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“Se la grande industria diventa piccola”, di Maurizio Ricci

C’era una volta la grande industria. Oggi, il destino della Fiat rimane una scommessa. L’Ilva è piena asfissia. L’Alcoa se ne è andata. La Finmeccanica traballa. L’Indesit è mezza andata all’estero. L’Alitalia affonda. Auto, siderurgia, chimica, farmaceutica, elettronica sono tutti settori in cui, sul mercato mondiale, l’Italia occupa ormai una posizione marginale, relegata a primeggiare solo in alcune nicchie (come la Ferrari e le auto di superlusso). La ripresa, quando arriverà, sarà ancora fatta di industria e esportazioni, ma partirà da molto più in basso, dallo spolverìo di aziende medie, piccole e, soprattutto, piccolissime, che sono la struttura portante della nostra economia: la media degli addetti, nelle industrie italiane, è dieci. Chi ritiene che questo predominio delle microaziende sia una zavorra, che renderà la ripresa meno solida e robusta deve registrare che il “nanismo” delle aziende italiane non si sta riducendo, ma sta aumentando. Nella crisi, la grande impresa è affondata a velocità doppia, rispetto all’insieme delle industrie. L’economia che ripartirà rischia di aggirarla e lasciarla indietro, chiamando in causa il modello di sviluppo a cui affidare il paese. Secondo i calcoli — su dati Inps — del Registro Imprese delle Camere di Commercio, nel giugno scorso le imprese italiane con più di 500 dipendenti erano, in tutto, 1.585. In un solo anno, il totale è sceso — o perché hanno chiuso o perché hanno ridotto i dipendenti sotto la soglia di 500.La metà — oltre 60 — sono state perse nell’industria (edilizia esclusa), dove ne risultano oggi solo 522: di fatto, più di un’azienda su dieci, negli ultimi dodici mesi, ha smesso di essere una grande industria, o perché non c’è più, o perché non è più grande. Naturalmente, la soglia di 500 dipendenti è una pura convenzione statistica: se la media degli addetti, nel totale dell’industria italiana è dieci, nel caso delle grandi imprese la media, riferisce l’Istat, è quasi 1.500. Tuttavia, anche se si scende di dimensione, alle aziende oltre i 250 dipendenti — quelle med io-grandi che, in altri paesi, sono il nerbo dell’economia — i risultati non sono troppo diversi. Le industrie con più di 250 addetti, riferisce l’Istat, erano 1.534 nel 2003. Dieci anni dopo erano scese a 1.466. Il totale di tutti i settori, però, è in aumento. Vuol dire che l’Italia sta seguendo la via dell’Inghilterra dove, dalla Thatcher in poi, le fabbriche chiudono e si moltiplicano gli agenti di borsa? Niente affatto. Il terziario avanzato (informazione, comunicazioni, finanza, assicurazioni), negli stessi dieci anni, ha visto ridursi le sue aziende medio-grandi da 1.316 a 1.254. Quello che è aumentato è il terziario tradizionale: commercio, turismo, trasporti. Qui, le aziende con più di 250 dipendenti sono raddoppiate, arrivando a sfiorare il migliaio.
Rimpiccioliscono le fabbriche e proliferano i supermercati. La crisi, d’altra parte, ha falciato selvaggiamente i settori in cui la grande industria italiana è, storicamente, più forte. La produzione di auto è crollata del 45 per cento, quella tessile del 35, frigoriferi e lavatrici del 50-60 per cento. Poiché un operaio su cinque, in Italia, lavora in una grande impresa, gli effetti sull’occupazione sono stati pesanti. Se la crisi ha esacerbato la stretta, tuttavia, lo sfarinamento della grande impresa era iniziato già prima. Lo dicono i dati Istat sull’occupazione. Sono dati che escludono dagli addetti i cassintegrati: chiamiamola l’occupazione sostenibile. Nel 2000, gli addetti alle grandi imprese manifatturiere erano 735 mila. Nel 2005 erano scesi a 669 mila. Nel 2010 erano precipitati a 602 mila. E oggi?
Elaborando i dati Istat, si può stimare quanto è accaduto in questi anni, almeno per il complesso dell’industria (edilizia compresa). Fra il gennaio 2005 e il dicembre 2012, la grande industria ha perso un addetto su sei, oltre il 15 per cento, mentre l’insieme delle imprese industriali non è andato oltre il 7 per cento. I dipendenti delle grandi imprese sono, insomma, quelli che hanno subito i contraccolpi più pesanti della crisi, ma, in realtà, i dati mostrano che lo sfarinamento delle grandi fabbriche era iniziato già prima. Fra l’inizio del 2005 e la fine del 2012, le grandi industrie hanno perso circa 120 mila dipendenti. Ma più di metà era già uscito dalla fabbrica prima dell’inizio del 2009, prima, cioè, che esplodesse la recessione.
L’Italia resta tuttora la seconda potenza manifatturiera d’Europa, dopo la Germania, ma si potrebbe quasi dire che non è un paese per grandi, almeno in materia di industrie. Per molti economisti è un grave handicap. Ai politici, le grandi fabbriche piacciono perché consentono, con un solo scenografico taglio di nastro, di creare duemila posti di lavoro e altrettanti nell’indotto di servizi e forniture, quando, per avere lo stesso risultato ci vorrebbero
400 piccole imprese. Ma la grande industria non è soltanto, quando c’è, un moltiplicatore più rapido di occupazione. Dipende meno dalle banche e, dunque, dal ciclo del credito bancario, quello che, oggi, sta inasprendo la recessione italiana. E’ in grado di mantenere una rete di assistenza e supporto ai propri clienti che, nel mondo globalizzato, è sempre più un valore aggiunto. Soprattutto, dedica assai più energie e investimenti — dicono i dati — alla ricerca e sviluppo, a caccia di quell’innovazione che, oggi, è la leva dello sviluppo. Dobbiamo dunque attendere il ritorno della grande industria? Difficile che si materializzi. I grandi industriali italiani, oggi, pensano soprattutto di trasferirsi all’estero e i grandi industriali esteri pensano assai poco all’Italia. Le multinazionali sono convinte che i mercati europei abbiano poco da dare e concentrano gli investimenti nei paesi emergenti dove si aspettano l’esplosione della domanda.
Il risultato è che, quando partirà la ripresa, bisognerà cercare di cavalcarla in modo diverso dal passato. Inventarsi un nuovo modello di sviluppo non sarà facile, ma, forse, il problema più che dimensioni aziendali è di settori. Uscire dal tradizionale recinto di auto, mobili, moda, agroalimentare per premere sul pedale delle novità che, anche in Italia, ci sono. A cominciare dal mondo digitale, che vive e prolifera intorno al web. Non è più una realtà residuale. Una ricerca di Assintel, l’associazione del settore, stima in 54 miliardi di euro il contributo che le aziende digitali danno all’economia nazionale: è quasi il 4 per cento del Pil. E una cifra non distante da quanto producono i grandi settori tradizionali. E, mentre la grande industria implodeva, le aziende web fiorivano: ce ne sono ormai 173 mila, per un totale di 900 mila addetti. Se non si guarda troppo per il sottile alle distinzioni fra tempo pieno, part time, collaboratori, 900 mila è una volta e mezza il numero degli addetti della grande
industria manifatturiera.

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“Campanili, clan e politica l’Italia è da sempre allergica ai grandi gruppi”, di Gad Lerner

Bisognerà infine prenderne atto. Così come la democrazia non si esporta con la guerra, neanche il modello della grande impresa capitalistica attecchisce facilmente in una nazione come l’Italia: disarticolata nelle sue centinaia di campanili, sotto i quali la piccola impresa ha dato luogo alla fusione, nel bene e nel male, fra economia e famiglia. Talvolta con le virtù della cooperazione ma altrove con i vizi dei clan. Sviluppandosi col talento creativo delle arti e dei mestieri, ma sempre con la tentazione della chiusura protezionistica. Marxisti e capitalisti confidavano di risolvere nella forma superiore della grande impresa tale caratteristica mo-lecolare, indicata come una tara di arretratezza sociale. Ma il panorama desolante delle fabbriche che chiudono scompagina il loro schema: davvero non esiste un futuro italiano pensabile senza imprese con migliaia di dipendenti?
Basta uno sguardo d’insieme sui registri delle Camere di Commercio per mettersi alle spalle la controversia che divide gli economisti e i sociologi fin da quando, alla fine degli anni Ottanta, Giuseppe De Rita lanciò la provocazione del “piccolo è bello”. Alla quale gli industrialisti replicarono osservando che la seconda economia manifatturiera d’Europa non può certo reggersi senza uno scheletro di grandi industrie, pena ritrovarsi afflosciata su se stessa.
Da qui l’accusa a De Rita di celebrare un anacronismo sociale, con l’aggravante di assecondare una spinta individualistica ormai inadeguata a forgiare un moderno senso civico. Acqua passata. Le cifre rivelano che la grande industria oggi in Italia dà lavoro a una percentuale ultraminoritaria degli occupati: meno di mezzo milione di dipendenti. E che per giunta le imprese con più di 250 dipendenti vanno in liquidazione già da un decennio a un ritmo doppio rispetto alle piccole imprese. Dunque c’è poco da discutere su“piccoloèbello”,“no,grandeèmeglio”.Stiamovivendonon un riassetto, per quanto doloroso, della grande industria italiana del ventesimo secolo, ma piuttosto la sua dissoluzione strutturale. La scelta della famiglia Agnelli di investire all’estero i suoi capitali è solo l’epifenomeno più vistoso di una tendenza allo smantellamento della grande impresa che la recessione degli ultimi cinque anni ha accelerato ma che difficilmente un’eventuale ripresa economica arresterebbe.
Forse allora è meglio ricordare che lo sviluppo della grande industria in Italia nel corso di poco più di un secolo è stato contraddistinto da un forte sostegno venuto dalla mano pubblica al capitale di rischio privato. E anzi una quota significativa delle nostre grandi industrie sono nate su diretta iniziativa dello Stato. Ancora oggi Eni, Enel, Finmeccanica, Ferrovie dello Stato, restano fra le poche grandi industrie nazionali. Mentre le privatizzazioni di Ilva, Telecom e Alitalia hanno contribuito a rendere incerto il futuro di questi gruppi. Se dunque è ragionevole pensare che anche in futuro la nostra economia manifatturiera non possa reggere invertebrata, cioè senza lo scheletro della grande industria, un ritorno in nuove forme al capitalismo di Stato diviene un orizzonte plausibile: in Italia il modello del capitalismo anglo-sassone si è manifestato come ideologia nefasta piuttosto che come prassi virtuosa. La politica industriale ritorna a essere un imperativo strategico dei governi, anche se reperire nuove fonti di finanziamento pubblico delle imprese è sempre più problematico.
Oggi la moria delle imprese, chiusure e fallimenti, fughe all’estero e capannoni svuotati, sono la cronaca quotidiana di una vera e propria mutazione antropologica. Il teorico del capitalismo molecolare all’italiana, Aldo Bonomi, nel suo ultimo saggio (“Il capitalismo in-finito”, Einaudi) si spinge a parlare di apocalisse culturale determinata dalla rottura della simbiosi fra impresa e vita. Ma se questo vale soprattutto per i piccoli, cioè le imprese mai cresciute oltre il limite dei 15 dipendenti, resta pur sempre questo il tessuto connettivo del futuro. Le aziendine muoiono e rinascono: la media dei dipendenti per impresa resta fissa a quota dieci. Le grandi aziende invece da un decennio muoiono e basta.
E allora forse bisognerà fare di necessità virtù, considerando anche che gli unici segnali di vitalità registrati dagli osservatori economici riguardano un sensibile incremento di cooperative per lo più fondate da giovani altrimenti esclusi dal mercato del lavoro.
Non avranno le spalle, un tempo robuste, delle grandi industrie. Dovranno cercare in una formazione cosmopolita quel raccordo con un’economia internazionalizzata senza cui il domani gli è precluso. Nel sistema italiano manifestano buona tenuta, semmai, circa quattromila medie imprese già addestrate alla competizione planetaria, ben oltre i confini angusti del loro territorio. Non sarà più il “piccolo è bello”. Ma è nella storia dell’economia sociale italiana, dai liberi Comuni al Rinascimento fino alla rivoluzione dei distretti industriali e ai “miracoli” delle loro eccellenze, che ritroviamo l’impresa dal volto umano, quella che nobilita il lavoro riunendo il profitto alla cooperazione. Forse anche la grande impresa multinazionale potrà recuperare la sua forza perduta imparando che i territori
non si calpestano ma si valorizzano.

La Repubblica 09.09.13