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“L’insegnante che vorrei a lezione con Recalcati e Lodoli”, di Antonio Valentino

In queste settimane, segnate dall’inizio del nuovo anno scolastico e delle lezioni, giornali e riviste, cartacei e on line, si sono sbizzarriti a proporci i punti di vista di personaggi, generalmente noti e accreditati, del mondo dell’università e della scuola e della cultura in genere. Tra i non pochi che offrivano considerazioni con cui in ogni caso fare i conti, due soprattutto, di recente lettura (su la Repubblica dello scorso mercoledi), hanno richiamato la mia attenzione: Massimo Recalcati – psicanalista, tra i più noti in Italia, e professore universitario -, con l’articolo “Il Maestro riluttante. Cari professori non fate gli psicologi”) e Marco Lodoli – professore in un Istituto Professionale della periferia di Roma ed editorialista di Repubblica -, con “La scuola raccontata diventa un boom editoriale”. Le loro considerazioni mi hanno colpito per motivi diversi ma convergenti. Recalcati, perché, nel rappresentare le storture della nostra scuola – o quelle che a lui sembrano tali – individua, e ci propone, come “mito” per l’oggi, la professoressa Giulia, un’insegnante che, ai tempi in cui lui frequentava le Superiori, lo ha “salvato”, appassionandolo alla cultura, con “un’ora di lezione”. È chiaro che qui l’ora di lezione sta a significare il momento di svolta, più emotivo che razionale, che gli ha aperto gli occhi sul significato e l’importanza dei saperi scolastici e, si intuisce, sulle sue scelte future. Non dice cosa è successo dopo quella lezione, ma si immagina. Il suo modello di scuola lo si può derivare, con buona approssimazione, da alcuni passaggi dell’articolo. Soprattutto laddove egli chiarisce che l’apprendimento non è “travasamento di informazioni” e che non con le tecniche si produce apprendimento valido, ma occorre altro. E questo “altro” sembra essere il recupero di un qualcosa che, a suo dire, è stato dimenticato: “l’importanza dell’ora di lezione nel promuovere l’amore verso il sapere, come condizione per ogni possibile apprendimento”. Certamente su questo non si può che convenire. E la polemica contro la lezione frontale non si può che sottoscriverla. (Ma la sottoscriverebbe anche la mitica Prof.? Un dubbio). Qui però interessano, oltre al non detto (riguardante le modalità di quella che Recalcati presenta come una sorta di sua folgorazione ad opera della professoressa Giulia), i suoi accenti accesamente polemici verso alcuni tratti che egli ritiene distintivi della scuola di oggi e che, indistintamente, elenca così: “morte dei libri, informatizzazione degli strumenti didattici, esaltazione delle metodologie dell’apprendimento, accanimento valutativo, burocratizzazione fatale della funzione degli insegnanti che deve sempre pù rispondere alle esigenze delle istituzione e non a quelle degli allievi”. Se questa sua visione sia corretta, tutta o in parte, ogni persona di scuola potrà dirlo interrogando la propria esperienza professionale e le pratiche didattiche più diffuse nella propria scuola. Comunque, se si può capire la polemica contro un certo accanimento valutativo di questi ultimi anni (anche se a me preoccupa molto di più la carenza diffusa di una cultura della valutazione nella nostra scuola) e contro la “burocratizzazione della funzione docente” (che andrebbe chiarita un po’ meglio, soprattutto se riferita a pratiche didattiche che risponderebbero “più alle esigenze delle istituzioni che a quelle degli allievi”), si capisce meno quello che ho letto come un vero e proprio furore iconoclasta contro le nuove tecnologie e le recenti metodologie dell’apprendimento. La domanda è: può un insegnante ignorare gli strumenti attraverso cui si produce apprendimento oggi – e le loro enormi potenzialità, anche ai fini di un pensiero logico-operativo e autoriflessivo -? O non confrontarsi con le varie teorie dell’apprendimento, su come funziona il cervello di un adolescente (e il suo d’adulto), cosa può favorire un apprendimento sensato e responsabile, cosa può sviluppare autoapprendimento e autovalutazione? Ecco, mi sembra che questo tipo di polemica adombri un’idea di insegnante e di apprendimento che, a dirla con Pascoli, mi sembra, “d’altro luogo, d’altro tempo, d’altra vita”. L’insegnante oggi – penso – non è la persona colta che concepisce e organizza la lezione come show appassionante, non è il “capitano, mio capitano” (con tutta la simpatia e il rispetto). Ma il professionista attrezzato sui saperi disciplinari – e sul curricolo di scuola -, che sa valutare e promuovere atteggiamenti autovalutativi, che promuove apprendimenti, anzichè fare belle lezioni per produrre “innamoramenti” per chi è già ben disposto, che offre strumenti di crescita culturale e insegna a utilizzarli, che, mentre insegna, ricerca come insegnare meglio e sa tradurre in azione i risultati della sua ricerca sul campo, che sa lavorare con i suoi colleghi, perchè sa che dal confronto e dal lavoro con i pari si apprende molto più che sui libri dei nostri accademici, che saper far lavorare in team gli studenti non è una concessione alla moda, ma un modo efficace per produrre apprendimenti sensati e duraturi. Certo, il buon docente “tiene” ai suoi studenti. Nel senso che questi sono dentro le sue preoccupazioni e attenzioni di insegnante impegnato a sviluppare competenze e saperi che ne facilitino la crescita; e che sa che la qualità della relazione interpersonale e dell’ambiente di classe e di scuola sono fondamentali per il suo sviluppo. Da un intellettuale attento e rigoroso come Recalcati – e da altri come lui – ci si aspetterebbe non furori polemici – appassionanti/appassionati – e miti d’altri tempi; ma chiavi di lettura dei problemi degli insegnanti oggi e idee per uscirne. Diverso è invece l’approccio di Lodoli. Sollecitato sul tema anche dalla lettura di alcuni libri sulla scuola, editi recentemente. Né poteva essere diversamente. La sua esperienza professionale lo porta a riflettere su terreni solo apparentemente altri rispetto a quelli di Recalcati. Lodoli parte dal dilemma che è ben presente nel dibattito tra chi si interessa di scuola: “Agganciarsi al modello anglosassone, produrre conoscenze certificabili, formare studenti che siano oggettivamente pronti a entrare nel mondo del lavoro, spazzando via il fumo per praparare un arrosto ben commestibile”? Scelta che significa concretamente “Una scuola efficiente che non si perda in ciance sentimentali, [e nella quale] ogni studente (…) dovrà dimostrare in modo inequivocabile di possedere competenze utili, di essere una risorsa umana in grado di trovare presto la sua collocazione sul mercato del lavoro”. Oppure: affrontare il malessere diffuso, il disagio sociale e culturale che cresce dentro le nostre scuole sempre più piene di studenti carichi di problemi esistenziali, psicologicamente fragili? Come se ne esce? L’autore sembra fare sue alcune “ricette” che trova nei libri recensiti. Per esempio, la lotta ad una “idea crudelmente meritocratica della scuola” di cui parla Eraldo Affinati (nell’Elogio del ripetente, Libellule, Mondadori), considerata – opportunamente – del tutto insensata, quando studenti di classi intere, “soprattutto nelle periferie e negli IP”, hanno dietro le spalle famiglie dissestate. Ma anche il rifiuto di un modello aziendalistico di scuola – qual è quello che viene paventato (ed enfatizzato, a mio avviso) in Alex Corlazzoli (“Tutti in classe”, Einaudi), – che si vuole finalizzato a “consegnare ai suoi clienti un sapere utile e [che] invece si ritrova ad affrontare macerie psichiche, un mondo adolescenziale bombardato dal cinismo, dalla povertà dall’ignoranza”. E la riproposizione – e la difesa – , infine, in Adolfo Scotto di Luzio (La scuola che vorrei, Bruno Mondadori), di “un patrimonio culturale nobile, una tradizione immensa”, la cui trasmissione è costretta a fare i conti con insegnanti che si ritrovano “in una trincea fangosa, inermi a combattere contro una trasformazione antropologica devastante, contro un immaginario consumistico dove non trova posto nessun principio di bellezza e di conoscenza”. Queste interpretazioni-indicazioni sono certamente chiave di lettura e stimoli in ogni caso utili. Ma la questione che è centrale – e che riguarda il senso di cui caricare il far scuola oggi – richiede, credo, uno sguardo più ampio e più lungo. E non può comunque prescindere da considerazioni che riguardano il contesto: la drammaticità, da una parte, di una crisi economica – che continua a mordere – e di un clima sociale in cui l’etica pubblica appare sempre più lasca e improbabile; un sistema scolastico, dall’altra, che ignora l’idea di riforme condivise, di accompagnamento efficace e di manutenzione continua; e sottovaluta i temi prioritari della formazione sul campo del personale e dello sviluppo professionale e di carriera. Richiamo, quest’ultimo – e torniamo così al cuore dei nostri ragionamenti –, con cui si vuole evidenziare soprattutto la necessità di un recupero urgente – sul terreno formativo – di idee portanti come quelle della relazione e della “cura” (come competenze e progetti), ma anche di saperi integrati e “interrogati” e di metodi e tecnologie al passo coi tempi. Le professoresse Giulia, ora come ora, mi sembrano solo surrogati.

da ScuolaOggi.org