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"Due strade per combattere l'abbandono scolastico", di Marco Rossi Doria*

Caro direttore, in occasione dell’apertura dell’anno scolastico Il presidente Giorgio Napolitano ha ricordato che in generale l’istruzione nel nostro Paese è migliorata, ma che nuovi compiti – di consolidamento e innovazione – sono all’ordine del giorno. Ieri a Torino si è aperto un confronto sulla lotta al fallimento formativo. Ma quali sono le tendenze nel mondo riguardo alla scuola per tutti?
Ovunque le politiche per l’istruzione seguono traiettorie ricorrenti, legate alle tappe dello sviluppo. Con la prima industrializzazione e l’ammodernamento dell’agricoltura si edifica il sistema scolastico nazionale, con il compito della lotta all’analfabetismo. Successivamente si rafforza il settore tecnico, per formare un’ampia fascia di lavoratori dell’industria qualificati. Infine, nel momento di massima espansione e crescita, si utilizza parte delle risorse per aumentare la qualità generale dell’istruzione e della formazione. E’ il momento in cui le politiche pubbliche investono fortemente e per periodi prolungati in quattro direzioni: ricerca e ricerca applicata, generalizzazione degli studi universitari o tecnici superiori, azioni dedicate alle fasce più povere rimaste escluse, apprendimento lungo tutto l’arco della vita.

Mentre queste fasi nel mondo occidentale hanno impiegato oltre un secolo, nei Paesi emergenti a partire dagli Anni 70 l’intero processo corre a velocità doppia. Il Brasile negli ultimi dieci anni ha dedicato idee e risorse per innalzare il tasso di istruzione universitaria specialmente tra i soggetti più deboli. L’India, che dalla metà degli Anni Ottanta dispone di un sistema di istruzione selettivo e di buona qualità, in particolare per i settori tecnici e scientifici, oggi è chiamata ad affrontare il tema della disuguaglianza. Una situazione analoga riguarda la Cina, dove fino ad oggi l’obiettivo principale è stato quello della produttività. Da quando nel 1998 è stato lanciato un programma per l’istruzione superiore, le iscrizioni all’università sono aumentate subito del 165% e poi del 50% per ulteriori quattro anni. E tutti ripetono: non uno deve restare indietro, ognuno deve riuscire secondo le sue possibilità.

L’Italia – che aveva combattuto l’analfabetismo fin dall’Unità – insieme al decollo industriale degli Anni 50-70, è riuscita ad ampliare la base di accesso all’istruzione superiore e poi anche a creare una buona rete di istituti tecnici. E’ riuscita invece peggio degli altri Paesi europei, purtroppo, a diminuire il tasso di abbandono precoce degli studi, soprattutto nelle sacche di maggiore esclusione economica e sociale. E non ha aumentato a sufficienza il numero di laureati, che inoltre fatica a inserire nel lavoro.

Continuiamo a perdere prima del diploma o della qualifica professionale quasi uno studente su cinque, il 18,8%, con enormi e intollerabili disparità geografiche e sociali. Questa disuguaglianza delle opportunità, oltre ad essere un fallimento per un Paese collocato nel solco del modello sociale europeo, è anche una grave perdita di risorse.

Il libro bianco sulla scuola del 2007 stimava che la dispersione scolastica, all’epoca del 20,6%, costasse all’Italia 2 miliardi e mezzo di euro.

Il nostro Paese si trova dunque di fronte a una duplice sfida: dover correre ai ripari e doverlo fare in un contesto economico profondamente mutato, senza poter utilizzare programmi estensivi, centralizzati e basati sull’aumento della spesa pubblica.

Dobbiamo affrontare questa sfida sapendo che l’abbandono precoce degli studi non è la malattia della nostra scuola, ma un suo sintomo. La malattia è la standardizzazione dell’apprendimento e delle strade a disposizione dei giovani per costruire la propria vita autonoma.

Una possibile cura può partire da due elementi: la rottura dello standard, attraverso una personalizzazione della didattica fin dalla prima infanzia; la partecipazione dello straordinario esercito civile che abbiamo a disposizione gli insegnanti e gli operatori sociali – per costruire nei territori più difficili delle vere e proprie comunità educanti. E’ il lavoro che il Governo ha avviato nel Mezzogiorno e che speriamo possa tracciare un inizio di strada verso l’obiettivo più importante: sostenere equità e sviluppo a partire dai diritti dell’infanzia e dal futuro dei giovani.

*Sottosegretario all’Istruzione

La Stampa 28.09.12