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“Dove porta la rottura di Marchionne. Da fabbrica Italia a fabbriche ferme”, di Rinaldo Gianola

Anche nel 2013 la Nissan di Sunderland in Inghilterra, prima fabbrica «cacciavite» dei giapponesi in Europa, produrrà un numero di auto, oltre mezzo milione, probabilmente più elevato dell’intera produzione di tutti gli impianti Fiat in Italia. La nostra amata Mirafiori, la storica cattedrale dell’industria dell’auto italiana, nel 2012 ha prodotto meno di 50mila auto. I numeri del 2013 è meglio non conoscerli. È vero che Sergio Marchionne non vuole più sentir parlare del piano Fabbrica Italia, quello da venti miliardi di euro di investimenti in quattro anni rimasto solo un’illusione mediatici, però non si può proprio fare a meno di ricordare che secondo quel documento, tanto apprezzato dalla politica, dalle istituzioni, da una parte del sindacato, prima di essere negato dal manager, Mirafiori avrebbe dovuto produrre 300mila auto nel 2014. Invece alle Carrozzerie i 5500 dipendenti vedono la fine della cassa integrazione straordinaria a settembre e non sanno nulla, non hanno notizie di cosa succederà, di quando finalmente arriveranno le nuove produzioni promesse.

TIMORI E INCERTEZZE SUL LAVORO La paura, l’incertezza del futuro dei lavoratori torinesi sono sensazioni che vivono anche i loro colleghi delle altre fabbriche Fiat, come Cassino, Pomigliano, Melfi. Ed emerge, sempre più, la delusione dei dipendenti della Fiat per aver accettato nel 2010 le condizioni organizzative, contrattuali, le “rotture” imposte di Marchionne, perchè pensavano di poter ottenere un posto sicuro, un futuro sereno, seppur con una compressione dei diritti in fabbrica. Invece, niente. Non ci sono certezze. La strategia di Marchionne in Italia ha prodotto spaccature e tensioni, ha spostato altrove produzioni annunciate e promesse, ha chiuso fabbriche e interrotto produzioni (Termini Imerese, Irisbus, CNH di Imola) senza che i diversi governi, le istituzioni locali, la politica ponessero dei limiti all’azione di Marchionne. È comprensibile che la missione americana, il controllo di Chrysler, la dura partita coi sindacati Usa per ottenere le loro azioni, l’attenzione e gli investimenti in mercati forti come il Brasile abbiano ridotto l’interesse per l’Italia e l’Europa, anche se le dichiarazioni ufficiali sono sempre state di segno contrario. Ma la strategia del manager del Lingotto in Italia oggi appare più debole, la sua ricetta «innovativa» delle relazioni industriali e dei contratti appare perdente, per non parlare delle quote di mercato in Italia e in Europa. Marchionne non immaginava certo di dover fare i conti con la forza della legge, con le sentenze della Corte Costituzionale che gli hanno imposto di far rientrare in fabbrica i delegati Fiom, discriminati, licenziati, penalizzati per la loro adesione al sindacato dei metalmeccanici della Cgil come avveniva negli anni Cinquanta. Ora, dopo essersi arreso alla legge, Marchionne rilancia con la solita minaccia di andarsene, di produrre altrove, se non ci sarà una nuova legge sulla rappresentanza, sull’esigibilità dei contratti. I colpi di coda della Fiat determinati dalla sconfitta, davanti alla legge e all’opinione pubblica, potrebbero essere pericolosi. Per la verità un accordo sulla rappresentanza è già stato definito a maggio da Confindustria e sindacati confederali, ma Marchionne non può accettarlo senza fare un’altra retromarcia clamorosa perché la Fiat, convinta della bontà del suo progetto, ha abbandonato l’organizzazione dell’industria privata e si è costruita un suo modello contrattuale, tutto particolare, che però, alla prova dei fatti, non funziona. Se la «formula Marchionne» avesse fatto ripartire la produzione delle fabbriche Fiat, se avesse rilanciato l’industria dell’auto italiana (una volta tra le prime nel mondo), magari i lavoratori avrebbero chiuso un occhio. Ma la situazione delle fabbriche italiane è difficile, rimane sull’orlo dell’emergenza, gli investimenti sono insufficienti, non si vedono nuovi modelli e gli ultimi successi, come la 500 e la 500L, arrivano dalla Polonia e dalla Serbia e di quella quota del 30% del mercato italiano dell’auto detenuto dal Lingotto solo una piccola parte, circa un quinto, è rappresentata da auto prodotte realmente in Italia. C’è la Nuova Panda a Pomigliano d’Arco, ma occupa una sola linea mentre prima per la produzione Alfa Romeo erano attive due linee. Così a Pomigliano, il primo impianto a sperimentare la «formula Marchionne», sono occupati circa 2200 dipendenti, ma altri 2000 restano fuori e non si sa bene che fine faranno con questi chiari di luna. C’è poi la nuova Maserati a Grugliasco, con un migliaio di addetti. Ma mancano nuovi modelli di successo, di massa, da produrre nelle fabbriche italiane, per rinnovare la storia Fiat.

LA LEGGENDA DEL RILANCIO Il rilancio dell’Alfa Romeo, promesso fin dalle prime mosse di Marchionne al Lingotto, è rimasto solo sulla carta, rinviato di anno in anno, di piano in piano, ma naturalmente sempre con l’obiettivo dichiarato di conquistare l’America come ai tempi della Duetto de Il Laureato. L’interesse della Volkswagen per la casa del Biscione è stato sempre respinto da Marchionne, ma forse si potrebbe almeno verificare se i tedeschi hanno qualche solido progetto per rilanciare un pezzo storico dell’industria dell’auto tricolore. In conclusione l’offensiva di Marchionne per modernizzare l’industria italiana non è riuscita per ora ad assicurare lavoro e produzione, in tre anni siamo passati dal sogno di Fabbrica Italia all’incubo delle fabbriche chiuse. Marchionne e gli eredi Agnelli, i cui interessi sono sempre più lontani dall’Italia e dall’Europa come dimostra il bilancio Exor, non hanno però rinunciato a investire nel Corriere della Sera dove solo saliti fino al 20%. Meglio battere Diego Della Valle in via Solferino piuttosto che privilegiare le vecchie fabbriche di auto. Marchionne, a ben vedere, non è poi così diverso dagli altri epigoni dei salotti.

L’Unità 04.09.13