Primo: il lavoro: Ma prim’ancora il lavoro che non c’è. Il primo maggio c’era poca aria di festa, per l’Italia dei disoccupati, per i troppi che ancora rischiano di perderlo, il lavoro. E hanno fatto bene la Cgil e l’Unità a rimarcare quel giorno ciò che dal 2008 sappiamo troppo bene, raccontato dalle lettere dei lettori, dai messaggi di tanti coetanei: il 1° maggio di chi non ha un lavoro per festeggiare. Il giorno dopo, col ritardo consueto della statistica sulla vita, l’Eurostat avrebbe certificato tutto questo nella cifra – sempre più sconvolgente – del 12,7%, in controtendenza rispetto al lieve miglioramento registrato in Europa.
E però, non ci stancheremo di ripeterlo: si discuta pure, con maggiore preoccupazione, del dato nazionale della disoccupazione, ma nella consapevolezza che questo ne nasconde altri, che restituiscono un’immagine assai più reale – più drammatica, cioè – della crisi. L’immagine di un’Italia spezzata, con un Centro-Nord che peggiora la sua condizione ma che, con poco più del 9% di disoccupati (giovani, nella stragrande maggioranza), rimane ben al di sotto della media Ue e un Sud che, secondo le stime della Svimez, raggiungerebbe circa il 20% – è come in Spagna, in Grecia. Sono oltre tre milioni i disoccupati italiani, e la metà nel solo Mezzogiorno. Solo che a questi, come se non bastasse, va aggiunta una «zona grigia» di disoccupati «nascosti» (persone che cercano lavoro, ma non attraverso i canali formali) e di «scoraggiati» (che nemmeno lo cercano perché sanno di non trovarlo, ma che sarebbero ben disponibili a lavo- rare) di circa 3,5 milioni (sempre stime Svimez) – quasi i due terzi dei quali sono meridionali.
Abbiamo voluto ricapitolare i numeri che si nascondono tra le pieghe delle percentuali della disoccupazione, perché, ad un’analisi un poco attenta (ma «velocissima», tranquilli), indicano precise priorità politiche: lavoro e Mezzogiorno. Il lavoro in verità è già al centro dell’attenzione del governo – dagli 80 euro al Jobs act. Solo che l’emergenza è il lavoro che non c’è, prima fonte di disuguaglianza interna e di divario Nord-Sud, in una misura che mina la vita democratica assai più di qual- che emendamento all’accordo sul Senato. Un’emergenza che non può essere affrontata con l’«illusione giuslavoristica» che ha dominato questi vent’anni, traducendosi in una precarietà che ha indebolito il lavoro di tutti, e che ancora permea il decreto Lavoro in discussione, tanto più alla luce delle recenti modifiche volute da Sacconi.
Con l’urgenza delle cose attuali, delle vere priorità , si possono scegliere con maggiore accuratezza le leve da attivare. Quei numeri drammatici, ad esempio, ci dicono di un «ritorno» nel mercato del lavoro: tanti «inattivi» hanno moltiplicato le azioni di ricerca di occasioni di lavoro, anche nel Sud dov’è maggiore il grado di scoraggiamento. C’è anche questo, infatti, dietro l’aumento del tasso di disoccupazione. Mai come adesso, allora, è il momento di affrontare uno dei maggiori punti di debolezza del nostro sistema: il passaggio dalla formazione al lavoro. Oltre la Garanzia giovani, serve una riforma complessiva dei luoghi dove formalmente va fatta incontrare l’offerta e la domanda di lavoro, nel senso dell’efficienza e della trasparenza, per orientare meglio non solo i lavoratori ma anche quelle imprese (troppo poche) che ancora investono e assumono, aiutandole a compiere le scelte migliori senza «sprecare», con regole permissive e degradanti, l’investimento in capitale umano. È una riforma che avrebbe un valore anche per la qualità della democrazia, specialmente nel Mezzogiorno, dove non esiste il «mercato del lavoro» ma un sistema clientelare che non è figlio della sorte o dell’antropologia, ma il frutto avvelenato del mancato sviluppo, della debolezza del sistema produttivo.
Bisogna aprire da subito una grande discussione pubblica, verso l’atteso Jobs Act, con l’ambizione che possa rappresentare qualcosa di più di una nuova regolamentazione del lavoro, ma la vera grande riforma che aspetta il Paese: creare nuovo lavoro e lavori nuovi, soprattutto nel Mezzogiorno, per tirarci fuori dalla crisi. Servono investi- menti pubblici, anche come elemento di battaglia politica a livello europeo su vincoli e politiche comuni. Interventi diretti e strumenti che favoriscano partnership con i privati. Il mondo che esce dalla crisi, l’America di Obama che riduce drasticamente il tasso di disoccupazione e riparte, ha fatto questo. E noi davvero pensiamo che solo con le regole e la leva fiscale potremmo affrontare le
grandi sfide dello sviluppo, a partire da quella decisiva della sostenibilità? «Cambiare, verso il Jobs Act», potrebbe essere lo slogan (visto che uno slogan serve sempre). Perché gli investimenti non significano spesa pubblica purchessia, ma lo sforzo di un progetto per l’Italia dei prossimi vent’anni, un disegno di «ingegneria economica e socia- le» che coinvolga esperti (non solo economisti) e imprese, sindacati e forze vive della società, quelli che hanno le conoscenze e il «diritto» di immaginare il futuro dei luoghi.
Se gli 80 euro si rivolgono alle fasce medio-basse del lavoro dipendente, bisognerebbe avere l’ambizione di dare risposte immediate a quei quasi sette milioni di italiani senza lavoro. E non solo perché è l’unico modo per riattivare uno sviluppo all’altezza delle urgenze sociali e democratiche del Paese. Ma anche per un preciso risvolto politico. Qual è la base sociale del «nuovo» Pd? In questi giorni, un timore taciuto ha accompagnato le pre- visioni dei flussi elettorali per le Europee: e cioè, che l’auspicato successo del Pd sia il frutto di una sostituzione, pur con margini di guadagno, con nuovi elettori (anche ex FI) di vecchi elettori, molti dei quali scivolano verso l’astensionismo. Più che i voti e gli orientamenti politici precedenti, dovremmo guardare con preoccupazione alla condizione sociale. Chi rappresenta oggi i disoccupati? Il Pd al governo cosa ha da offrirgli? Il timore maggiore è che la maggioranza di essi, specie al Sud, si rifuggi verso la protesta antisistema (M5S o altri avventurieri) o verso l’astensione, come forma di «diserzione» dalla vita civile. Specie a queste elezioni europee, non solo per evitare soprese elettorali, a quell’universo dei senza lavoro bisognerebbe rivolgersi: perché è proprio dalla battaglia per una piena e buona occupazione che si costruisce un’altra idea di Europa, di sviluppo e di democrazia.
L’Unità 05.05.14