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"Il film di una storia italiana", di Francesco La Licata

Onestamente, c’è qualcuno che possa dirsi davvero sorpreso per l’epilogo toccato alla vicenda di Dell’Utri? Chi ha memoria e conosce, anche superficialmente, la cronaca e la storia del nostro paese non può non provare una sensazione di fastidioso «déjà-vu» di fronte alla trita sceneggiatura messa in scena dai vari protagonisti, che concorrono alla realizzazione dell’ennesima «storia italiana».
Lo stesso Dell’Utri, per quella che è stata la lunga e annosa sua vicenda politico-giudiziaria, sembra perfettamente rispondere al più classico cliché della italianissima sceneggiata. Che l’ex senatore dovesse finire latitante ai più appariva scontato. Dopo averle tentate tutte, sempre al riparo del formidabile scudo del suo amico e protettore, Silvio Berlusconi, dopo aver «italianamente» sfidato il comune senso del pudore definendo lo stalliere Vittorio Mangano «eroe» della resistenza ai giudici, non gli rimaneva altra strada, sopraffatto da un sistema giudiziario che – seppure in grave ritardo e con mille tentennamenti – si avvia ad una conclusione non proprio favorevole a Dell’Utri, ormai privo della tutela parlamentare che lo stesso Berlusconi gli ha «dovuto» negare per non essere travolto dalla protesta anti-casta.

Non sono mancati gli indizi di ciò che Dell’Utri si apprestava ad organizzare: la villa nella Repubblica Dominicana, acquistata a conclusione di una favorevolissima trattativa intrattenuta col Cavaliere e chiusa con l’acquisizione di una notevole somma, tale da offrire qualche garanzia di serenità nell’eventualità di gravi avversità. Più di un viaggio a Santo Domingo in compagnia di una buona quantità dei suoi amati libri. E c’è da dire che, di fronte a tanta attività, la procura generale per due volte aveva chiesto alla corte d’appello un ordine d’arresto che avrebbe potuto impedire ogni velleità di fuga. Ma i giudici – che non sono dei feroci torturatori, come vanno predicando i garantisti a tassametro – hanno rigettato, evidentemente convinti che non vi fosse un reale pericolo di fuga e preferendo aspettare il definitivo pronunciamento della Cassazione, previsto per martedì prossimo.

Dura da quasi vent’anni la guerra tra la magistratura e Marcello Dell’Utri. Prima indagato con una cautela esemplare (non foss’altro che per il fatto di ritrovarsi accomunato al destino del più potente Berlusconi), poi massacrato soprattutto da una slavina di accuse rovinategli addosso da un esercito di pentiti che lo hanno descritto come l’uomo schermo fra Cosa nostra e Berlusconi, prima imprenditore che usa la protezione della mafia e poi politico che può risolvere i problemi dell’organizzazione criminale.

Anche questa guerra dei vent’anni, in fondo, risponde ai requisiti che caratterizzano le grandi storie italiane. La battaglia cruenta cominciò negli Anni Settanta (i pretori d’assalto, gli scandali dei petroli) ed ebbe lo stesso andamento di quella di questi ultimi tempi: indignazione generale e delega purificatrice alla magistratura per emendare la malapolitica, ma fino a un certo punto, perché poi tutto deve tornare come prima e quindi ritiro unilaterale della delega.

Mafia e politica meritano un posto di riguardo in questa storia cruenta che può annoverare anche vittime colpite da fuoco amico ed errori da più parti. Ma il prezzo di sangue pagato dalla comunità, dalle istituzioni, da tanti cittadini e servitori dello Stato dovrebbe far passare in secondo piano ogni singolo interesse di bottega. Non è andata esattamente così.

Ed oggi, dunque, rivediamo un film più volte visto. Persino nomi e luoghi tornati d’attualità, accendono ricordi e suggestioni del passato. Per esempio Beirut. Dell’Utri potrebbe – dicono – essersi rifugiato in quella città che è stata ed è pure crogiolo di terroristi e spioni impresentabili. Ma ha accolto anche finanzieri, imprenditori in difficoltà (il più noto è Felice Riva) e politici inseguiti dalla magistratura, come il senatore Graziano Verzotto (Dc) latitante in Libano per storie legate alla mafia, al petrolio e alla politica. Sostò a lungo a Beirut, intrattenendo amabili rapporti coi giornali italiani che lo intervistavano regolarmente, anche se ricercato. Poi si spostò a Parigi (dove sembra si stia «curando» Dell’Utri) e lì attese la liberazione da ogni accusa. Morì nella sua villa, alla periferia di Padova.

E possibile, dunque, che «Marcello» rinunci alla pace di Santo Domingo, per dirigersi in Libano? È possibile, è coerente col personaggio, se è vero che l’ex senatore, molto italianamente, abbia fatto intendere di non andare matto per il placido paesaggio dominicano: «Troppo noioso». Poi, magari, ci stupirà tutti e, nel caso di sentenza contraria, curerà le sue arterie e si presenterà ai giudici, offrendo uno strepitoso finale a sorpresa.

La Stampa 12.04.14