umanità sembra in parte smarrito e un ripiegamento spesso esasperato verso forme religiose più o meno logore e intolleranti, sostenuto dalla violenza, dall’ingiustizia e da condizioni di diseguaglianza, sta prendendo il posto del pensiero per una parte considereve dell’umanità”.

Gli sconvolgimenti del mondo arabo, a seguito del film blasfemo su Maometto, potrebbero esserne un indizio importante.

Questa non è una novità nella storia dell’uomo. Ma oggi questa percezione si avverte come una minaccia forte che porta in primo piano questioni e problemi che riguardano il nostro presente e il nostro futuro.

Rischi e alternative

Penso si possa dire (con gli studiosi già sopra citati) che chi tende ad assecondare la prima linea di tendenza (una istruzione funzionale allo sviluppo economico) – e sono soprattutto i grandi gruppi di potere a livello intenazionale – punta a gestire una sorta di ritirata dei sistemi formativi più consolidati in spazi circoscritti e controllabili. È attraverso spazi siffatti che si tende ad assicurare un nucleo di contenuti di base comuni su cui ciascuno – se ha possibilità e opportunità – costruisce il proprio percorso e la propria individualità.

Il paradosso che si delinea: niente socializzazione ed educazione ad cittadinanza estesa, quindi, nell’epoca della globalizzazione, ma solo trasmissione di competenze ben definibili, funzionali allo sviluppo del Prodotto Interno Lordo dei singoli Paesi: l’ormai famosissimo PIL, visto come indicatore di uno sviluppo nazionale tutto materiale, che guarda agli individui come semplici consumatori e non come persone e cittadini; una sorta di totem dell’intero mondo dell’economia e della finanza (e quindi di gran parte della politica che conta) che tende a porsi come unica e valida rappresentazione della qualità della vita di uno Stato.

Sappiamo quale ne è il pensiero sotteso: la crescita economica porterà automaticamente tutto il resto. Senza chiarire se prima o dopo la fine del mondo. Praticamente, “le magnifiche sorti e progressive” ironicamente profetizzate da Leopardi.

Paradigmatici i titoli degli ultimi due libri della già citata Nussbaum: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” e “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL”.

È nota la tesi: alla “dittatura del PIL” va contrapposto il paradigma dello sviluppo umano (per il quale sono importanti le opportunità e le capacità che ogni persona ha in ambiti chiave della vita) da assumere come alternativa da costruire al modello di crescita di tipo neoliberista.

A questa si lega la visione – che è propria di studiosi come Amartha Sen – che tende a guardare piuttosto alle capacità da sviluppare e di cui ha bisogno una democrazia matura.

Quale parte, al riguardo, è chiamata a giocare il mondo della cultura e, quindi, dell’istruzione e della ricerca? Quali nuove frontiere vanno individuate per ridare senso al discorso educativo e scongiurarne la fine?

Comunque di una cosa si è sempre più consapevoli: le questioni non possono più essere affrontate con l’ottica della pezza, ma della soluzione che guarda al futuro.

Non so chi lo dicesse. Ma penso che abbia ragioni da vendere.

O no?

da ScuolaOggi.org