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“La paura di perdere la normalità borghese”, di Michela Marzano

Ancora una donna uccisa. Ancora una vittima della violenza maschile. Questa volta, però, forse non si tratta di un dramma senza movente. La giovane brasiliana ammazzata a Brescia dall’amante aspettava da lui un bambino. UNA storia di tradimento che finisce male come tante, ma che questa volta, però, con la morte di Marilia e del bimbo di cinque mesi che la donna portava in grembo, si trasforma in una vera e propria tragedia. Come se uccidere una donna incinta potesse cancellare ogni traccia di quello che è successo, potesse far ricominciare a vivere come se niente fosse mai accaduto, potesse permettere di riprendere in famiglia il corso normale della propria esistenza. Quale esistenza? Quale normalità? Quale famiglia?
Ognuno, nella vita, cerca di districarsi come può, scegliendo di essere o meno fedele, accontentandosi di una moglie oppure accumulando avventure successive. Nessuno, però, dovrebbe immaginare che i propri gesti non abbiano alcuna conseguenza e che, se l’amante resta incinta, ci si possa poi sbarazzare di lei come di un oggetto di cui ci si è ormai stancati. Considerazione ovvia per chiunque. A meno di non illudersi che l’unica cosa che conti sia il proprio ego, un “io” sempre più ingombrante e sempre meno in empatia con gli altri: io ho un’avventura, io decido di interromperla, io mi libero di ogni presenza ingombrante … “I, me, and myself”, come scriveva Salinger nel Giovane Holden.
Solo che questa volta il protagonista del dramma non è un adolescente alla ricerca di se stesso, ma un uomo che, uccidendo l’amante incinta, mette in luce l’ennesima sfaccettatura della violenza maschile. Quali che siano le circostanze precise di questo delitto, non siamo più solo di fronte ad una forma di disprezzo nei confronti delle donne, ma anche di fronte ad un disprezzo generalizzato nei confronti della vita umana: quella di un bimbo che non nascerà mai, ma anche quella dei due figli già nati e della moglie. Un crimine terribilmente banale, squallida espressione dell’iperindividualismo contemporaneo.

La Repubblica 04.09.13