attualità, politica italiana

"L'eterno vuoto delle riforme", di Michele Ainis

C’è un nesso fra la Grande abbuffata dei consiglieri regionali e il sovraffollamento delle carceri? E cos’hanno in comune queste due vicende con la rissa fra politica e giustizia che ci ammorba da vent’anni? In apparenza, nulla: sono pur sempre spine, ma di fiori distinti. E invece no, perché la semina è la stessa, e coincide puntualmente con una riforma sciagurata. Anche se c’è voluto tempo per misurarne gli effetti, anche se ce ne accorgiamo solo adesso, quando il tempo ormai è scaduto.
È il caso, innanzitutto, della riforma del Titolo V, battezzata dal centrosinistra nel 2001. Quella che ha trasformato le regioni in altrettanti staterelli, ciascuno in grado di legiferare sull’universo mondo, ciascuno armato d’una politica estera al pari dello Stato sovrano, ciascuno addirittura libero di scegliere la propria forma di governo. Sicché il Molise ha più poteri della California, e i risultati, ahimè, li conosciamo: un’orgia di sprechi e di spreconi. Poi, certo, si può obiettare che la responsabilità è delle persone, non delle istituzioni. Se è per questo, c’è chi pensa che il fascismo fosse buono, il cattivo era soltanto Mussolini. Ma non si può entrare in polemica con i fatti: hanno la testa dura, come diceva Lenin. Ed è un fatto, anzi un misfatto, che la spesa regionale sia cresciuta di 90 miliardi nel decennio successivo alla riforma.
E c’è poi il pozzo nero delle carceri, con 21 mila detenuti in più dei posti letto, con un record di suicidi, di atti d’autolesionismo, di gesti disperati. Tanto da trasformare la pena in un delitto, per usare il titolo di un libro curato da Franco Corleone e Andrea Pugiotto. Questa scandalosa condizione dipende dall’abuso del diritto penale, che ci ha inondato con 35 mila fattispecie di reato, e che s’accanisce nei confronti dei più deboli (gli stranieri formano il 36,7% della popolazione carceraria) senza peraltro migliorare la sicurezza dei cittadini. Ma dipende altresì dalla riforma del 1992, che ha riscritto la Costituzione imponendo la maggioranza parlamentare dei due terzi per varare un provvedimento di clemenza. Sicché l’amnistia è diventata impraticabile, anche se la sollecita il capo dello Stato, come è successo pochi giorni addietro. Mentre rimane praticabile (pure troppo) qualsiasi riforma della Carta, dato che in questo caso basta la maggioranza assoluta.
Sempre in quel torno d’anni, sull’onda di Tangentopoli, venne emendato l’articolo 68 della Carta, indebolendo le immunità parlamentari. Col senno di poi, un’altra riforma sbagliata. Perché ha sbilanciato il rapporto fra politica e giustizia, in danno della prima. E perché tutti i tentativi della politica d’ottenere una rivalsa (dalla Bicamerale di D’Alema al lodo Alfano), hanno soltanto incrudelito gli animi, senza mai giungere in porto. D’altronde anche questa legislatura è costellata da riforme mancate. Quella del fisco venne promessa da entrambi i contendenti prima delle elezioni. Sulla giustizia gli annunci risalgono al giugno 2008. Cinque mesi dopo il ministro Calderoli promise la correzione del bicameralismo. Quanto alla legge elettorale, poi, non ne parliamo, anche perché abbiamo consumato ogni parola.
Da qui, a volerla ascoltare, una lezione. Se la Seconda Repubblica è fallita, è perché sono fallite le riforme da cui era stata generata. Se stiamo per celebrare i funerali di un’altra legislatura inconcludente, è perché le riforme necessarie non hanno mai visto la luce. C’è insomma un cordone ombelicale fra cattiva politica e cattive riforme. O lo spezziamo, o si spezzerà il Paese.
Il Corriere della Sera 03.10.12