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"Reggio Calabria i padroni della città", di Attilio Bolzoni

Chi voleva ancora i «boia chi molla» nelle piazze? Chi chiedeva i moti, le barricate come più di quarant’anni fa per lavare l’offesa di mafiosità? Erano solo loro, erano solo quelli che si abbuffavano con i boss. Pronti per capeggiare un’altra sommossa, disordini, tumulti, fuochi. Erano già tutti appostati per l’agguato. Ma adesso che è tutto finito, adesso che Roma ha spazzato via il governo di Reggio, quaggiù è calata una quiete irreale, la città è muta, forse anche più spaventata di prima. È la mancata rivolta di ‘Ndrangheta City, è l’insurrezione che non c’è a Reggio Calabria. Piazza Italia, otto di sera. Il palazzo del Comune è tutto illuminato. Ma è deserto. Dentro non c’è nessuno. L’agente dei vigili urbani Ida Lazzaro piantona l’edificio, a meno di cinquanta metri c’è il palazzo del governo, quella prefettura che è «entrata» con i suoi funzionari a rovistare nelle stanze dove quasi tutto era proprietà di figli e nipoti di quelli che una volta chiamavano «mammasantissima», mafia di seconda e di terza generazione che si è impadronita di imprese, negozi, studi tecnici, terreni edificabili. E anche del Comune.
«Oggi non ho visto neanche un assessore e neanche un consigliere prendere un caffè, oggi quelli si sono persi», racconta il cassiere del Bart, il bar alla moda su corso Garibaldi e a due passi dal Comune. Piazza Italia, i resti di una villa romana e le macerie della politica delle contiguità e delle trame, quella aveva inseguito il sogno di trasformare in assedio la Reggio umiliata nel 2012 nella Reggio del luglio 1970, assalti ai treni e sollevazione di popolo per insorgere sempre contro Roma che ha «calpestato la dignità dei reggini». Ma questa volta «i boia chi molla» sono rimasti soli. Troppo pericolosamente vicini ai boss per avere apertamente come complici i cittadini. Troppo poco vicini ai boss che contano veramente — dice qualcuno in questa città dove mai nulla è quello che appare — per avere le masse intorno. ’Ndrangheta City oggi è morta. Domani chissà. Per diciotto mesi starà lì con il fiato sospeso a vedere quel che accadrà. Poi sarà un’altra storia o sempre la stessa storia. Questa è Reggio e questa è la ’ndrangheta. Ma per il momento qui è tutto calmo, tutto silenzioso, tutto avvinghiato nella sciroccata che ha stordito centottantamila calabresi che da un giorno e una notte non hanno più un sindaco e non hanno più il loro Comune.
Ci hanno provato in tutti i modi a fermare i commissari prefettizi. Ci hanno provato in tutti i modi ad accendere la miccia. «Ma non c’erano le condizioni, allora, nel 1970, avevano scippato alla città di Reggio il capoluogo di regione, si aspettavano posti di lavoro, oggi lo sanno tutti che cosa c’era dentro quel comune, la città non poteva seguirli», spiega Tonino Perna, sociologo, scrittore, una delle voci storiche dell’altra Reggio. Ci hanno provato in tutti i modi a non farsi sciogliere quel Comune dove assessori e consiglieri erano legati a doppio filo a quei galantuomini che avevano allungato le mani sulla città, che l’avevano conquistata con il terrore e con il denaro. Ci hanno provato zitti zitti, prima quando a Roma dovevano ancora decidere sul destino di Reggio e dalla Calabria erano partiti gli emissari di ’Ndrangheta City per fare pressioni su qualcuno, per «convincere» Roma che Reggio non meritava una sorte così infame. Quando hanno capito che su, al ministero dell’Interno, avevano già scoperto cos’era Reggio e cos’era il suo Comune, sono cominciate le manovre in casa.
L’occasione l’ha offerta Giuseppe Bombino, un docente di Agraria che ha pensato di far affiggere sui muri della città un manifesto contro «la campagna diffamatoria » alla vigilia dell’annunciato scioglimento del Comune. Tutti i maggiorenti di Reggio non aspettavano altro. Subito hanno firmato in 500. Avvocati. Notai. Medici. Commercialisti. Tutta la città «in guanti gialli» che si è abbeverata per anni al «sistema Reggio», consulenti di municipalizzate, professionisti con incarichi perenni, i favoriti eterni di corte. Fra i firmatari anche i due legali storici del governatore Peppe Scopelliti — Nico D’Ascola e suo nipote Aldo Labbate — l’ex sindaco che ha lasciato in Comune un buco di 180 milioni di euro, il «modernizzatore » che con i suoi giochi di prestigio ha provato ad incantare i calabresi e poi ha infilato un bel po’ dei suoi uomini nel nuovo consiglio comunale e nella nuova giunta, quella che non c’è più. Il trucco del «Manifesto per Reggio» ha fatto scivolare nella trappola anche qualche associazione antimafia per una notte, poi l’adesione è stata ritirata. Quando i nomi dei 500 sono diventati pubblici nessun altro, a Reggio, ha messo la sua firma su quel documento.
C’è una città nella città che non li sopporta più i mafiosi. Falliti gli avvicinamenti romani, fallita la chiamata alle armi «della gente», i ras di Reggio hanno giocato la carta degli studenti. Li hanno spinti a scendere per le strade giovedì scorso, una settimana fa, quando il consiglio dei ministri si doveva già riunire per Reggio. La rivolta studentesca non c’è mai stata, una manifestazione flop, neanche quaranta ragazzi in piazza, tutti militanti della destra. Così è naufragata anche la protesta dei ragazzi. E così, nell’indifferenza, giorno dopo giorno Reggio è sprofondata nello strapiombo. Non agitano forconi neanche quei quattrocento operai e impiegati della famigerata Multiservizi, la società mista infiltrata dai Tegano e chiusa dopo un certificato antimafia negato. Reggio non è più oggi neanche la Palermo dei «viva Ciancimino e viva la mafia», con gli edili che nei primi anni ‘80 sfilavano per le strade con cartelli con su scritto «con l’antimafia non si mangia».
Sono rimasti soli quegli altri. «Se avete coraggio scendete in piazza con noi», gridava qualche giorno fa il governatore Scopelliti per difendere «l’orgoglio reggino » contro «i poteri forti» e i giornalisti. «Se avete coraggio», ripeteva il governatore.
Che cosa succederà ora in questa Reggio intontita dallo scioglimento del suo Comune? Sono stati cacciati gli assessori amici degli amici e i consiglieri parenti di questo o di quell’altro boss, ma che fine faranno quella quarantina di funzionari e di dirigenti del Comune che da una vita resistono dentro Palazzo San Giorgio e rappresentano più di chiunque altro la «struttura» del potere reggino, i referenti inamovibili di ’Ndrangheta City nel palazzo della politica. Staranno sempre lì a garantire la continuità a chi comanda? Staranno sempre lì al servizio di quella «supercosca » — così l’ha definita la procura di Reggio — che controlla ogni attività e appalto ai piedi dell’Aspromonte?
Nella provincia delle 157 cosche disseminate fra la città capoluogo e la costa ionica e quella tirrenica, nella provincia dove certi candidati al parlamento e alla regione baciano ancora le mani ai vecchi boss per avere la loro benedizione, che cosa accadrà dopo questo scioglimento del Comune che sputtana una classe politica contigua ma che non coinvolge ancora tutta quella ragnatela che soffoca la città? Una borghesia ricca, professionisti, incensurati, qualche spia. Tutti al servizio di questo o quel-l’altro capo della ’Ndrangheta, tutti a fare il doppio gioco, tutti a passare notizie riservate o a organizzare falsi attentati anche nel giorno della visita in Calabria del presidente Napolitano. È la specialità di Reggio. Il gioco degli specchi.
E che fine faranno tutti i soldi della ’Ndrangheta. Quelli dei Piromalli della Piana di Gioia Tauro e di quegli altri che si chiamano Gallico e Alvaro, Morabito e Pelle, Aquino e Commisso? Dopo lo scioglimento del Comune c’è già chi si sta preparando al dopo. Quando magari nessuno chiamerà più ’Ndrangheta City la città di Reggio. Chi sono? Sempre loro: i De Stefano, i Tegano, i Libri, i Crucitti, i Condello. Già stanno cercando altri uomini di paglia, già pensano a nuovi affari. Vicino e lontano.
Per troppo tempo l’Italia ha dimenticato la Calabria e la sua mafia. Oggi quei boss si sentono a casa non soltanto ad Archi o in qualche villaggio sperduto della Locride, si sentono a casa loro a Milano, in Piemonte, in Liguria, nell’agro pontino, a Roma, in Canada e in Australia. Quando i Pelle- Vottari o i Nirta-Strangio emigrano nella Duisburg dei morti di Ferragosto si sentono così a casa loro che là, in Germania, vanno ad abitare i primi sulla riva destra del Reno e gli altri su quella sinistra. Come erano cresciuti nella fiumara aspromontana.
La Repubblica 11.10.12