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"Su cosa si fonda un partito", di Claudio Sardo

Un partito non si fonda su una regola, né su un emendamento. Non è vero neppure che il Pd si fondi sulle primarie, benché esse siano diventate un tratto distintivo della sua prassi democratica, del suo carattere partecipato, del proposito di spezzare l’autoreferenzialità di una politica peraltro divenuta impotente. Le fondamenta di un partito sono i valori comuni, l’idea di società, il desiderio di cambiamento, il progetto di governo, la «connessione sentimentale» (direbbe Antonio Gramsci) con quella parte di popolo che ne riconosce l’importanza, persino il legame di amicizia e di solidarietà.
Il passaggio che oggi l’assemblea nazionale del Pd è chiamata ad affrontare è particolarmente insidioso. Perché, nel contesto di una crisi profonda del sistema-Paese, concentra lo scontro politico sulle forme.
Certo che sono importanti le forme. Senza forme, senza regole, la politica non avrebbe alcuna speranza di recuperare una propria autonomia rispetto al dominio del mercato, della finanza, di chi detiene le grandi ricchezze, oltre che gli strumenti per farle circolare e quelli per condizionare la pubblica opinione. Ma le regole sono le righe dove si scrive la storia di un’impresa collettiva, di una speranza o di una innovazione, non saranno mai la ragione di un impegno, né di una battaglia di uguaglianza, né di una fraternità. Proprio chi dà valore alle regole e alle istituzioni ne riconosce la loro relatività.
Tanti nostri lettori ci manifestano il loro disagio, la loro inquietudine, il loro timore per come nel Pd si è aperta questa battaglia politica per la leadership. Non temono che passi un emendamento piuttosto che un altro. Temono che la trasparenza non venga garantita, oppure che la partecipazione non venga incentivata, oppure che il voto sia inquinato dalla presenza di elettori del centrodestra che scommettono sulla spaccatura del Pd. Ma più di ogni altra cosa temono proprio la divisione, la rottura, temono che il progetto naufraghi, che il centrosinistra si arrenda prima ancora di combattere, che le primarie producano alla fine un’emorragia dei consensi anziché un’espansione. Se la sfida è dare all’Italia un governo politico di cambiamento, un governo di centrosinistra alleato con i progressisti europei, tanti militanti ed elettori chiedono, anzi pretendono, anzitutto che la macchina delle primarie non porti acqua al mulino di un Monti bis (che a quel punto non sarebbe più un governo di emergenza, ma una soluzione tecnocratica per un Paese incapace di dotarsi di alternative politiche di caratura europea).
Guai se l’assemblea del Pd dimenticherà oggi che questa è la domanda principale a cui deve rispondere. Il progetto di governo vale più di ogni singola regola. È una responsabilità che riguarda tutti, nessuno escluso. Si può rinunciare a una norma, si può rinunciare persino a un’idea di sistema politico, ma se svanisce l’ambizione di governare il Paese con una politica che metta al primo posto il lavoro, una politica di maggiore equità, di innovazione, di sviluppo qualitativamente diverso, di legalità, di sussidiarietà, allora saltano le ragioni dello stare insieme e si rischia di smarrire persino il senso della diversità tra destra e sinistra.
Queste primarie, diciamo la verità, nascono dentro contraddizioni difficilmente sanabili. Ancora non è chiaro neppure con quale legge elettorale voteremo la prossima primavera. Non sappiamo se siamo condannati a restare ancora nella seconda Repubblica (fondata, quella sì, sul presidenzialismo di fatto e sulla demolizione dei partiti popolari) oppure se avremo la forza di compiere un primo passo fuori dal tunnel. Ciò che sappiamo è che lo statuto del Pd non è capace di regolare questa partita, né di rispondere alle domande che il segretario del Pd e i suoi sfidanti hanno posto. In questo contesto, molti bocconi amari devono essere mandati giù. Perché non si sono fatte le primarie congressuali anziché quelle di coalizione? Perché il Pd non si batte per rafforzare il partito anziché la coalizione? Perché non si chiede l’impegno a tutti gli sfidanti di sottoscrivere un patto per convergere presto nella medesima forza politica? Perché si cercano regole sempre diverse, aumentando così il rischio di trasformare una cruciale contesa politica in una sorta di concorso di bellezza? Le domande sono tante, e a dire il vero, anch’esse contraddittorie. Non c’è oggi una quadratura del cerchio.
C’è però un grave deficit di credibilità della politica, e delle stesse istituzioni democratiche. Ci vuole il coraggio di mettersi in discussione, di rischiare. I cittadini non sopportano la corruzione, e non sopportano neppure i privilegi della politica. E l’autoreferenzialità oggi appare come un privilegio. Bisogna aprire le porte. Siamo davanti a un bivio storico e il rinnovamento deve radicarsi su nuovi programmi e su un nuovo costume politico. Altrimenti restiamo dentro il paradigma culturale del berlusconismo. Dall’assemblea di oggi alle primarie, e poi alle secondarie, il Pd è chiamato a rispondere a questa chiamata: costruire un governo all’altezza del Paese. Un governo all’altezza di una domanda di cambiamento, dopo anni in cui i mercati finanziari hanno fatto da padrone e la destra europea da garante degli squilibri sociali. Un governo che faccia tesoro di ciò che Monti ha dato all’Italia ma che riesca a sconfiggere domani la tentazione oligarchica e tecnocratica. Per meno di questo, le primarie non avrebbero ragione di essere.
L’Unità 06.10.12