attualità, politica italiana

"La bancarotta politica del Lazio", di Francesco Cundari

Le dimissioni di Renata Polverini dalla Presidenza della Regione Lazio non sono state nè tempestive nè più spontanee di quelle di Silvio Berlusconi dalla guida del governo. Entrambi hanno tentato di restare al proprio posto con ogni mezzo, dopo avere rifiutato caparbiamente di cambiare rotta, anche quando era ormai chiaro a tutti che la nave sarebbe finita sugli scogli (per restare all’immagine della Concordia già utilizzata dalla presidente Polverini, evidentemente inconsapevole del ruolo che nella metafora spetterebbe a lei, come capitano della Regione). Non hanno voluto cambiare rotta né lasciare che altri prendessero il timone quando si era forse ancora in tempo per evitare gli scogli. La data decisiva è la stessa per entrambi: 14 dicembre 2010.
La prima delibera dell’ufficio di presidenza della Regione Lazio che dà inizio alla crescita esponenziale dei finanziamenti ai gruppi, infatti, porta la stessa data del voto di fiducia al governo Berlusconi. 14 dicembre 2010, dies horribilis del rapporto tra denaro e politica: il giorno in cui si decideva la sorte dell’esecutivo che un anno dopo avrebbe portato l’Italia sull’orlo della bancarotta, e a deciderne la sorte erano proprio i numeri della scissione promossa da Gianfranco Fini nel Pdl. Una coincidenza che getta una luce sinistra sulla vicenda e rende ancor più gravi, a due anni di distanza, silenzi e ambiguità di tutti i partiti di opposizione.
Evidentemente il mese di dicembre, con l’approssimarsi del Natale e la necessità di chiudere il bilancio, è stato sempre un mese importante per la giunta Polverini: il 16 dicembre 2011, meno di un anno fa, il centrodestra laziale approvava l’estensione del vitalizio previsto per i consiglieri anche agli assessori esterni. Proprio così: mentre tutto il Paese era alle prese con le pesanti misure della manovra Monti, mentre nelle altre Regioni i vitalizi si tagliavano o erano stati già tagliati, alla Regione Lazio venivano estesi. Una decisione che la presidente Polverini difendeva con fermezza. «La mancata equiparazione degli assessori ai consiglieri spiegava era un’anomalia della nostra Regione».
Quello che è emerso in questi giorni, attraverso scandali e inchieste giudiziarie, ha reso le dimissioni della presidente del Lazio semplicemente inevitabili. Un esito che non avrebbero comunque scongiurato né i comizi da capo dell’opposizione improvvisati disinvoltamente dalla presidente della Regione, né alcuno stratagemma avessero potuto escogitare i suoi consiglieri dal multiforme ingegno. Il tardivo e maldestro tentativo di indossare ora i panni della moralizzatrice decisa a tagliare e risanare non ha fatto che prolungare di pochi giorni l’agonia di una giunta e di una maggioranza ormai non più in grado di stare in piedi.
Lo scandalo della Regione Lazio, però, non riguarda soltanto il Pdl, ma tutti i partiti che con quel sistema hanno convissuto. Avere decuplicato in meno di un anno i finanziamenti ai gruppi presenti in Consiglio, mentre in tutto il Paese e anche nel Lazio si tagliavano i fondi a scuola e sanità, non è una responsabilità che possa essere rovesciata soltanto sulla maggioranza.
Può sembrare ingeneroso, dinanzi allo spettacolo offerto dal Pdl, prendersela proprio oggi con i suoi oppositori, a cominciare dal Pd. Ma c’è poco da fare: la responsabilità di chi si batte contro il vento dell’antipolitica è più grande di quella che spetta a chi preferisce andare con la corrente. Il compito è più difficile, la posta in gioco è più alta: chi sceglie di difendere le istituzioni e i partiti, difendendo i principi fondamentali della democrazia rappresentativa e della convivenza civile, può perdere le elezioni, ma non la faccia. Chi conduce una battaglia democratica in difesa del finanziamento pubblico ai partiti, proprio per impedire che la politica finisca ostaggio di interessi privati, deve essere più rigoroso con se stesso di chi cavalca la facile demagogia dell’abolizione di ogni finanziamento. Chi conduce una battaglia di civiltà contro l’idea che la pubblicazione sui giornali delle private conversazioni telefoniche di chiunque sia un fattore di trasparenza, invece che di ricatto e di manipolazione dell’opinione pubblica, deve essere il più determinato nel chiedere e nell’ottenere ogni forma di tracciabilità e rendicontazione di ogni euro di denaro pubblico; dev’essere il primo a chiedere e ottenere trasparenza nei bilanci di tutte le istituzioni e di tutti i partiti, a tutti i livelli.
Populisti e demagoghi di ogni colore possono attraversare ogni scandalo senza troppe preoccupazioni. La storia italiana degli ultimi vent’anni ne offre ampie dimostrazioni: finché la barca regge o sembra reggere ci sarà sempre un nuovo capro espiatorio su cui indirizzare rabbia e scontento, distogliendo l’attenzione dalle proprie magagne. Sono i democratici che non possono permetterselo.
L’Unità 25.09.12