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"Test Invalsi: cosa c'è che non va e come si potrebbero cambiare", di Francesca Sironi

Poco supporto alle scuole. Domande scadenti. Nessun questionario per conoscere meglio genitori, studenti e insegnanti. Sovrapposizione fra prove nazionali e internazionali. Così da 30 anni le valutazioni standard dicono sempre le stesse cose delle nostre scuole. Senza che per questo l’educazione migliori. Ecco dove bisognerebbe intervenire, secondo due grandi esperti. È un rito che si ripete ogni anno. Col suo corredo di stress, fatica e proteste. I test Invalsi, introdotti per la prima volta 13 anni fa e diventati d’obbligo per tutti gli studenti italiani, dalle elementari alle superiori, catalizzano battaglie e speranze come pochi altri aspetti della scuola dell’obbligo. Valutare infatti è difficile. E se la misura viene imposta dall’alto può risultare odiosa. Quest’anno alla guida dell’ente è arrivata una nuova presidente, Anna Maria Ajello, che promette di voler cambiare le cose e di ascoltare i pareri di chi dissente. “l’Espresso” ha chiesto a due esperti di provare a spiegare, concretamente, cosa c’è che non va in queste prove. E come potrebbero migliorare. Così Bruno Losito , docente a Scienze della formazione all’Università di Roma Tre e per 15 anni responsabile dei quiz internazionali dell’Invalsi, e Clotilde Pontecorvo , professore emerito di Psicologia evolutiva alla Sapienza, raccontano cosa servirebbe, secondo loro, per rendere i test più giusti ed esatti. E quindi forse più benvoluti.

IO MISURO MA POI?
«L’aspetto forse più disperante, dei test Invalsi, è che gli elementi di fondo fotografati dai risultati di oggi sono gli stessi degli anni ’70», inizia Losito: «Gli esiti nazionali sono oltremodo prevedibili: la distanza del Sud dal Nord, l’arretratezza delle regioni meridionali … Uno si chiede a cosa serve continuare a insistere sulla valutazione se poi non cambia niente. È frustrante». «Io c’ero, 30 anni fa, nella squadra che ha avviato le prime prove standard per misurare le competenze degli alunni», racconta Pontecorvo: «E in effetti ciò che scoprimmo allora a livello nazionale è purtroppo quello che emerge ancora oggi: le ineguaglianze derivano dalla collocazione territoriale». Ma è colpa dei test se alle loro domande gli studenti falliscono a seconda di dove sono nati? O della politica che non interviene a riguardo? «Bisognerebbe definire a cosa servono i quiz», risponde Losito: «Se servono per programmare politiche nazionali oppure piuttosto per permettere ai docenti della singola scuola di intervenire sulle carenze. Ma per questo ci sarebbe bisogno di supportare le classi, dare loro esperti, fondi, tempo. Da 13 anni ormai le prove Invalsi sono entrate nelle scuole. Perché non finanziare una ricerca che studi e analizzi sul serio se sono servite a qualcosa? Se a professori e dirigenti scolastici sono state utili per cambiare oppure no? Se hanno fatto avviare miglioramenti oppure sono rimaste nei cassetti?».

QUIZ VS CONOSCENZE
L’altro tema eternamente discusso riguardo alle prove è loro sostanza. Di imbuti a crocette, fondamentalmente, domande chiuse a cui rispondere attingendo alle proprie conoscenze di grammatica, matematica, logica. Ma chiuse. «Io ho sempre difeso le prove scritte», spiega Pontecorvo: «Ho insegnato per 15 anni in un liceo classico e dalla mia esperienza, oltre che dai nostri studi, ho sempre tratto l’idea che le prove scritte siano più oggettive delle interrogazioni orali, nelle quali il docente mette per forza la sua parte. L’interrogazione serve per interagire, approfondire, ma non è la forma migliore per valutare. Certo, poi c’è prova scritta e prova scritta». Ovvero c’è l’abisso che separa una composizione a soggetto libero da un quiz, e da un quiz raffazzonato a uno studiato nel dettaglio. « Gli attuali test Invalsi sono molto più “chiusi” di quelli internazionali, paradossalmente», commenta Losito: «E questo per un evidente problema di costi e di tempo: vogliono fare prove universali, dirette a milioni di studenti, e correggerle in pochi mesi per restituire i risultati alle scuole entro ottobre. Così è impossibile, anche assumendo ricercatori precari. La verifica delle risposte a domande aperte è uno dei costi maggiori nel budget Invalsi. Ma sono anche le domande più importanti». Quindi? « È davvero necessario sottoporre questi test a ogni alunno in ogni classe ogni mese di maggio di ogni anno? », si chiede il docente di Roma Tre: «Non sarebbe sufficiente proporre le prove con cadenza biennale, per dare spazio a test più aperti, più complessi, quindi a correzioni più attente, così come ad analisi più profonde sui risultati da inviare ai docenti e ai dirigenti scolastici?»

LE DOMANDE CHE MANCANO
C’è un altro vuoto nei mega-test che impegnano in questi giorni bambini e ragazzi italiani. Ed è quello del contesto: «Anche qui, assurdamente, i test internazionali sono più attenti dei nostri», spiega Losito, che ne è stato responsabile per 15 anni: «Insieme alle domande di matematica e italiano c’è sempre un questionario rivolto agli studenti e ai loro genitori, per poter confrontare i risultati col contesto di provenienza degli alunni. Nelle prove nazionali questo aspetto manca». «Bisognerebbe averlo chiaro, e ribadirlo ogni volta: questi test servono a misurare. Non a valutare», continua Pontecorvo. Sembra una differenza lessicale, più che sostanziale, visto che il ministro che ha introdotto le prove, Letizia Moratti, li chiamava per l’appunto “ strumenti di valutazione ”, e che i dirigenti scolastici mostrano fieri i risultati sui siti web d’istituto se sono eccellenti o li nascondono se sono scarsi. «Questo è un grave errore delle istituzioni», afferma la docente della Sapienza: « Per controllare e valutare sarebbero necessari molti altri valori che ora non entrano nei risultati. E riguardano gli alunni, le loro famiglie, la posizione della scuola, il contesto. Soprattutto non servono per valutare gli insegnanti, come suggeriscono invece alcuni dirigenti ».

DOPPIONE INTERNAZIONALE
Nel 2012 l’istituto Invalsi ha speso complessivamente 24 milioni e 962 mila euro. Per i prossimi tempi calcola le sue necessità finanziarie in 16 milioni e 960 mila euro all’anno. Di questi, quattro serviranno per le prove universali nazionali; due per quelle internazionali; 850 mila euro andranno a quelle campionarie; e due milioni e mezzo infine serviranno a “supportare” le scuole nella loro “autovalutazione”. «Il confronto internazionale è indispensabile», sostiene Pontecorvo. «Ma nella fotografia che dà del Paese a livello centrale si sovrappone agli esisti delle prove nazionali », aggiunge Losito. Quindi? Si tratta di un costoso doppione? «In parte sì», risponde il docente romano: «Ed è una sovrapposizione che va risolta. Il campione selezionato per i confronti internazionali probabilmente è troppo vasto. Si potrebbe risparmiare ed avere ugualmente un parametro con cui confrontare i nostri risultati a quelli degli altri Paesi dell’Ocse».

NAUSEA DA TEST
L’ultimo rischio, il più avvertito, forse, dai docenti, riguarda le conseguenze che le prove hanno nelle classi. «I nostri studenti hanno un tasso altissimo di risposte non date», spiega Pontecorvo: «Ed è dovuto al fatto che non capiscono le domande. Non sono abituati a quell’impostazione, alla formulazione dei problemi proposta dagli standard internazionali. Il rischio è che gli insegnanti allora si riducano al “teaching to the test”, ovvero ad addestrare gli alunni a rispondere ai quiz piuttosto che a rafforzare le competenze di base che questi richiedono . Una prospettiva pedagogicamente orribile». Le prove intanto aumentano però, risicando tempo all’insegnamento, fra campioni, test nazionali, confronti internazionali e questionari vari. Richiedendo straordinari ai docenti per correggere e verificare: «Il rischio è che le classi arrivino a non sopportare più l’idea di doversi sottoporre ai test », racconta Losito: «Come già sta avvenendo in paesi come la Gran Bretagna. Nel 2005, quando chiamavamo le scuole per chiedere di partecipare a una prova internazionale non si tirava indietro nessuno. I miei colleghi di oggi dicono che ora chiamano e iniziano a trovare resistenze. Continuando così andranno in sovraccarico, e senza un serio incentivo per farlo».

L’Espresso 11.05.14