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"La crisi dei sistemi formativi. Fine del discorso educativo?", di Antonio Valentino

Da qualche decennio si parla della crisi dei sistemi formativi, scatenata soprattutto dalle grandi scoperte scientiche del secolo scorso che hanno rivoluzionato la mappa dei saperi così come si era andata sviluppando e consolidando nei secoli precedenti. La rivoluzione telematica degli ultimi decenni, con web e internet, e la globalizzazione del pianeta, ha addirittura sconvolto il senso, il valore e la natura del sapere e quindi dell’istruzione e della formazione. E conseguentemente dei sistemi formativi del mondo occidentale e asiatico e ha messo in crisi lo stesso discorso educativo.
La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni, a livello planetario, ha fatto addirittura parlare di una possibile fine dei sistemi formativi.
Gli studi e le ricerche a livello internazionale ci parlano di disinvestimenti un po’ in tutti i paesi (ovviamente, non mancano le eccezioni, ma il trend è abbastanza generizzato) nel settore dell’istruzione e della formazione e della tendenza a privilegiare apprendimenti funzionali essenzialmente allo sviluppo economico degli stati.
Per quanto riguarda il nostro paese, sono sotto gli occhi (e non solo) di tutti, i tagli, scriteriati e fortissimi da diversi anni, ma soprattutto devastanti in questi ultimi, che si abbattono sulla nostra scuola e che pesano anche sulla formazione del personale, ridotta a zero, sulla condizione allarmente di tanti edifici scolastici, sullo stato spesso pietoso dei laboratori.
Ma da noi, si sa, le cose sono sempre più complicate. E le rilevazioni internazionali, per quanto variegate, ce ne danno riscontro, regalandoci sempre gli ultimi posti quanto a risultati degli apprendimenti e a funzionamento complessivo.
I dati pubblicati recentemente per la rassegna Education at a glance – relativi all’Italia – sono molto significativi – e allarmanti – per quanto attiene gli investimenti per allievo.
Ma, come dicevo, la forte diminuzione di investimenti per l’istruzione, si rileva in quasi tutto l’Occidente capitalistico. Cito per tutte, le ricerche di Nussbaum in “Non per profitto” (2012, Il Mulino editore).
Ma quello che la studiosa rileva in misura preoccupante è la tendenza sempre più diffusa a finalizzare la formazione dei nostri allievi allo sviluppo economico e a mettere in secondo piano, se non in terzo e quarto, lo sviluppo culturale e la crescita umana dello studente. E questo – constata e documenta la Nussbaum – soprattutto attraverso la diminuzione degli investimenti nell’aria umanistica (comprensiva delle arti) e storico-sociale.
D’altra parte, se noi guardiamo in casa nostra, non possiamo non rilevare la grande pressione e influenza che esercitano “i poteri forti” del nostro paese per una istruzione prevalentemente orientata al ‘cittadino produttore’. D’altra parte, l’uscita recente sulla scuola del presidente Monti – che pure è persona stimabile e benemerita – (“La scolarità diffusa è il un passo necessario per ‘togliere il freno’ allo sviluppo dell’imprenditorialità e contribuire al diffondersi di un’offerta di lavoro più qualificato”), incontestabile in sé, è segnale non trascurabile di una sensibilità politica – con conseguenti obiettivi in fatto di formazione – che di interrogativi ne pongono. (A giudicare anche solo dalla sua ultima uscita, neanche Profumo – che pensa di sostituire le scuole con “centri digitali” e i docenti con i computer – non scherza).
Comunque, il grosso rischio che sembra si corra attualmente riguarda non tanto la fine del discorso educativo quanto un suo scivolamento verso logiche di profitto proprie della cultura neoliberistica imperante e – aspetto ancora più allarmante – verso forme di più accentuata diseguaglianza (dislivello) tra chi moltiplica le sue possibilità/opportunità di istruzione e formazione e chi non riesce neanche a pensarle. Con ricadute negative sul futuro del pianeta: il patrimonio collettivo delle intelligenze sarebbe fdestinato a perdere le potenzialità legate allo sviluppo culturale di quanti oggi non possono neanche alfabetizzarsi.
I cambiamenti in atto: tendenze
Le ricerche e le analisi della Nussbaum e di Amartha Sen, ma anche gli studi e le riflessioni di Morin e Augè – (per l’Italia mi limito ai nomi di Ceruti e Bocchi, autori per Cortina editore, di Educazione e Globalizzazione – 2004) – sono ulteriore e qualificata conferma di una percezione diffusa e motivata – al riguardo – da una pluralità di fatti e situazioni a livello planetario.
Il messaggio che viene dagli studi e dalle riflessioni più accreditati del mondo della cultura e dell’educazione è soprattutto chiaro in questa citazione da Marc Augè:
“Se non si compiono cambiamenti rivoluzionari nel campo dell’istruzione, c’è il rischio che l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala più grande la diseguaglianza delle condizioni economiche. L’istruzione è la prima delle priorità”. (in Che fine ha fatto il futuro, Eleuthera 2011)
Oggi, parlando in termini globali, un’altra tendenza – che ovviamente non è un capitolo a sé – si avverte sempre più chiaramente. È ancora Augè a richiamarla.
“…il patrimonio filosofico dell’umanità sembra in parte smarrito e un ripiegamento spesso esasperato verso forme religiose più o meno logore e intolleranti, sostenuto dalla violenza, dall’ingiustizia e da condizioni di diseguaglianza, sta prendendo il posto del pensiero per una parte considereve dell’umanità”.
Gli sconvolgimenti del mondo arabo, a seguito del film blasfemo su Maometto, potrebbero esserne un indizio importante.
Questa non è una novità nella storia dell’uomo. Ma oggi questa percezione si avverte come una minaccia forte che porta in primo piano questioni e problemi che riguardano il nostro presente e il nostro futuro.
Rischi e alternative
Penso si possa dire (con gli studiosi già sopra citati) che chi tende ad assecondare la prima linea di tendenza (una istruzione funzionale allo sviluppo economico) – e sono soprattutto i grandi gruppi di potere a livello intenazionale – punta a gestire una sorta di ritirata dei sistemi formativi più consolidati in spazi circoscritti e controllabili. È attraverso spazi siffatti che si tende ad assicurare un nucleo di contenuti di base comuni su cui ciascuno – se ha possibilità e opportunità – costruisce il proprio percorso e la propria individualità.
Il paradosso che si delinea: niente socializzazione ed educazione ad cittadinanza estesa, quindi, nell’epoca della globalizzazione, ma solo trasmissione di competenze ben definibili, funzionali allo sviluppo del Prodotto Interno Lordo dei singoli Paesi: l’ormai famosissimo PIL, visto come indicatore di uno sviluppo nazionale tutto materiale, che guarda agli individui come semplici consumatori e non come persone e cittadini; una sorta di totem dell’intero mondo dell’economia e della finanza (e quindi di gran parte della politica che conta) che tende a porsi come unica e valida rappresentazione della qualità della vita di uno Stato.
Sappiamo quale ne è il pensiero sotteso: la crescita economica porterà automaticamente tutto il resto. Senza chiarire se prima o dopo la fine del mondo. Praticamente, “le magnifiche sorti e progressive” ironicamente profetizzate da Leopardi.
Paradigmatici i titoli degli ultimi due libri della già citata Nussbaum: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” e “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL”.
È nota la tesi: alla “dittatura del PIL” va contrapposto il paradigma dello sviluppo umano (per il quale sono importanti le opportunità e le capacità che ogni persona ha in ambiti chiave della vita) da assumere come alternativa da costruire al modello di crescita di tipo neoliberista.
A questa si lega la visione – che è propria di studiosi come Amartha Sen – che tende a guardare piuttosto alle capacità da sviluppare e di cui ha bisogno una democrazia matura.
Quale parte, al riguardo, è chiamata a giocare il mondo della cultura e, quindi, dell’istruzione e della ricerca? Quali nuove frontiere vanno individuate per ridare senso al discorso educativo e scongiurarne la fine?
Comunque di una cosa si è sempre più consapevoli: le questioni non possono più essere affrontate con l’ottica della pezza, ma della soluzione che guarda al futuro.
Non so chi lo dicesse. Ma penso che abbia ragioni da vendere.
O no?
da ScuolaOggi.org

"Reggio Calabria i padroni della città", di Attilio Bolzoni

Chi voleva ancora i «boia chi molla» nelle piazze? Chi chiedeva i moti, le barricate come più di quarant’anni fa per lavare l’offesa di mafiosità? Erano solo loro, erano solo quelli che si abbuffavano con i boss. Pronti per capeggiare un’altra sommossa, disordini, tumulti, fuochi. Erano già tutti appostati per l’agguato. Ma adesso che è tutto finito, adesso che Roma ha spazzato via il governo di Reggio, quaggiù è calata una quiete irreale, la città è muta, forse anche più spaventata di prima. È la mancata rivolta di ‘Ndrangheta City, è l’insurrezione che non c’è a Reggio Calabria. Piazza Italia, otto di sera. Il palazzo del Comune è tutto illuminato. Ma è deserto. Dentro non c’è nessuno. L’agente dei vigili urbani Ida Lazzaro piantona l’edificio, a meno di cinquanta metri c’è il palazzo del governo, quella prefettura che è «entrata» con i suoi funzionari a rovistare nelle stanze dove quasi tutto era proprietà di figli e nipoti di quelli che una volta chiamavano «mammasantissima», mafia di seconda e di terza generazione che si è impadronita di imprese, negozi, studi tecnici, terreni edificabili. E anche del Comune.
«Oggi non ho visto neanche un assessore e neanche un consigliere prendere un caffè, oggi quelli si sono persi», racconta il cassiere del Bart, il bar alla moda su corso Garibaldi e a due passi dal Comune. Piazza Italia, i resti di una villa romana e le macerie della politica delle contiguità e delle trame, quella aveva inseguito il sogno di trasformare in assedio la Reggio umiliata nel 2012 nella Reggio del luglio 1970, assalti ai treni e sollevazione di popolo per insorgere sempre contro Roma che ha «calpestato la dignità dei reggini». Ma questa volta «i boia chi molla» sono rimasti soli. Troppo pericolosamente vicini ai boss per avere apertamente come complici i cittadini. Troppo poco vicini ai boss che contano veramente — dice qualcuno in questa città dove mai nulla è quello che appare — per avere le masse intorno. ’Ndrangheta City oggi è morta. Domani chissà. Per diciotto mesi starà lì con il fiato sospeso a vedere quel che accadrà. Poi sarà un’altra storia o sempre la stessa storia. Questa è Reggio e questa è la ’ndrangheta. Ma per il momento qui è tutto calmo, tutto silenzioso, tutto avvinghiato nella sciroccata che ha stordito centottantamila calabresi che da un giorno e una notte non hanno più un sindaco e non hanno più il loro Comune.
Ci hanno provato in tutti i modi a fermare i commissari prefettizi. Ci hanno provato in tutti i modi ad accendere la miccia. «Ma non c’erano le condizioni, allora, nel 1970, avevano scippato alla città di Reggio il capoluogo di regione, si aspettavano posti di lavoro, oggi lo sanno tutti che cosa c’era dentro quel comune, la città non poteva seguirli», spiega Tonino Perna, sociologo, scrittore, una delle voci storiche dell’altra Reggio. Ci hanno provato in tutti i modi a non farsi sciogliere quel Comune dove assessori e consiglieri erano legati a doppio filo a quei galantuomini che avevano allungato le mani sulla città, che l’avevano conquistata con il terrore e con il denaro. Ci hanno provato zitti zitti, prima quando a Roma dovevano ancora decidere sul destino di Reggio e dalla Calabria erano partiti gli emissari di ’Ndrangheta City per fare pressioni su qualcuno, per «convincere» Roma che Reggio non meritava una sorte così infame. Quando hanno capito che su, al ministero dell’Interno, avevano già scoperto cos’era Reggio e cos’era il suo Comune, sono cominciate le manovre in casa.
L’occasione l’ha offerta Giuseppe Bombino, un docente di Agraria che ha pensato di far affiggere sui muri della città un manifesto contro «la campagna diffamatoria » alla vigilia dell’annunciato scioglimento del Comune. Tutti i maggiorenti di Reggio non aspettavano altro. Subito hanno firmato in 500. Avvocati. Notai. Medici. Commercialisti. Tutta la città «in guanti gialli» che si è abbeverata per anni al «sistema Reggio», consulenti di municipalizzate, professionisti con incarichi perenni, i favoriti eterni di corte. Fra i firmatari anche i due legali storici del governatore Peppe Scopelliti — Nico D’Ascola e suo nipote Aldo Labbate — l’ex sindaco che ha lasciato in Comune un buco di 180 milioni di euro, il «modernizzatore » che con i suoi giochi di prestigio ha provato ad incantare i calabresi e poi ha infilato un bel po’ dei suoi uomini nel nuovo consiglio comunale e nella nuova giunta, quella che non c’è più. Il trucco del «Manifesto per Reggio» ha fatto scivolare nella trappola anche qualche associazione antimafia per una notte, poi l’adesione è stata ritirata. Quando i nomi dei 500 sono diventati pubblici nessun altro, a Reggio, ha messo la sua firma su quel documento.
C’è una città nella città che non li sopporta più i mafiosi. Falliti gli avvicinamenti romani, fallita la chiamata alle armi «della gente», i ras di Reggio hanno giocato la carta degli studenti. Li hanno spinti a scendere per le strade giovedì scorso, una settimana fa, quando il consiglio dei ministri si doveva già riunire per Reggio. La rivolta studentesca non c’è mai stata, una manifestazione flop, neanche quaranta ragazzi in piazza, tutti militanti della destra. Così è naufragata anche la protesta dei ragazzi. E così, nell’indifferenza, giorno dopo giorno Reggio è sprofondata nello strapiombo. Non agitano forconi neanche quei quattrocento operai e impiegati della famigerata Multiservizi, la società mista infiltrata dai Tegano e chiusa dopo un certificato antimafia negato. Reggio non è più oggi neanche la Palermo dei «viva Ciancimino e viva la mafia», con gli edili che nei primi anni ‘80 sfilavano per le strade con cartelli con su scritto «con l’antimafia non si mangia».
Sono rimasti soli quegli altri. «Se avete coraggio scendete in piazza con noi», gridava qualche giorno fa il governatore Scopelliti per difendere «l’orgoglio reggino » contro «i poteri forti» e i giornalisti. «Se avete coraggio», ripeteva il governatore.
Che cosa succederà ora in questa Reggio intontita dallo scioglimento del suo Comune? Sono stati cacciati gli assessori amici degli amici e i consiglieri parenti di questo o di quell’altro boss, ma che fine faranno quella quarantina di funzionari e di dirigenti del Comune che da una vita resistono dentro Palazzo San Giorgio e rappresentano più di chiunque altro la «struttura» del potere reggino, i referenti inamovibili di ’Ndrangheta City nel palazzo della politica. Staranno sempre lì a garantire la continuità a chi comanda? Staranno sempre lì al servizio di quella «supercosca » — così l’ha definita la procura di Reggio — che controlla ogni attività e appalto ai piedi dell’Aspromonte?

Nella provincia delle 157 cosche disseminate fra la città capoluogo e la costa ionica e quella tirrenica, nella provincia dove certi candidati al parlamento e alla regione baciano ancora le mani ai vecchi boss per avere la loro benedizione, che cosa accadrà dopo questo scioglimento del Comune che sputtana una classe politica contigua ma che non coinvolge ancora tutta quella ragnatela che soffoca la città? Una borghesia ricca, professionisti, incensurati, qualche spia. Tutti al servizio di questo o quel-l’altro capo della ’Ndrangheta, tutti a fare il doppio gioco, tutti a passare notizie riservate o a organizzare falsi attentati anche nel giorno della visita in Calabria del presidente Napolitano. È la specialità di Reggio. Il gioco degli specchi.
E che fine faranno tutti i soldi della ’Ndrangheta. Quelli dei Piromalli della Piana di Gioia Tauro e di quegli altri che si chiamano Gallico e Alvaro, Morabito e Pelle, Aquino e Commisso? Dopo lo scioglimento del Comune c’è già chi si sta preparando al dopo. Quando magari nessuno chiamerà più ’Ndrangheta City la città di Reggio. Chi sono? Sempre loro: i De Stefano, i Tegano, i Libri, i Crucitti, i Condello. Già stanno cercando altri uomini di paglia, già pensano a nuovi affari. Vicino e lontano.
Per troppo tempo l’Italia ha dimenticato la Calabria e la sua mafia. Oggi quei boss si sentono a casa non soltanto ad Archi o in qualche villaggio sperduto della Locride, si sentono a casa loro a Milano, in Piemonte, in Liguria, nell’agro pontino, a Roma, in Canada e in Australia. Quando i Pelle- Vottari o i Nirta-Strangio emigrano nella Duisburg dei morti di Ferragosto si sentono così a casa loro che là, in Germania, vanno ad abitare i primi sulla riva destra del Reno e gli altri su quella sinistra. Come erano cresciuti nella fiumara aspromontana.

La Repubblica 11.10.12

"Reggio Calabria i padroni della città", di Attilio Bolzoni

Chi voleva ancora i «boia chi molla» nelle piazze? Chi chiedeva i moti, le barricate come più di quarant’anni fa per lavare l’offesa di mafiosità? Erano solo loro, erano solo quelli che si abbuffavano con i boss. Pronti per capeggiare un’altra sommossa, disordini, tumulti, fuochi. Erano già tutti appostati per l’agguato. Ma adesso che è tutto finito, adesso che Roma ha spazzato via il governo di Reggio, quaggiù è calata una quiete irreale, la città è muta, forse anche più spaventata di prima. È la mancata rivolta di ‘Ndrangheta City, è l’insurrezione che non c’è a Reggio Calabria. Piazza Italia, otto di sera. Il palazzo del Comune è tutto illuminato. Ma è deserto. Dentro non c’è nessuno. L’agente dei vigili urbani Ida Lazzaro piantona l’edificio, a meno di cinquanta metri c’è il palazzo del governo, quella prefettura che è «entrata» con i suoi funzionari a rovistare nelle stanze dove quasi tutto era proprietà di figli e nipoti di quelli che una volta chiamavano «mammasantissima», mafia di seconda e di terza generazione che si è impadronita di imprese, negozi, studi tecnici, terreni edificabili. E anche del Comune.
«Oggi non ho visto neanche un assessore e neanche un consigliere prendere un caffè, oggi quelli si sono persi», racconta il cassiere del Bart, il bar alla moda su corso Garibaldi e a due passi dal Comune. Piazza Italia, i resti di una villa romana e le macerie della politica delle contiguità e delle trame, quella aveva inseguito il sogno di trasformare in assedio la Reggio umiliata nel 2012 nella Reggio del luglio 1970, assalti ai treni e sollevazione di popolo per insorgere sempre contro Roma che ha «calpestato la dignità dei reggini». Ma questa volta «i boia chi molla» sono rimasti soli. Troppo pericolosamente vicini ai boss per avere apertamente come complici i cittadini. Troppo poco vicini ai boss che contano veramente — dice qualcuno in questa città dove mai nulla è quello che appare — per avere le masse intorno. ’Ndrangheta City oggi è morta. Domani chissà. Per diciotto mesi starà lì con il fiato sospeso a vedere quel che accadrà. Poi sarà un’altra storia o sempre la stessa storia. Questa è Reggio e questa è la ’ndrangheta. Ma per il momento qui è tutto calmo, tutto silenzioso, tutto avvinghiato nella sciroccata che ha stordito centottantamila calabresi che da un giorno e una notte non hanno più un sindaco e non hanno più il loro Comune.
Ci hanno provato in tutti i modi a fermare i commissari prefettizi. Ci hanno provato in tutti i modi ad accendere la miccia. «Ma non c’erano le condizioni, allora, nel 1970, avevano scippato alla città di Reggio il capoluogo di regione, si aspettavano posti di lavoro, oggi lo sanno tutti che cosa c’era dentro quel comune, la città non poteva seguirli», spiega Tonino Perna, sociologo, scrittore, una delle voci storiche dell’altra Reggio. Ci hanno provato in tutti i modi a non farsi sciogliere quel Comune dove assessori e consiglieri erano legati a doppio filo a quei galantuomini che avevano allungato le mani sulla città, che l’avevano conquistata con il terrore e con il denaro. Ci hanno provato zitti zitti, prima quando a Roma dovevano ancora decidere sul destino di Reggio e dalla Calabria erano partiti gli emissari di ’Ndrangheta City per fare pressioni su qualcuno, per «convincere» Roma che Reggio non meritava una sorte così infame. Quando hanno capito che su, al ministero dell’Interno, avevano già scoperto cos’era Reggio e cos’era il suo Comune, sono cominciate le manovre in casa.
L’occasione l’ha offerta Giuseppe Bombino, un docente di Agraria che ha pensato di far affiggere sui muri della città un manifesto contro «la campagna diffamatoria » alla vigilia dell’annunciato scioglimento del Comune. Tutti i maggiorenti di Reggio non aspettavano altro. Subito hanno firmato in 500. Avvocati. Notai. Medici. Commercialisti. Tutta la città «in guanti gialli» che si è abbeverata per anni al «sistema Reggio», consulenti di municipalizzate, professionisti con incarichi perenni, i favoriti eterni di corte. Fra i firmatari anche i due legali storici del governatore Peppe Scopelliti — Nico D’Ascola e suo nipote Aldo Labbate — l’ex sindaco che ha lasciato in Comune un buco di 180 milioni di euro, il «modernizzatore » che con i suoi giochi di prestigio ha provato ad incantare i calabresi e poi ha infilato un bel po’ dei suoi uomini nel nuovo consiglio comunale e nella nuova giunta, quella che non c’è più. Il trucco del «Manifesto per Reggio» ha fatto scivolare nella trappola anche qualche associazione antimafia per una notte, poi l’adesione è stata ritirata. Quando i nomi dei 500 sono diventati pubblici nessun altro, a Reggio, ha messo la sua firma su quel documento.
C’è una città nella città che non li sopporta più i mafiosi. Falliti gli avvicinamenti romani, fallita la chiamata alle armi «della gente», i ras di Reggio hanno giocato la carta degli studenti. Li hanno spinti a scendere per le strade giovedì scorso, una settimana fa, quando il consiglio dei ministri si doveva già riunire per Reggio. La rivolta studentesca non c’è mai stata, una manifestazione flop, neanche quaranta ragazzi in piazza, tutti militanti della destra. Così è naufragata anche la protesta dei ragazzi. E così, nell’indifferenza, giorno dopo giorno Reggio è sprofondata nello strapiombo. Non agitano forconi neanche quei quattrocento operai e impiegati della famigerata Multiservizi, la società mista infiltrata dai Tegano e chiusa dopo un certificato antimafia negato. Reggio non è più oggi neanche la Palermo dei «viva Ciancimino e viva la mafia», con gli edili che nei primi anni ‘80 sfilavano per le strade con cartelli con su scritto «con l’antimafia non si mangia».
Sono rimasti soli quegli altri. «Se avete coraggio scendete in piazza con noi», gridava qualche giorno fa il governatore Scopelliti per difendere «l’orgoglio reggino » contro «i poteri forti» e i giornalisti. «Se avete coraggio», ripeteva il governatore.
Che cosa succederà ora in questa Reggio intontita dallo scioglimento del suo Comune? Sono stati cacciati gli assessori amici degli amici e i consiglieri parenti di questo o di quell’altro boss, ma che fine faranno quella quarantina di funzionari e di dirigenti del Comune che da una vita resistono dentro Palazzo San Giorgio e rappresentano più di chiunque altro la «struttura» del potere reggino, i referenti inamovibili di ’Ndrangheta City nel palazzo della politica. Staranno sempre lì a garantire la continuità a chi comanda? Staranno sempre lì al servizio di quella «supercosca » — così l’ha definita la procura di Reggio — che controlla ogni attività e appalto ai piedi dell’Aspromonte?
Nella provincia delle 157 cosche disseminate fra la città capoluogo e la costa ionica e quella tirrenica, nella provincia dove certi candidati al parlamento e alla regione baciano ancora le mani ai vecchi boss per avere la loro benedizione, che cosa accadrà dopo questo scioglimento del Comune che sputtana una classe politica contigua ma che non coinvolge ancora tutta quella ragnatela che soffoca la città? Una borghesia ricca, professionisti, incensurati, qualche spia. Tutti al servizio di questo o quel-l’altro capo della ’Ndrangheta, tutti a fare il doppio gioco, tutti a passare notizie riservate o a organizzare falsi attentati anche nel giorno della visita in Calabria del presidente Napolitano. È la specialità di Reggio. Il gioco degli specchi.
E che fine faranno tutti i soldi della ’Ndrangheta. Quelli dei Piromalli della Piana di Gioia Tauro e di quegli altri che si chiamano Gallico e Alvaro, Morabito e Pelle, Aquino e Commisso? Dopo lo scioglimento del Comune c’è già chi si sta preparando al dopo. Quando magari nessuno chiamerà più ’Ndrangheta City la città di Reggio. Chi sono? Sempre loro: i De Stefano, i Tegano, i Libri, i Crucitti, i Condello. Già stanno cercando altri uomini di paglia, già pensano a nuovi affari. Vicino e lontano.
Per troppo tempo l’Italia ha dimenticato la Calabria e la sua mafia. Oggi quei boss si sentono a casa non soltanto ad Archi o in qualche villaggio sperduto della Locride, si sentono a casa loro a Milano, in Piemonte, in Liguria, nell’agro pontino, a Roma, in Canada e in Australia. Quando i Pelle- Vottari o i Nirta-Strangio emigrano nella Duisburg dei morti di Ferragosto si sentono così a casa loro che là, in Germania, vanno ad abitare i primi sulla riva destra del Reno e gli altri su quella sinistra. Come erano cresciuti nella fiumara aspromontana.
La Repubblica 11.10.12

"Ancora bastonate agli insegnanti", di Francesca Puglisi

Premesso che ad oggi non abbiamo ancora fogli scritti su cui ragione per condividere le scelte del governo in tema di Legge di Stabilità e già non ci sembra un bel metodo abbiamo molto da temere per la
scuola dalle voci che arrivano alle nostre orecchie. Il ministro Profumo racconterà che è una semplice «reingegnerizzazione dell’orario di lavoro» e gli editorialisti benpensanti diranno che era ora di mettere mano all’orario degli insegnanti: «Questi fannulloni scriverà qualcuno usando pressappoco le parole di Berlusconi stanno due mesi in vacanza, cosa che nessun altro lavoratore si può permettere». La verità e i numeri, invece, parlano di un nuovo taglio di circa 6.500 posti di lavoro e 183 milioni di euro nella scuola, ottenuti facendo lavorare più ore gli insegnanti di sostegno delle scuole secondarie e facendo utilizzare durante l’anno scolastico le ore estive a disposizione degli
insegnanti. A contratto invariato. Ovviamente non saranno offerte più ore di sostegno agli studenti con disabilità, ma lo stesso insegnante dovrà seguire più studenti disabili, con una qualità che inevitabilmente rischia di abbassarsi. La situazione del sostegno in Italia, a differenza degli anni 90 quando il nostro Paese era considerato all’avanguardia, è in caduta libera e invece dell’integrazione e dell’inserimento scolastico, rischiamo di fare solo assistenza. Gli insegnanti italiani ricevono rispetto ai colleghi d’Europa lo stipendio più basso. Sono i docenti stessi a chiedere di poter fare a scuola quel lavoro ‘oscuro’, che nessuno oggi riconosce loro, di correzione dei compiti, di preparazione delle lezioni, di ricerca didattica. Vedendoselo conteggiato in busta paga. Serve un nuovo contratto nazionale, no un nuovo taglio di posti di lavoro nella scuola italiana.
Ancora una volta il Governo dei professori decide di proseguire con i tagli lineari di tremontiana memoria e di andare a far cassa sulla pelle viva della scuola. È grazie alla quotidiana generosità degli insegnanti che la scuola pubblica sta ancora in piedi. In tre anni, invece di reperire risorse con tobin tax e patrimoniale, l’86% del risparmio della spesa statale è stato prodotto tagliando l’istruzione e 132.000 posti di lavoro. Esattamente l’opposto di quel che ci raccomanda l’Unione Europea
che, nel documento strategico Europa 2020, per battere la crisi chiede ai Paesi membri di investire in una crescita intelligente ed inclusiva e all’Italia di aumentare il numero di laureati e di dimezzare il tasso della dispersione scolastica. Usando una metafora sgradevole tirata fuori di recente dal ministro Profumo a Genova, se «a questo Paese serve più bastone che carota», beh, possiamo dire che la scuola di carote ne ha sempre solo sentito parlare, ma in verità ha solo ricevuto tante bastonate. Ora siamo stanchi e diciamo basta. Se chi si è assunto l’onere di governare questa fase difficile del Paese, intende continuare a tagliare la scuola e a umiliare gli insegnanti invece di andare a scomodare chi non ha mai pagato il prezzo della crisi, chi non deve fare i conti per fare la spesa alla fine del mese, chi non rischia di non poter pagare le tasse universitarie ai figli, ce lo dica con chiarezza.
Perché allora è il tempo del coraggio e delle scelte di priorità che una politica democratica e progressista può tornare a fare.

L’Unità 11.10.12

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“Più ore di lavoro per i prof insegnanti pronti alla rivoltaPiù ore di lavoro per i prof insegnanti pronti alla rivolta”, di Alessia Camplone

Per il mondo della scuola sarebbe una rivoluzione. Gli orari degli insegnanti di medie e superiori potrebbero aumentare di un terzo in più a settimana, senza aumenti di stipendio. Da 18 fino anche a 24 ore. Un intervento che avrebbe pesanti conseguenze in particolare sui precari, per i quali resterebbero meno posti da supplente. A lanciare l’allarme è stato il sindacato, a proposito della legge di stabilità appena varata dal governo Monti. «Abbiamo saputo sostiene il segretario generale della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo che avrebbero intenzione di aumentare l’orario degli insegnanti. Un aumento di 4 o 6 ore che coinvolgerebbe anche gli insegnanti di sostegno». Il provvedimento potrebbe incidere sulle supplenze brevi, che verrebbero tagliate.
Probabilmente a questo si riferiva ieri Pierluigi Bersani quando si è scagliato contro le misure del governo in materia di scuola: «Temo di non sbagliarmi, ma sotto la parola complicata di ingegnerizzazione ci sono tagli di 6.300-6.400 posti di lavoro per gli insegnanti». I prof sono già esasperati per il blocco dei contratti, al quale si aggiunge quello degli scatti di anzianità fino al 2017. Sull’ipotesi di un aumento dell’orario di lavoro a costo zero il ministero non conferma e non smentisce. Il responsabile dell’Istruzione Francesco Profumo ieri mattina, riferendosi alla legge di stabilità, ha parlato di «un contributo di generosità» chiesto al mondo della scuola. Non ha dato altri particolari, aggiungendo però che «nella prossima fase contrattuale bisognerà pensare a modalità diverse». Un ulteriore riferimento del ministro è a un contributo di 182 milioni da parte della scuola che sarebbe stato rispettato «ma non con tagli diretti». Una dichiarazione articolata che potrebbe corrispondere ai timori del sindacato.
La questione diventerà un argomento in più per lo sciopero già indetto per domani dalla Flc Cgil. I lavoratori e gli studenti che aderiranno scenderanno in piazza in tutta Italia. Sono state proclamate 60 manifestazioni in contemporanea che coinvolgeranno anche le scuole non statali.
Come se non bastasse gli oltre 10 mila nuovi insegnanti immessi in ruolo il primo settembre scorso in questi giorni devono fare i conti con il mancato pagamento dello stipendio a quasi un mese e mezzo dall’assunzione. Secondo il sindacato dell’Anief, che ha mandato una diffida al ministero dell’Istruzione, ci sarebbe stato un intralcio burocratico. I contratti sarebbero stati inviati solo in forma cartacea alle ragionerie territoriali del Tesoro che «potrebbero impiegare mesi – sostiene l’Anief – prima di riuscire ad erogare gli stipendi agli interessati».

Il Messaggero 11.01.12

"Ancora bastonate agli insegnanti", di Francesca Puglisi

Premesso che ad oggi non abbiamo ancora fogli scritti su cui ragione per condividere le scelte del governo in tema di Legge di Stabilità e già non ci sembra un bel metodo abbiamo molto da temere per la
scuola dalle voci che arrivano alle nostre orecchie. Il ministro Profumo racconterà che è una semplice «reingegnerizzazione dell’orario di lavoro» e gli editorialisti benpensanti diranno che era ora di mettere mano all’orario degli insegnanti: «Questi fannulloni scriverà qualcuno usando pressappoco le parole di Berlusconi stanno due mesi in vacanza, cosa che nessun altro lavoratore si può permettere». La verità e i numeri, invece, parlano di un nuovo taglio di circa 6.500 posti di lavoro e 183 milioni di euro nella scuola, ottenuti facendo lavorare più ore gli insegnanti di sostegno delle scuole secondarie e facendo utilizzare durante l’anno scolastico le ore estive a disposizione degli
insegnanti. A contratto invariato. Ovviamente non saranno offerte più ore di sostegno agli studenti con disabilità, ma lo stesso insegnante dovrà seguire più studenti disabili, con una qualità che inevitabilmente rischia di abbassarsi. La situazione del sostegno in Italia, a differenza degli anni 90 quando il nostro Paese era considerato all’avanguardia, è in caduta libera e invece dell’integrazione e dell’inserimento scolastico, rischiamo di fare solo assistenza. Gli insegnanti italiani ricevono rispetto ai colleghi d’Europa lo stipendio più basso. Sono i docenti stessi a chiedere di poter fare a scuola quel lavoro ‘oscuro’, che nessuno oggi riconosce loro, di correzione dei compiti, di preparazione delle lezioni, di ricerca didattica. Vedendoselo conteggiato in busta paga. Serve un nuovo contratto nazionale, no un nuovo taglio di posti di lavoro nella scuola italiana.
Ancora una volta il Governo dei professori decide di proseguire con i tagli lineari di tremontiana memoria e di andare a far cassa sulla pelle viva della scuola. È grazie alla quotidiana generosità degli insegnanti che la scuola pubblica sta ancora in piedi. In tre anni, invece di reperire risorse con tobin tax e patrimoniale, l’86% del risparmio della spesa statale è stato prodotto tagliando l’istruzione e 132.000 posti di lavoro. Esattamente l’opposto di quel che ci raccomanda l’Unione Europea
che, nel documento strategico Europa 2020, per battere la crisi chiede ai Paesi membri di investire in una crescita intelligente ed inclusiva e all’Italia di aumentare il numero di laureati e di dimezzare il tasso della dispersione scolastica. Usando una metafora sgradevole tirata fuori di recente dal ministro Profumo a Genova, se «a questo Paese serve più bastone che carota», beh, possiamo dire che la scuola di carote ne ha sempre solo sentito parlare, ma in verità ha solo ricevuto tante bastonate. Ora siamo stanchi e diciamo basta. Se chi si è assunto l’onere di governare questa fase difficile del Paese, intende continuare a tagliare la scuola e a umiliare gli insegnanti invece di andare a scomodare chi non ha mai pagato il prezzo della crisi, chi non deve fare i conti per fare la spesa alla fine del mese, chi non rischia di non poter pagare le tasse universitarie ai figli, ce lo dica con chiarezza.
Perché allora è il tempo del coraggio e delle scelte di priorità che una politica democratica e progressista può tornare a fare.
L’Unità 11.10.12
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“Più ore di lavoro per i prof insegnanti pronti alla rivoltaPiù ore di lavoro per i prof insegnanti pronti alla rivolta”, di Alessia Camplone
Per il mondo della scuola sarebbe una rivoluzione. Gli orari degli insegnanti di medie e superiori potrebbero aumentare di un terzo in più a settimana, senza aumenti di stipendio. Da 18 fino anche a 24 ore. Un intervento che avrebbe pesanti conseguenze in particolare sui precari, per i quali resterebbero meno posti da supplente. A lanciare l’allarme è stato il sindacato, a proposito della legge di stabilità appena varata dal governo Monti. «Abbiamo saputo sostiene il segretario generale della Flc Cgil, Mimmo Pantaleo che avrebbero intenzione di aumentare l’orario degli insegnanti. Un aumento di 4 o 6 ore che coinvolgerebbe anche gli insegnanti di sostegno». Il provvedimento potrebbe incidere sulle supplenze brevi, che verrebbero tagliate.
Probabilmente a questo si riferiva ieri Pierluigi Bersani quando si è scagliato contro le misure del governo in materia di scuola: «Temo di non sbagliarmi, ma sotto la parola complicata di ingegnerizzazione ci sono tagli di 6.300-6.400 posti di lavoro per gli insegnanti». I prof sono già esasperati per il blocco dei contratti, al quale si aggiunge quello degli scatti di anzianità fino al 2017. Sull’ipotesi di un aumento dell’orario di lavoro a costo zero il ministero non conferma e non smentisce. Il responsabile dell’Istruzione Francesco Profumo ieri mattina, riferendosi alla legge di stabilità, ha parlato di «un contributo di generosità» chiesto al mondo della scuola. Non ha dato altri particolari, aggiungendo però che «nella prossima fase contrattuale bisognerà pensare a modalità diverse». Un ulteriore riferimento del ministro è a un contributo di 182 milioni da parte della scuola che sarebbe stato rispettato «ma non con tagli diretti». Una dichiarazione articolata che potrebbe corrispondere ai timori del sindacato.
La questione diventerà un argomento in più per lo sciopero già indetto per domani dalla Flc Cgil. I lavoratori e gli studenti che aderiranno scenderanno in piazza in tutta Italia. Sono state proclamate 60 manifestazioni in contemporanea che coinvolgeranno anche le scuole non statali.
Come se non bastasse gli oltre 10 mila nuovi insegnanti immessi in ruolo il primo settembre scorso in questi giorni devono fare i conti con il mancato pagamento dello stipendio a quasi un mese e mezzo dall’assunzione. Secondo il sindacato dell’Anief, che ha mandato una diffida al ministero dell’Istruzione, ci sarebbe stato un intralcio burocratico. I contratti sarebbero stati inviati solo in forma cartacea alle ragionerie territoriali del Tesoro che «potrebbero impiegare mesi – sostiene l’Anief – prima di riuscire ad erogare gli stipendi agli interessati».
Il Messaggero 11.01.12

Scuola: Ghizzoni, non si giochi con le parole

“Contributo di generosità” riduce cattedre

“Non si può giocare con le parole, quando queste nascondono concetti molto dolorosi. – Lo dichiara Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienze e Istruzione, in merito al “contributo di generosità” previsto dalla legge di stabilità – A fronte del blocco dei contratti e della mancata erogazione dello scatto stipendiale si può chiedere ancora ai lavoratori della scuola di essere generosi? Soprattutto se il previsto contributo di 182 milioni si trasformerà, di fatto, nella riduzione delle cattedre e nel conseguente taglio all’organico.”

Roma, 10 ottobre 2012

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Legge di stabilità, l’orario settimanale dei prof delle superiori portato a 24 ore?, di A.G.
In attesa di vedere il testo approvato dal Cdm, sembrerebbe che i più penalizzati sarebbero i docenti di sostegno: l’obettivo è risparmiare oltre 6mila cattedre. Ma non bisogna prima cambiare il Ccnl? E poi perchè questa disparità? Malumori anche per la ventilata sparizione della vacanza contrattuale: verrebbe reintegrata solo nel 2015, preludio ad un ulteriore blocco di contratto. La mannaia non risparmia nemmeno chi assiste i disabili. Infuriati i sindacati: nessun preavviso

Per ora sono solo voci, che in mancanza del testo ufficiale rendono l’attesa del personale della scuola particolarmente densa di timori. La netta impressione è infatti che la “Legge di stabilità”, approvata il 9 ottobre dal Consiglio dei ministri, non comporti quei lievi ritocchi all’attuale quadro organizzativo della scuola, di cui si era detto (con troppo ottimismo) negli ultimi giorni.
Prima di tutto si parla insistentemente di un allungamento ulteriore del blocco dei contratti per i dipendenti pubblici, quindi anche per la scuola, fino al 2014. Sparirebbe, inoltre, l’indennità di vacanza contrattuale (anche se il ministro della Funzione Pubblica, Filippo Patroni Griffi, ha smentito questa eventualità), ovvero quella somma forfetaria che, sebbene modestissima, servirebbe a compensare i mancati rinnovi contrattuali. Quest’ultima “voce”, la vacanza contrattuale, tornerebbe comunque in busta paga l’anno successivo (il 2015). E questo, paradossalmente, è un passaggio che non sa di buon auspicio. Per i sindacati Confederali “ la reintroduzione ”, fissata per il 2015, “ potrebbe far pensare a un prolungamento del blocco contrattuale, che verificheremo una volta esaminato il testo e che renderebbe questa manovra una vera e propria persecuzione ”. Insomma, il reintegro della lieve indennità sarebbe solo un “contentino” da dare nell’anno di ulteriore rinvio del rinnovo contrattuale (da cui deriverebbero invece aumenti di salari maggiori).
Ma le novità peggiorative che porterebbe la “Legge di stabilità”, almeno per il settore scuola, non finiscono qui. Sembrerebbe, infatti, che nella secondaria superiore l’orario dei docenti possa essere portato a 24 ore (come avviene nella primaria): “ l’ultima trovata – annuncia la Flc-Cgil incrementando così i motivi dello sciopero di venerdì 12 ottobre – è l’aumento di un terzo dell’orario di lavoro a parità di salario per le scuole secondarie. Le conseguenze saranno maggiori carichi di lavoro per i docenti, la riduzione di migliaia di supplenze per gli spezzoni e di quelle brevi ”. A sentire però il segretario del Pd, Pierluigi Bersani, l’incremento non sarebbe applicato in modo indistinto. “ Temo di non sbagliarmi – ha detto il leader del Partito democratico – ma sotto la parola complicata di ingegnerizzazione ci sono tagli di 6.300-6.400 posti di lavoro per gli insegnanti e si stabilisce che gli insegnanti di sostegno lavorano più ore di quelli di latino e greco ”.
Ora, poiché il documento è stato approvato in una sede politica, c’è da pensare che Bersani ne sappia più del sindacato. Ed in tal caso, se i docenti di sostegno dovessero essere costretti ad ampliare il loro orario di servizio settimanale, non bisogna essere dei veggenti per pensare alle conseguenze. Soprattutto sul piano giuridico, visto che a norma di legge sono docenti come tutti gli altri. E che l’entità dell’orario settimanale è definita da contratto collettivo nazionale. Il quale, come noto, è fermo da alcuni anni. Ma non per questo può essere modificato uno dei suoi “tasselli” fondamenti: l’orario settimanale.
Brutte novità in arrivo anche per chi usufruisce della Legge 104/92: le giornate di permesso verrebbero decurtate del 50%. A salvarsi sarebbero solo quelli che hanno il permesso per motivi personali oppure che accudiscono un familiare o il congiunto.
Ora però non corriamo troppo. Prima di lanciarci su commenti prematuri, bisogna infatti attendere la pubblicazione del testo approvato.
Nel frattempo i sindacati non sembrano, però, disposti a guardare: “ registriamo tra gli interventi più singolari – ha detto Francesco Scrima, segretario generale Cisl Scuola – quello del ministro Profumo, che accenna a non meglio precisati “contributi di generosità” che la scuola sarebbe pronta a dare, per non subire ulteriori tagli diretti. Al ministro vogliamo dire che la scuola non è un laboratorio di taglio e cucito. Non accetteremo tagli, né diretti né indiretti perché la scuola italiana, dopo anni di decurtazioni, non ha davvero più niente da dare. Siamo comunque stanchi di inadempienze e latitanze e non accettiamo che si mettano in cantiere – ha continuato il sindacalista della Cisl – proposte che toccano i lavoratori della scuola senza il minimo confronto con chi li rappresenta ”.
Scrima ha infine ricordato che ai sindacati nell’incontro con il Governo sulla legge di stabilità non “ è stato comunicato nulla che riguardasse la scuola, dunque se le cose stanno diversamente vogliamo vedere le carte” .
Forti perplessità arrivano anche da Massimo Di Menna, segretario generale Uil Scuola, che ha letto con meraviglia “ possibili ulteriori tagli e di interventi non meglio precisati sulla scuola di cui non abbiamo nessuna informazione. Sul piano di digitalizzazione delle scuole e di invio di strumenti informatici, tablet e computer, elemento positivo di modernizzazione, al momento, sono state prodotte circolari. Nulla sappiamo di tempi e modi ”, ha sottolineato Di Menna.
Poi la proposta: “ è il momento di ricondurre il tutto a normalità. Il ministro convochi i sindacati e si affrontino uno per uno i problemi e le modalità di intervento. Chi lavora ogni giorno a scuola, garantendone il funzionamento, deve essere partecipe dei processi. E’ ora di finirla con decisioni prese e gestite al di fuori di trasparenza, coinvolgimento e condivisione , ha concluso il sindacalista della Uil. Ma se la legge è stata approvata, ora sarà dura rimetterci mano.

da La Tecnica della Scuola