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"L'eterno vuoto delle riforme", di Michele Ainis

C’è un nesso fra la Grande abbuffata dei consiglieri regionali e il sovraffollamento delle carceri? E cos’hanno in comune queste due vicende con la rissa fra politica e giustizia che ci ammorba da vent’anni? In apparenza, nulla: sono pur sempre spine, ma di fiori distinti. E invece no, perché la semina è la stessa, e coincide puntualmente con una riforma sciagurata. Anche se c’è voluto tempo per misurarne gli effetti, anche se ce ne accorgiamo solo adesso, quando il tempo ormai è scaduto.
È il caso, innanzitutto, della riforma del Titolo V, battezzata dal centrosinistra nel 2001. Quella che ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo. Sicché il Molise ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi. Poi, certo, si può obiettare che la responsabilità è delle persone, non delle istituzioni. Se è per questo, c’è chi pensa che il fascismo fosse buono, il cattivo era soltanto Mussolini. Ma non si può entrare in polemica con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. Ed è un fatto, anzi un misfatto, che la spesa regionale sia cresciuta di 90 miliardi nel decennio successivo alla riforma.
E c’è poi il pozzo nero delle carceri, con 21 mila detenuti in più dei posti letto, con un record di suicidi, di atti d’autolesionismo, di gesti disperati. Tanto da trasformare la pena in un delitto, per usare il titolo di un libro curato da Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Questa scandalosa condizione dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro. Mentre rimane praticabile (pure troppo) qualsiasi riforma della Carta, dato che in questo caso basta la maggioranza assoluta.
Sempre in quel torno d’anni, sull’onda di Tangentopoli, venne emendato l’articolo 68 della Carta, indebolendo le immunità parlamentari. Col senno di poi, un’altra riforma sbagliata. Perché ha sbilanciato il rapporto fra politica e giustizia, in danno della prima. E perché tutti i tentativi della politica d’ottenere una rivalsa (dalla Bicamerale di D’Alema al lodo Alfano), hanno soltanto incrudelito gli animi, senza mai giungere in porto. D’altronde anche questa legislatura è costellata da riforme mancate. Quella del fisco venne promessa da entrambi i contendenti prima delle elezioni. Sulla giustizia gli annunci risalgono al giugno 2008. Cinque mesi dopo il ministro Calderoli promise la correzione del bicameralismo. Quanto alla legge elettorale, poi, non ne parliamo, anche perché abbiamo consumato ogni parola.
Da qui, a volerla ascoltare, una lezione. Se la Seconda Repubblica è fallita, è perché sono fallite le riforme da cui era stata generata. Se stiamo per celebrare i funerali di un’altra legislatura inconcludente, è perché le riforme necessarie non hanno mai visto la luce. C’è insomma un cordone ombelicale fra cattiva politica e cattive riforme. O lo spezziamo, o si spezzerà il Paese.

Il Corriere della Sera 03.10.12

"L'eterno vuoto delle riforme", di Michele Ainis

C’è un nesso fra la Grande abbuffata dei consiglieri regionali e il sovraffollamento delle carceri? E cos’hanno in comune queste due vicende con la rissa fra politica e giustizia che ci ammorba da vent’anni? In apparenza, nulla: sono pur sempre spine, ma di fiori distinti. E invece no, perché la semina è la stessa, e coincide puntualmente con una riforma sciagurata. Anche se c’è voluto tempo per misurarne gli effetti, anche se ce ne accorgiamo solo adesso, quando il tempo ormai è scaduto.
È il caso, innanzitutto, della riforma del Titolo V, battezzata dal centrosinistra nel 2001. Quella che ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo. Sicché il Molise ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi. Poi, certo, si può obiettare che la responsabilità è delle persone, non delle istituzioni. Se è per questo, c’è chi pensa che il fascismo fosse buono, il cattivo era soltanto Mussolini. Ma non si può entrare in polemica con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. Ed è un fatto, anzi un misfatto, che la spesa regionale sia cresciuta di 90 miliardi nel decennio successivo alla riforma.
E c’è poi il pozzo nero delle carceri, con 21 mila detenuti in più dei posti letto, con un record di suicidi, di atti d’autolesionismo, di gesti disperati. Tanto da trasformare la pena in un delitto, per usare il titolo di un libro curato da Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Questa scandalosa condizione dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro. Mentre rimane praticabile (pure troppo) qualsiasi riforma della Carta, dato che in questo caso basta la maggioranza assoluta.
Sempre in quel torno d’anni, sull’onda di Tangentopoli, venne emendato l’articolo 68 della Carta, indebolendo le immunità parlamentari. Col senno di poi, un’altra riforma sbagliata. Perché ha sbilanciato il rapporto fra politica e giustizia, in danno della prima. E perché tutti i tentativi della politica d’ottenere una rivalsa (dalla Bicamerale di D’Alema al lodo Alfano), hanno soltanto incrudelito gli animi, senza mai giungere in porto. D’altronde anche questa legislatura è costellata da riforme mancate. Quella del fisco venne promessa da entrambi i contendenti prima delle elezioni. Sulla giustizia gli annunci risalgono al giugno 2008. Cinque mesi dopo il ministro Calderoli promise la correzione del bicameralismo. Quanto alla legge elettorale, poi, non ne parliamo, anche perché abbiamo consumato ogni parola.
Da qui, a volerla ascoltare, una lezione. Se la Seconda Repubblica è fallita, è perché sono fallite le riforme da cui era stata generata. Se stiamo per celebrare i funerali di un’altra legislatura inconcludente, è perché le riforme necessarie non hanno mai visto la luce. C’è insomma un cordone ombelicale fra cattiva politica e cattive riforme. O lo spezziamo, o si spezzerà il Paese.
Il Corriere della Sera 03.10.12

"Non sono tutti uguali. Ma ci vuole più severità", di Vittorio Emiliani

Viene a galla la cattiva politica, l’avidità di una consociazione di “magnaccioni” (Romani ma pure padani), l’inosservanza delle regole, anche minime, l’indifferenza o l’assenza, in più di un caso, delle istituzioni in omaggio alla caricatura egoista del federalismo. Ma paghiamo pure la latitanza di un’opinione pubblica avvertita. La sua rassegnazione davanti al persistere dei cattivi esempi, la estemporaneità dei movimenti, una informazione superficiale e sensazionalista che spesso non discerne e spara nel mucchio. Viene insomma a galla un deficit cronico di democrazia reale. Potevano essere risparmiati all’Italia dei cittadini impegnati che pagano le tasse e ancora fanno politica con spirito di servizio, casi come questo di Francesco Fiorito, capogruppo berlusconiano al Consiglio regionale del Lazio? Poteva venire loro risparmiata una storia che probabilmente ha parecchi risvolti penali, ma che è già inaccettabile per una continua, ostentata, proterva volgarità e indecenza?

Credo proprio di sì. Possiamo invertire la rotta se sappiamo individuare mali e rimedi. La democrazia è correzione saggia degli errori. Il decentramento dei poteri e quindi dei finanziamenti è avvenuto allentando i controlli, facendo a meno dei parametri nazionali «virtuosi» per il costo di beni e servizi. Per cui ogni Regione è divenuta sempre autonoma nel senso di non rispondere più a nessuno (se non, molto tardivamente e in modo formale, alla Corte dei conti). È divenuta cioè autoreferenziale, ognuna ha risposto di se stessa a se medesima, le Giunte alle Giunte e i Consigli ai Consigli. Tutti gestori senza controlli, né dal basso, cioè dagli elettori, né dall’alto o dal centro. Con troppi a chiudere gli occhi su una pacchia offensiva. Fuori da quei palazzi – come a specchio – gli evasori erano un esercito di fronte alla debole volontà politica dei governi, l’edilizia di speculazione galoppava sulle praterie aperte da leggi o permissive o divelte da sciagurati condoni. E così la finanza allegra: nei porti turistici migliaia di bandiere di società e di Stati di comodo garrivano alla brezza gioiosa, mentre nel contempo tanti agricoltori erano allo stremo, gli industriali piccoli e medi chiudevano, strangolati dalle banche, la disoccupazione e l’inoccupazione segnavano a fondo generazioni di giovani, e dal Sud i migliori ripartivano, a decine di migliaia.

E tuttavia non possiamo, non dobbiamo unirci a quanti, populisti di destra e di sinistra (ma è mai di sinistra il populismo?) vogliono riportare indietro il Paese, sparando nel mucchio, «tanto, tutti i politici sono uguali». Sotto l’incalzare dei cittadini deve accadere il contrario: i partiti – necessari ad una vera democrazia – devono fare per primi pulizia in questa emergenza che è ancor peggio di Tangentopoli (dove chi rubava lo faceva, sovente, per il partito), devono rinnovare i quadri, aprirsi alla società, ai giovani, prevedere una legislatura «costituente» per rivedere a fondo il sistema di governo, il frettoloso pasticcio del Titolo V della Costituzione, cedimento ad un federalismo «all’italiana» che ha prodotto disastri, a cominciare dalla Lega stessa, e che ha rischiato di far deflagrare l’Italia e che comunque ha concorso a precipitarla.

L’Unità 03.10.12

"Non sono tutti uguali. Ma ci vuole più severità", di Vittorio Emiliani

Viene a galla la cattiva politica, l’avidità di una consociazione di “magnaccioni” (Romani ma pure padani), l’inosservanza delle regole, anche minime, l’indifferenza o l’assenza, in più di un caso, delle istituzioni in omaggio alla caricatura egoista del federalismo. Ma paghiamo pure la latitanza di un’opinione pubblica avvertita. La sua rassegnazione davanti al persistere dei cattivi esempi, la estemporaneità dei movimenti, una informazione superficiale e sensazionalista che spesso non discerne e spara nel mucchio. Viene insomma a galla un deficit cronico di democrazia reale. Potevano essere risparmiati all’Italia dei cittadini impegnati che pagano le tasse e ancora fanno politica con spirito di servizio, casi come questo di Francesco Fiorito, capogruppo berlusconiano al Consiglio regionale del Lazio? Poteva venire loro risparmiata una storia che probabilmente ha parecchi risvolti penali, ma che è già inaccettabile per una continua, ostentata, proterva volgarità e indecenza?
Credo proprio di sì. Possiamo invertire la rotta se sappiamo individuare mali e rimedi. La democrazia è correzione saggia degli errori. Il decentramento dei poteri e quindi dei finanziamenti è avvenuto allentando i controlli, facendo a meno dei parametri nazionali «virtuosi» per il costo di beni e servizi. Per cui ogni Regione è divenuta sempre autonoma nel senso di non rispondere più a nessuno (se non, molto tardivamente e in modo formale, alla Corte dei conti). È divenuta cioè autoreferenziale, ognuna ha risposto di se stessa a se medesima, le Giunte alle Giunte e i Consigli ai Consigli. Tutti gestori senza controlli, né dal basso, cioè dagli elettori, né dall’alto o dal centro. Con troppi a chiudere gli occhi su una pacchia offensiva. Fuori da quei palazzi – come a specchio – gli evasori erano un esercito di fronte alla debole volontà politica dei governi, l’edilizia di speculazione galoppava sulle praterie aperte da leggi o permissive o divelte da sciagurati condoni. E così la finanza allegra: nei porti turistici migliaia di bandiere di società e di Stati di comodo garrivano alla brezza gioiosa, mentre nel contempo tanti agricoltori erano allo stremo, gli industriali piccoli e medi chiudevano, strangolati dalle banche, la disoccupazione e l’inoccupazione segnavano a fondo generazioni di giovani, e dal Sud i migliori ripartivano, a decine di migliaia.
E tuttavia non possiamo, non dobbiamo unirci a quanti, populisti di destra e di sinistra (ma è mai di sinistra il populismo?) vogliono riportare indietro il Paese, sparando nel mucchio, «tanto, tutti i politici sono uguali». Sotto l’incalzare dei cittadini deve accadere il contrario: i partiti – necessari ad una vera democrazia – devono fare per primi pulizia in questa emergenza che è ancor peggio di Tangentopoli (dove chi rubava lo faceva, sovente, per il partito), devono rinnovare i quadri, aprirsi alla società, ai giovani, prevedere una legislatura «costituente» per rivedere a fondo il sistema di governo, il frettoloso pasticcio del Titolo V della Costituzione, cedimento ad un federalismo «all’italiana» che ha prodotto disastri, a cominciare dalla Lega stessa, e che ha rischiato di far deflagrare l’Italia e che comunque ha concorso a precipitarla.
L’Unità 03.10.12

"Vendola alle primarie può aiutare Bersani (e condizionarlo)", di Stefano Folli

Finora alle primarie del centrosinistra c’era un solo candidato estraneo al Pd: Bruno Tabacci. Da oggi, a quanto pare, ce n’è un altro, il fatidico Nichi Vendola che scende in campo dopo lunga incertezza. È un ingresso da attore consumato, anche se rimane tutto da verificare se il suo nome, giunti a questo punto, riuscirà a raccogliere consensi significativi. In ogni caso la candidatura del presidente pugliese certifica che le primarie non riguardano la leadership del Pd, bensì la guida della coalizione. Il che comporta una serie di conseguenze. Ad esempio, Matteo Renzi ha già dichiarato che accetterà l’eventuale vittoria di Bersani e lo sosterrà nella successiva candidatura a Palazzo Chigi. Chissà se Vendola farebbe lo stesso nel caso di un’affermazione di Renzi. È lecito dubitarne parecchio.
Del resto, il «corpo estraneo» in queste primarie non è certo Vendola: è proprio Renzi. Autorevoli esponenti del Pd hanno dichiarato in pubblico e in privato che la vittoria del sindaco di Firenze segnerebbe la fine del partito come lo abbiamo conosciuto in questi anni e la conseguente deflagrazione del centrosinistra. Quindi Renzi è il nemico da battere e Vendola è un alleato, quanto meno un compagno di strada. E la sua ostilità dichiarata a Monti, alla cosiddetta «agenda» intitolata al premier e ancor di più all’idea che il professore resti a Palazzo Chigi anche in futuro? Per Bersani non è un problema, visto che almeno sul Monti-bis il segretario non la pensa in modo molto diverso dal suo nuovo sfidante.

Non si può ignorare, peraltro, che la rotta bersaniana verso la presidenza del Consiglio poggia anche sull’alleanza fra il Pd e Vendola. C’è un patto abbastanza chiaro fra i due. Quindi questa candidatura alle primarie che arriva proprio alla vigilia dell’assemblea del Pd in cui dovranno essere fissate le regole della consultazione, assomiglia a un’operazione ben congegnata. Con l’obiettivo non di destabilizzare il Pd (a quello ci pensa Renzi), ma al contrario di rimettere in sella Bersani, pur condizionandolo a sinistra.
In fondo una delle regole che saranno fissate sabato prossimo riguarderà un meccanismo di doppio turno, se nessun candidato supera una certa soglia. Il che significa che Renzi potrebbe fare il pieno dei suoi sostenitori al primo turno; e tuttavia al secondo Bersani lo potrebbe superare perchè sul nome del segretario confluiranno anche altri voti. Ad esempio quelli di Vendola che così farebbe pesare la sua influenza sulla vittoria finale del segretario. Inutile dire che l’appoggio del centrosinistra a Monti, in questo quadro, tenderebbe a evaporare.
Si tratta di uno scenario piuttosto verosimile in cui lo sconfitto sarebbe naturalmente il sindaco di Firenze, chiuso nella tagliola. Ma sarebbe salva l’impalcatura del centrosinistra così come è stata costruita in questi mesi da Bersani e dal vertice del Pd. S’intende che resterebbe aperto, anzi ingigantito, il problema dell’accordo post-elettorale con i centristi di Casini. Quasi un salto mortale.

Da un lato, ed entro certi limiti, lo slittamento a sinistra della leadership di Bersani può anche far comodo ai centristi. Ma, dall’altro, un Bersani nelle mani di Vendola (e magari della Cgil) pone una questione irrisolvibile a chi, come Casini, si definisce il maggior sostenitore di Monti. Gli schemi definiti a tavolino potrebbero saltare.

Il Sole 24 Ore 03.10.12

"Vendola alle primarie può aiutare Bersani (e condizionarlo)", di Stefano Folli

Finora alle primarie del centrosinistra c’era un solo candidato estraneo al Pd: Bruno Tabacci. Da oggi, a quanto pare, ce n’è un altro, il fatidico Nichi Vendola che scende in campo dopo lunga incertezza. È un ingresso da attore consumato, anche se rimane tutto da verificare se il suo nome, giunti a questo punto, riuscirà a raccogliere consensi significativi. In ogni caso la candidatura del presidente pugliese certifica che le primarie non riguardano la leadership del Pd, bensì la guida della coalizione. Il che comporta una serie di conseguenze. Ad esempio, Matteo Renzi ha già dichiarato che accetterà l’eventuale vittoria di Bersani e lo sosterrà nella successiva candidatura a Palazzo Chigi. Chissà se Vendola farebbe lo stesso nel caso di un’affermazione di Renzi. È lecito dubitarne parecchio.
Del resto, il «corpo estraneo» in queste primarie non è certo Vendola: è proprio Renzi. Autorevoli esponenti del Pd hanno dichiarato in pubblico e in privato che la vittoria del sindaco di Firenze segnerebbe la fine del partito come lo abbiamo conosciuto in questi anni e la conseguente deflagrazione del centrosinistra. Quindi Renzi è il nemico da battere e Vendola è un alleato, quanto meno un compagno di strada. E la sua ostilità dichiarata a Monti, alla cosiddetta «agenda» intitolata al premier e ancor di più all’idea che il professore resti a Palazzo Chigi anche in futuro? Per Bersani non è un problema, visto che almeno sul Monti-bis il segretario non la pensa in modo molto diverso dal suo nuovo sfidante.
Non si può ignorare, peraltro, che la rotta bersaniana verso la presidenza del Consiglio poggia anche sull’alleanza fra il Pd e Vendola. C’è un patto abbastanza chiaro fra i due. Quindi questa candidatura alle primarie che arriva proprio alla vigilia dell’assemblea del Pd in cui dovranno essere fissate le regole della consultazione, assomiglia a un’operazione ben congegnata. Con l’obiettivo non di destabilizzare il Pd (a quello ci pensa Renzi), ma al contrario di rimettere in sella Bersani, pur condizionandolo a sinistra.
In fondo una delle regole che saranno fissate sabato prossimo riguarderà un meccanismo di doppio turno, se nessun candidato supera una certa soglia. Il che significa che Renzi potrebbe fare il pieno dei suoi sostenitori al primo turno; e tuttavia al secondo Bersani lo potrebbe superare perchè sul nome del segretario confluiranno anche altri voti. Ad esempio quelli di Vendola che così farebbe pesare la sua influenza sulla vittoria finale del segretario. Inutile dire che l’appoggio del centrosinistra a Monti, in questo quadro, tenderebbe a evaporare.
Si tratta di uno scenario piuttosto verosimile in cui lo sconfitto sarebbe naturalmente il sindaco di Firenze, chiuso nella tagliola. Ma sarebbe salva l’impalcatura del centrosinistra così come è stata costruita in questi mesi da Bersani e dal vertice del Pd. S’intende che resterebbe aperto, anzi ingigantito, il problema dell’accordo post-elettorale con i centristi di Casini. Quasi un salto mortale.
Da un lato, ed entro certi limiti, lo slittamento a sinistra della leadership di Bersani può anche far comodo ai centristi. Ma, dall’altro, un Bersani nelle mani di Vendola (e magari della Cgil) pone una questione irrisolvibile a chi, come Casini, si definisce il maggior sostenitore di Monti. Gli schemi definiti a tavolino potrebbero saltare.
Il Sole 24 Ore 03.10.12

"Le primarie che vorrei: diritti, giovani e futuro", di Ignazio Marino

Nelle primarie è giusto crederci e io ci credo. Sono un’ottima occasione per elaborare idee, confrontarsi, coinvolgere. E con una società piagata dalla corruzione e una politica che disgusta gli italiani, dobbiamo considerarle uno strumento per non fare precipitare tutti, in particolare i più giovani, nella repulsione per l’impegno civico o, peggio, nel disinteresse totale.
Questa volta il voto servirà per scegliere il candidato del centrosinistra alla Presidenza del Consiglio: una donna o un uomo che, se vinceremo le elezioni, deve avere ricca preparazione tecnica ma anche personale autorevolezza nazionale ed internazionale per affrontare la più grave crisi economica dal 1930. Prima ancora di vincere, quel candidato dovrà lavorare per convincere gli italiani ad andare a votare, e a votare centrosinistra, in un clima di antipolitica dilagante.
Considerato l’obiettivo, va riconosciuto un coraggio fuori dall’ordinario a coloro che si dichiarano pronti per questa competizione ed è anche per questo che la sfida deve svolgersi sui contenuti, in modo che ogni elettore possa fare la propria scelta sulla base di programmi chiari e non della simpatia, dell’affinità generazionale o dei vantaggi personali. La responsabilità dei candidati sarà anche misurata con la loro capacità di proporre squadre di donne e uomini che non appartengano alla classe dirigente del secolo scorso, che ci avvicinino al resto dell’Europa e propongano idee all’altezza delle sfide di questi tempi. Su alcuni temi sarebbe importante conoscere da subito il punto di vista dei candidati perché sono argomenti qualificanti di una proposta politica che si preoccupa del futuro dell’Italia in Europa. Sono temi che sollecito da anni e che pongo ancora una volta in forma di riflessioni e domande.
Penso in primo luogo al tema del lavoro. Quali misure propongono i candidati per rilanciare l’occupazione? Cosa fare per estirpare quel tumore che si chiama nepotismo o assenza di merito, che mina nel profondo la salute civica del nostro Paese e garantire invece criteri meritocratici e trasparenti nel mondo del lavoro, della ricerca e anche nella politica?
Penso poi alla salute. La sostenibilità del servizio sanitario nazionale non riguarda solo le questioni di bilancio ma anche il livello di civiltà di un Paese. Che fare dopo 21 miliardi di tagli negli ultimi tre anni, con sette regioni commissariate, con un sud dove la sanità pubblica è solo una parola teorica priva di concretezza? Che fare contro gli scandali nella gestione della sanità, che divorano risorse in modo criminale? Sono d’accordo i candidati alle primarie ad eliminare il controllo della politica nei meccanismi di nomina di direttori generali e primari? E ad individuare strumenti di valutazione seri ed indipendenti, per cancellare l’epoca dei tagli lineari e combattere gli sprechi senza pesare sui cittadini e premiando chi lavora meglio?
Ma il grado di civiltà e di democrazia si misura anche dalla capacità di ascoltare la società, comprenderne i cambiamenti e adottare delle leggi nell’interesse delle persone. Il tema della cittadinanza è forse il più impellente quando facciamo riferimento all’esigenza concreta di nuovi diritti sociali e civili. L’Italia è lontana dall’Europa su molti altri temi dalle unioni civili, alle norme per il fine vita, alla procreazione assistita, sino alla ricerca così promettente sulle cellule staminali embrionali. Sono d’accordo i candidati nel riconoscere che chi nasce in Italia è italiano? Sono d’accordo nel garantire alle coppie di fatto, etero e gay, il pieno e pubblico riconoscimento civile dei propri diritti? E sono d’accordo nel sostenere una legge sul testamento biologico che permetta a ognuno di noi di decidere con i propri affetti quali cure riteniamo appropriate per noi stessi e quali no? In altre parole, si impegneranno a rispettare, e fare rispettare da tutti, i principi di laicità della Costituzione italiana?
L’Italia inoltre è arretratissima in quanto a rappresentanza femminile nelle istituzioni e più in generale nel mondo produttivo. Sono pronti i candidati a lavorare per la parità di genere nelle istituzioni e nel mondo del lavoro? Infine, uno sguardo al futuro: sappiamo che non ci sarà sviluppo né crescita se non si punterà su ricerca e innovazione. Da dove passa la strada dell’innovazione?
Abbiamo disperatamente bisogno di una classe dirigente che guardi all’Italia del 2030 e che sappia scegliere e promuovere i migliori; che sappia sradicare la gramigna dalla politica per piantare semi nuovi. Solo dando speranza e visione ai tanti giovani impegnati e brillanti che, spesso scoraggiati e sfiduciati, non provano nemmeno a mettersi in gioco e scappano all’estero, potremo creare le basi per dare una nuova opportunità di crescita all’Italia. Pongo oggi alcuni temi e domande. Altre se ne aggiungeranno, sull’ambiente o la scuola, ma l’importante è che le risposte arrivino puntuali e chiare, scacciando via ogni residua ambiguità e dimostrando il coraggio di chi ritiene di essere pronto a guidare l’Italia per restituirle crescita, orgoglio e sicurezza.

L’Unità 03.10.12