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“Jobs act, le donne vittime di violenza potranno assentarsi tre mesi dal lavoro”, di Anna Gadda, Sabina Ortelli e Marta Pietrobelli – 27esima ora Corriere.it 17.03.15


 

 

 

 

 

 

La violenza di genere entra nell’agenda dell’attuale Governo e diventa materia di intervento politico nell’ambito delle disposizioni che regolano i rapporti di lavoro.

Il Decreto attuativo del Jobs Act sui temi di conciliazione lavoro-famiglia introduce il congedo per le donne vittime di violenza di genere che intraprendono percorsi di protezione. Le lavoratrici dipendenti del pubblico e del privato che subiscono violenza, per motivi legati allo svolgimento di tali percorsi, hanno diritto ad astenersi dal lavoro per un periodo di tre mesi, anche non continuativo, interamente retribuito. È inoltre prevista la possibilità di trasformare il rapporto di lavoro da tempo pieno a part-time, nonché l’opportunità di essere nuovamente trasformato, a seconda delle esigenze della lavoratrice, in rapporto di lavoro a tempo pieno. Il Decreto dà altresì la facoltà alle collaboratrici a progetto di sospendere il rapporto contrattuale per motivi connessi allo svolgimento dei suddetti percorsi di protezione.

Attraverso il Jobs Act, la violenza di genere esce dalla specificità e settorialità a cui è solitamente relegata per contaminare altre politiche a partire dalla disciplina che regola i rapporti di lavoro. Acquisisce una maggiore rilevanza sociale, entra a far parte dei discorsi pubblici e politici e diventa «mainstreaming»: le sue diverse implicazioni in molteplici settori, livelli e ambiti incominciano, quindi, a essere valutate e prese in esame. Questa disposizione contribuisce a rendere maggiormente visibile il fenomeno della violenza di genere e, in particolare, quella domestica che, risiedendo nell’intima sfera delle relazioni famigliari, fatica a emergere. Può inoltre favorire la percezione, la comprensione e la rappresentazione del fenomeno a livello culturale.

Di certo il Decreto attuativo costituisce un importante passo in avanti nelle azioni di contrasto alla violenza nei confronti delle donne e l’introduzione del diritto al congedo lavorativo può essere considerato un ulteriore tasselloverso la tutela dei diritti umani contro ogni forma di discriminazione fondata sul genere. Tuttavia, pone alcune questioni su cui le istituzioni devono e dovranno interrogarsi.

Innanzitutto, il Governo, in linea con la Convezione di Istanbul e la legge n. 119/2013 (conosciuta come legge sul «Femminicidio»), riconosce i Centri antiviolenza e le Case rifugio, solitamente associazioni del terzo settore, come i principali soggetti che si occupano di prevenzione e contrasto della violenza contro le donne. Infatti, accanto ai servizi sociali del Comune, individua proprio i Centri antiviolenza e le Case rifugio come i soggetti certificatori dei percorsi di protezione per accedere alle agevolazioni previste. Attraverso questa scelta, il Decreto attribuisce la stessa funzione a soggetti diversi per natura, storia e ruolo. Di fatto equipara associazioni del privato sociale agli Enti pubblici, affidando loro le stesse responsabilità e gli stessi compiti e insabbiando questioni di merito sulle funzioni e competenze di ciascun soggetto.

Ma chi tra i numerosi soggetti che si occupano di violenza di genere può essere considerato Centro antiviolenza e Casa rifugio? Se il Decreto rimanda all’art. 5bis della legge n. 119/2013 per l’individuazione di soggetti che possono promuovere Centri antiviolenza e Case rifugio, ad oggi non esiste una banca dati univoca dei Centri antiviolenza e delle Case rifugio riconosciute sul territorio nazionale: a livello istituzionale il Dipartimento per la Pari Opportunità fornisce un elenco sulla base di dati forniti dall’Arma dei Carabinieri, mentre le Regioni e altre realtà locali, pubbliche e del privato sociale, ne individuano altri. E se per un verso non è semplice riconoscere quali sono i Centri antiviolenza, dall’altro trattasi di un’operazione ancora più complessa per le Case rifugio. Siamo di fronte a realtà con diversi approcci, differenti mission ed esperienze eterogenee nate da movimenti femministi, realtà religiose e del privato sociale. Il 27 novembre 2014 grazie all’Intesa in sede di Conferenza tra Stato e Regioni, pubblicata in Gazzetta Ufficiale il 18 febbraio 2015, sono stati individuati specifici requisiti minimi che i Centri antiviolenza e le Case rifugio devono soddisfare. Tuttavia, ad oggi, risulta poco chiaro se, come e quando questi requisiti diventeranno vincolanti. Di certo spetterà alle singole Regioni costituire un elenco preciso e puntuale dei soggetti che rispondono a tali requisiti minimi, pur con non poca difficoltà vista la frammentazione delle esperienze. Questo passaggio risulterà fondamentale non solo per l’individuazione di quei soggetti in grado di certificare il percorso di protezione, ma anche per garantire un’attenta ripartizione delle risorse previste dalla legge n. 119/2013.

A questo punto, emergono alcuni quesiti.

Da un lato viene da chiedersi come sia possibile affidare il potere di certificare la condizione di una donna che ha subito violenza al fine di accedere al congedo lavorativo a soggetti del privato sociale o a realtà religiose che, ad oggi, risultano essere non solo non accreditati/e, ma nemmeno individuati/e con precisione e coerenza a livello locale, regionale e nazionale. Quei Centri antiviolenza, che hanno esperienze pluriventennali e che negli anni hanno operato anche in assenza di risorse e supporto da parte delle istituzioni, sottolineano costantemente come il definire percorsi di accompagnamento per le donne che subiscono violenza sia frutto di un lavoro che necessita di professionalità e competenze specifiche. Come, quindi, si può avere la garanzia che quei soggetti certificatori, siano essi i servizi sociali dei Comuni, Centri antiviolenza o Case rifugio, risultino adeguatamente attrezzati per una tale incombenza?

Dall’altro, perché un Centro antiviolenza e una Casa rifugio dovrebbero assumersi un tale compito/ruolo di «certificatore»? Il certificare questo tipo di percorsi comporta responsabilità e oneri di cui non è detto che le operatrici, molto spesso volontarie, vogliano farsi carico. Come, quindi, bilanciare la richiesta di una funzione pubblica con la natura propria di ciascun Centro antiviolenza e Casa Rifugio?

Altro aspetto che riteniamo debba essere precisato riguarda il ruolo del sistema socio-sanitario. I servizi socio-sanitari che, per eccellenza, sono gli interlocutori che possono motivare l’astensione dal lavoro risultano esclusi dal provvedimento: potranno, dunque, constatare che la donna subisce violenza, ma non certificare i percorsi di protezione?

E ancora, quando il legislatore parla di percorsi di protezione, a cosa si riferisce? Il provvedimento riguarda solo le donne che sono ospitate in Case rifugio o è esteso anche alle donne che seguono percorsi di fuoriuscita dalla violenza che non necessariamente implicano la protezione?

Ultimo quesito, non meno rilevante, riguarda l’impatto che questo Decreto avrà sulla tutela dell’anonimato e della segretezza delle donne, richiesta anche dalla Convenzione di Istanbul. Se fino ad oggi segretezza e anonimato sono stati garantiti dai soggetti che operano all’interno di un sistema condiviso, come si configura l’impegno del datore di lavoro nel gestire informazioni così sensibili?

Sicuramente l’aver introdotto il tema della violenza di genere all’interno di un provvedimento sul lavoro è un passo in avanti per le politiche pubbliche del Paese, da cui non si deve e non si può tornare indietro. Tuttavia, date le complessità che l’applicazione di un tale provvedimento può comportare si rende sempre più urgente un confronto attento, approfondito, costante e condiviso sulle dirette e concrete implicazioni che la costruzione di una politica pubblica ha e avrà tra i diversi soggetti coinvolti. Tenendo presente che la legge n. 119/2013, l’Intesa Stato-Regioni e ora il Jobs Act definiscono una politica pubblica sulla base di approcci e metodologie sviluppate al di fuori del sistema istituzionale, come si conciliano i diversi interessi coinvolti? Fino a che punto quei soggetti che da sempre hanno operato nel privato sociale sono disposti a condividere esperienze e responsabilità con le istituzioni? E le istituzioni, data la recente attenzione al tema, sono consapevoli della complessità della gestione del fenomeno della violenza nei confronti delle donne?