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"La crisi dei sistemi formativi. Fine del discorso educativo?", di Antonio Valentino

Da qualche decennio si parla della crisi dei sistemi formativi, scatenata soprattutto dalle grandi scoperte scientiche del secolo scorso che hanno rivoluzionato la mappa dei saperi così come si era andata sviluppando e consolidando nei secoli precedenti. La rivoluzione telematica degli ultimi decenni, con web e internet, e la globalizzazione del pianeta, ha addirittura sconvolto il senso, il valore e la natura del sapere e quindi dell’istruzione e della formazione. E conseguentemente dei sistemi formativi del mondo occidentale e asiatico e ha messo in crisi lo stesso discorso educativo.

La crisi economico-finanziaria degli ultimi anni, a livello planetario, ha fatto addirittura parlare di una possibile fine dei sistemi formativi.

Gli studi e le ricerche a livello internazionale ci parlano di disinvestimenti un po’ in tutti i paesi (ovviamente, non mancano le eccezioni, ma il trend è abbastanza generizzato) nel settore dell’istruzione e della formazione e della tendenza a privilegiare apprendimenti funzionali essenzialmente allo sviluppo economico degli stati.

Per quanto riguarda il nostro paese, sono sotto gli occhi (e non solo) di tutti, i tagli, scriteriati e fortissimi da diversi anni, ma soprattutto devastanti in questi ultimi, che si abbattono sulla nostra scuola e che pesano anche sulla formazione del personale, ridotta a zero, sulla condizione allarmente di tanti edifici scolastici, sullo stato spesso pietoso dei laboratori.

Ma da noi, si sa, le cose sono sempre più complicate. E le rilevazioni internazionali, per quanto variegate, ce ne danno riscontro, regalandoci sempre gli ultimi posti quanto a risultati degli apprendimenti e a funzionamento complessivo.

I dati pubblicati recentemente per la rassegna Education at a glance – relativi all’Italia – sono molto significativi – e allarmanti – per quanto attiene gli investimenti per allievo.

Ma, come dicevo, la forte diminuzione di investimenti per l’istruzione, si rileva in quasi tutto l’Occidente capitalistico. Cito per tutte, le ricerche di Nussbaum in “Non per profitto” (2012, Il Mulino editore).

Ma quello che la studiosa rileva in misura preoccupante è la tendenza sempre più diffusa a finalizzare la formazione dei nostri allievi allo sviluppo economico e a mettere in secondo piano, se non in terzo e quarto, lo sviluppo culturale e la crescita umana dello studente. E questo – constata e documenta la Nussbaum – soprattutto attraverso la diminuzione degli investimenti nell’aria umanistica (comprensiva delle arti) e storico-sociale.

D’altra parte, se noi guardiamo in casa nostra, non possiamo non rilevare la grande pressione e influenza che esercitano “i poteri forti” del nostro paese per una istruzione prevalentemente orientata al ‘cittadino produttore’. D’altra parte, l’uscita recente sulla scuola del presidente Monti – che pure è persona stimabile e benemerita – (“La scolarità diffusa è il un passo necessario per ‘togliere il freno’ allo sviluppo dell’imprenditorialità e contribuire al diffondersi di un’offerta di lavoro più qualificato”), incontestabile in sé, è segnale non trascurabile di una sensibilità politica – con conseguenti obiettivi in fatto di formazione – che di interrogativi ne pongono. (A giudicare anche solo dalla sua ultima uscita, neanche Profumo – che pensa di sostituire le scuole con “centri digitali” e i docenti con i computer – non scherza).

Comunque, il grosso rischio che sembra si corra attualmente riguarda non tanto la fine del discorso educativo quanto un suo scivolamento verso logiche di profitto proprie della cultura neoliberistica imperante e – aspetto ancora più allarmante – verso forme di più accentuata diseguaglianza (dislivello) tra chi moltiplica le sue possibilità/opportunità di istruzione e formazione e chi non riesce neanche a pensarle. Con ricadute negative sul futuro del pianeta: il patrimonio collettivo delle intelligenze sarebbe fdestinato a perdere le potenzialità legate allo sviluppo culturale di quanti oggi non possono neanche alfabetizzarsi.

I cambiamenti in atto: tendenze

Le ricerche e le analisi della Nussbaum e di Amartha Sen, ma anche gli studi e le riflessioni di Morin e Augè – (per l’Italia mi limito ai nomi di Ceruti e Bocchi, autori per Cortina editore, di Educazione e Globalizzazione – 2004) – sono ulteriore e qualificata conferma di una percezione diffusa e motivata – al riguardo – da una pluralità di fatti e situazioni a livello planetario.

Il messaggio che viene dagli studi e dalle riflessioni più accreditati del mondo della cultura e dell’educazione è soprattutto chiaro in questa citazione da Marc Augè:

“Se non si compiono cambiamenti rivoluzionari nel campo dell’istruzione, c’è il rischio che l’umanità di domani si divida tra un’aristocrazia del sapere e dell’intelligenza e una massa ogni giorno meno informata del valore della conoscenza. Questa disparità riprodurrà su scala più grande la diseguaglianza delle condizioni economiche. L’istruzione è la prima delle priorità”. (in Che fine ha fatto il futuro, Eleuthera 2011)

Oggi, parlando in termini globali, un’altra tendenza – che ovviamente non è un capitolo a sé – si avverte sempre più chiaramente. È ancora Augè a richiamarla.

“…il patrimonio filosofico dell’umanità sembra in parte smarrito e un ripiegamento spesso esasperato verso forme religiose più o meno logore e intolleranti, sostenuto dalla violenza, dall’ingiustizia e da condizioni di diseguaglianza, sta prendendo il posto del pensiero per una parte considereve dell’umanità”.

Gli sconvolgimenti del mondo arabo, a seguito del film blasfemo su Maometto, potrebbero esserne un indizio importante.

Questa non è una novità nella storia dell’uomo. Ma oggi questa percezione si avverte come una minaccia forte che porta in primo piano questioni e problemi che riguardano il nostro presente e il nostro futuro.

Rischi e alternative

Penso si possa dire (con gli studiosi già sopra citati) che chi tende ad assecondare la prima linea di tendenza (una istruzione funzionale allo sviluppo economico) – e sono soprattutto i grandi gruppi di potere a livello intenazionale – punta a gestire una sorta di ritirata dei sistemi formativi più consolidati in spazi circoscritti e controllabili. È attraverso spazi siffatti che si tende ad assicurare un nucleo di contenuti di base comuni su cui ciascuno – se ha possibilità e opportunità – costruisce il proprio percorso e la propria individualità.

Il paradosso che si delinea: niente socializzazione ed educazione ad cittadinanza estesa, quindi, nell’epoca della globalizzazione, ma solo trasmissione di competenze ben definibili, funzionali allo sviluppo del Prodotto Interno Lordo dei singoli Paesi: l’ormai famosissimo PIL, visto come indicatore di uno sviluppo nazionale tutto materiale, che guarda agli individui come semplici consumatori e non come persone e cittadini; una sorta di totem dell’intero mondo dell’economia e della finanza (e quindi di gran parte della politica che conta) che tende a porsi come unica e valida rappresentazione della qualità della vita di uno Stato.

Sappiamo quale ne è il pensiero sotteso: la crescita economica porterà automaticamente tutto il resto. Senza chiarire se prima o dopo la fine del mondo. Praticamente, “le magnifiche sorti e progressive” ironicamente profetizzate da Leopardi.

Paradigmatici i titoli degli ultimi due libri della già citata Nussbaum: “Non per profitto. Perché le democrazie hanno bisogno della cultura umanistica” e “Creare capacità. Liberarsi dalla dittatura del PIL”.

È nota la tesi: alla “dittatura del PIL” va contrapposto il paradigma dello sviluppo umano (per il quale sono importanti le opportunità e le capacità che ogni persona ha in ambiti chiave della vita) da assumere come alternativa da costruire al modello di crescita di tipo neoliberista.

A questa si lega la visione – che è propria di studiosi come Amartha Sen – che tende a guardare piuttosto alle capacità da sviluppare e di cui ha bisogno una democrazia matura.

Quale parte, al riguardo, è chiamata a giocare il mondo della cultura e, quindi, dell’istruzione e della ricerca? Quali nuove frontiere vanno individuate per ridare senso al discorso educativo e scongiurarne la fine?

Comunque di una cosa si è sempre più consapevoli: le questioni non possono più essere affrontate con l’ottica della pezza, ma della soluzione che guarda al futuro.

Non so chi lo dicesse. Ma penso che abbia ragioni da vendere.

O no?

da ScuolaOggi.org