attualità, politica italiana

“Il colpo di coda del Caimano”, di Curzio Maltese

L’aggettivo per definire la strategia del centrodestra deve essere aggiornato di continuo. Ieri era «inquietante», come ha detto il presidente Napolitano. Oggi siamo passati al grottesco. Il lungo delirio quotidiano cominciato due mesi fa, dopo la sentenza sull’evasione fiscale Mediaset, ha toccato nella giornata di ieri il suo picco critico con la strana decisione di Berlusconi di confermare le dimissioni dei parlamentari del Pdl.
Ma anche la presenza dei ministri di destra nel governo Letta. Come se il governo potesse sopravvivere a un atto così clamoroso.
È ormai difficile capire la logica che muove le mosse contraddittorie dell’ultimo Berlusconi. Forse non c’è neppure. La scelta schizofrenica di ritirare i parlamentari e non i ministri, sembra rispondere piuttosto a un misto di sentimenti di rabbia, disperazione e debolezza. L’ex premier sa che se si andasse davvero a una conta sull’ipotesi di far cadere il governo e tornare presto al voto, una parte dei suoi non lo seguirebbe. Con un passo avanti e due indietro, ogni santo giorno, Berlusconi cerca di tenere insieme falchi e colombe e al contempo continua a tenere la pistola puntata alla tempia dell’alleato Pd, in vista del voto sulla decadenza. A parte questo, c’è la furia dell’Unto contro l’ipotesi per lui offensiva di essere trattato come un cittadino normale. Nel suo caso, un pregiudicato normale.
Alla fine, Berlusconi e la sua creatura, il centrodestra, si trovano insieme a un bivio fatale fra quel che converrebbe loro e quel che sono. A Berlusconi, a Forza Italia e anche alle contigue aziende di famiglia, oggi converrebbe un ritiro dalla scena del padre fondatore, condannato e quasi
ottuagenario, magari col ruolo nobile di king maker del futuro leader. È la strada dolorosa ma utile intrapresa vent’anni fa in Germania da Helmuth Kohl, travolto dallo scandalo dei fondi neri. Ma Berlusconi non è Kohl, Forza Italia non è la Cdu. Qui abbiamo un despota egoista ed eversivo, circondato da una corte di miracolati. È possibile che alla fine la natura prevalga sulla ragione e la destra decreti la fine delle larghe intese.
Per la verità, dopo la giornata di ieri, il governo è già un morto che cammina. È incapace di agire, bloccato sulle vicende personali di un uomo, costretto a tirare a campare fra un rinvio e l’altro. Il Consiglio dei ministri di ieri si è concluso con l’ennesimo nulla di fatto. Questo è un governo d’inizio legislatura e sembra di una mesta fine, ha soltanto cinque mesi di vita ed è già vecchio. Il pregiudizio ideologico, favorevole o contrario, che ha accompagnato la nascita delle larghe intese, ormai può e deve lasciare il posto a un giudizio sui fatti. In cinque mesi il governo non ha saputo o non è stato messo nelle condizioni di avvicinarsi a nessuno degli scopi per cui era nato. Non ha tenuto sotto controllo il debito pubblico, salito al 132 per cento del Pil, e neppure il rapporto Pil-deficit. Non ha fatto ripartire l’economia, non ha creato un posto di lavoro e non ha avviato alcuna riforma, tantomeno quella della politica o almeno del sistema
elettorale. Quanto al sacro totem fondatore, la Stabilità con la maiuscola, giudichi il lettore. Nell’insieme finora il governo Letta è parso una versione peggiorativa del non rimpianto governo Monti. A riconferma che in Italia le grandi coalizioni non funzionano. Non solo e non tanto per motivi ideologi, etici o come vogliamo chiamarli. Non funzionano e basta. Berlusconi non è Kohl e tantomeno Merkel, Pdl o Forza Italia non sono comunque la Cdu, il Pd non è l’Spd e non esistono valori comuni. Quei pochi che in Germania hanno consentito l’alleanza fra destra e sinistra, le leggi, la Costituzione, l’interesse del Paese, qui sono attaccati, messi in dubbio e finanche derisi ogni giorno. E allora di che stiamo parlando?

La Repubblica 28.09.13

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“LA POLITICA DELL’EVERSIONE”, di GIANLUIGI PELLEGRINO

Ormai è chiaro che nemmeno la legge Severino c’entra più niente. Né lo stanco ritornello di una incostituzionalità che semplicemente non esiste. Il Pdl infatti brandisce argomenti pronti ad essere usati anche contro la solenne interdizione dai pubblici uffici che da qui a breve sarà definitiva. Siamo così al plastico e persino ostentato abuso di potere politico contro la sanzione di un grave illecito comune, doverosamente punito dal controllo giurisdizionale che la Costituzione garantisce “in nome del popolo italiano”. La maschera è quindi definitivamente gettata. Non c’è più nemmeno l’argomento di facciata che allegava una pretesa reazione al Pd che starebbe tradendo un patto di solidarietà e di salvacondotto che peraltro sarebbe gravissimo, e nullo di diritto, se fosse mai stato stipulato. C’è invece la dichiarata volontà sovversiva di un intero partito ridotto a mero esecutore degli ordini di un condannato che è disperato perché nonostante i mille espedienti utilizzati per sfuggirvi (censurati più volte dalla Corte costituzionale), ha infine dovuto fare i conti con il lento, ma per fortuna inesorabile principio della “legge uguale per tutti”. Per quanto incredibile possa essere, è proprio contro questo che annunciano dimissioni di massa i parlamentari del Pdl ridotti alla mera obbedienza al capo, dal combinato disposto di un partito padronale e del porcellum, che ne è la più cristallina proiezione e ne reca infatti le impronte digitali, perché riduce persino dal punto di vista istituzionale senatori e deputati a soldatini di latta nelle mani di chi li ha nominati.
Siamo così alla prova provata di un eversione conclamata come l’ha definita ieri Ezio Mauro. Un’eversione non più sottesa o malcelata ma eletta a programma politico annunciato, declamato in pubblica piazza e perseguito con disperata ma geometrica potenza. Del resto la straordinaria gravità di quanto accade è nella necessaria reazione che il Capo dello Stato, supremo garante dell’ordine costituzionale, ha dovuto mettere nero su bianco, consegnando suo malgrado anche al resoconto documentale della storia repubblicana, la fotografia di una sedizione senza precedenti che si riteneva impossibile dover registrare in una democrazia occidentale nel terzo millennio. È la riaffermazione di principi basali di uno Stato di diritto che il Presidente della Repubblica ha dovuto ufficialmente sottolineare, essendosi superato ogni possibile limite e avendo lo stesso Capo dello Stato fatto esercizio del massimo possibile di pazienza costituzionale a partire dalla già inquietante occupazione del tribunale di Milano, che i parlamentari del Pdl inscenarono all’alba di questa nuova e definitiva escalation eversiva.
Tutto questo riesce persino a mettere in secondo piano la pur straordinaria gravità dei fatti per cui Berlusconi è stato condannato, per altro verso trascurati dai troppi che solo adesso appaiono scoprire quello che sin dall’inizio era ben chiaro. Non c’era purtroppo spazio per alcun serio progetto di larghe intese con chi persegue come unico e irricevibile punto di programma il salvacondotto di un condannato.
Senza dire poi che a sancire un definitivo giudizio politico bastava quanto affermato dalla stessa difesa del Cavaliere davanti ai giudici dove infine si riconosceva l’enorme e straprovato sistema di frode fiscale orchestrato dalla sue aziende, cercandosi soltanto di sostenere come non raggiunta la prova sulle sue personali responsabilità penali. Bastava fermarsi qui, alle sue stesse parole e domandarsi se potesse avere un ruolo politico e istituzionale di qualche minima spendibilità il proprietario di imprese che si riconosce abbiano scippato all’erario e quindi a tutti noi, centinaia di milioni di euro a diretto beneficio del padrone.
Ma ora che lo Stato di diritto, comprovata anche la sua responsabilità penale, sta imponendo la dovuta interdizione alle cariche pubbliche, una logica proprietaria bulimica e ipertrofica impone di piegare definitivamente anche quel che resta delle istituzioni rappresentative. Dopo aver comprato con ogni mezzo donne, giudici, testimoni e forse anche senatori per ribaltare governi in carica, non si accetta che non proprio tutto alla fine si possa acquistare. Si materializza così non solo il finale di fiamme del Caimano di Moretti, ma anche la ballata sublime e angosciante che al cavaliere dedicò il grande Benigni: “Io compro tutto dall’A alla Z ma quanto costa questo c…. di pianeta. Lo compro io. Lo voglio adesso. Poi compro Dio, sarebbe a dir compro me stesso”.

La Repubblica 28.09.13

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