attualità, politica italiana

“Il rebus del Cavaliere”, di Massimo Mucchetti

La Corte di Cassazione ha confermato la condanna penale di Silvio Berlusconi a quattro anni di reclusione, di cui tre condonati per indulto, e ha annullato l’interdizione dai pubblici uffici rinviando
a un’altra sezione della Corte d’Appello di Milano la rideterminazione di questa pena accessoria. Il decreto sulla incandidabilità, varato dal governo Monti, fissa in due anni la condanna definitiva minima che lo escluderebbe dalle liste. Berlusconi, d’altra parte, non aspira a una candidatura. Egli è un eletto. La giunta delle elezioni del Senato dovrà decidere se sia eleggibile, ma su questo fronte la legge 361 del 1957 non aiuta a chiarire ancorché il decreto anticorruzione dell’aprile 2013 introduca il concetto di incandidabilità sopravvenuta. In ogni caso, molto dipenderà dalle scelte dello stesso capo del centro-destra, tenuto conto del fatto che una condanna definitiva per frode al Fisco lede profondamente la sua reputazione sul piano interno e internazionale.
Ma se pure ci si arrivasse subito sull’onda di questa sentenza, la fuoriuscita di Berlusconi dal Senato non scioglierebbe la questione Berlusconi. Il padre-padrone del centro-destra potrebbe pure abbandonare il laticlavio e continuare a fare politica da casa sua. Come fa Beppe Grillo. Del resto, il patron di Mediaset è abbastanza estraneo alla vita della Camera e del Senato. L’uomo è sempre stato o premier o leader in sostanza extraparlamentare. In entrambi i casi si è avvalso della sua influenza su una quota rilevantissima del sistema dei media, per lo più corazzata dalle sue proprietà personali. Proprietà che, ove si ritirasse ad Arcore, nessuna legge, nemmeno una riforma della legge del 1957 sulla ineleggibilità e di quella del 1953 sulle incompatibilità, potrebbe più imporgli di dismettere per conservare una posizione parlamentare ormai svanita. Ma ipotizziamo pure che, complici l’età, le emozioni e le limitazioni eventualmente provocate dalle pena, Berlusconi decida di ritirarsi a vita privata. Che cosa cambierebbe allora nella politica italiana? A quel punto, la sentenza della Suprema Corte porrebbe termine a un’esperienza lunga vent’anni. Una tale durata, ove non dia la stura a contestazioni irrituali della magistratura, costituirebbe comunque un successo per il condannato eccellente. Certo, non altrettanto si potrà dire per l’Italia. Ma se Berlusconi è durato tanto, non è forse questa una clamorosa manifestazione di debolezza sia degli schieramenti del centro-sinistra, imperniato sul Pd, sia di quello neocentrista, da ultimo rappresentato da Scelta Civica? E poi, nell’Italia postberlusconiana, quali saranno le culture politiche prevalenti? Pdl, Pd e Scelta Civica resteranno tal quali o entreranno in una stagione di disgregazioni e riaggregazioni, sotto la spinta dei magneti europei delle socialdemocrazie e del partito popolare? Ma poi, quali saranno gli indirizzi di fondo dell’azione di governo? Noi sappiamo che il richiamo al cacciavite, fatto da Enrico Letta, o il rigorismo di Mario Monti sono segni di serietà purché l’uno non finisca con il riproporre per l’Italia quell’amministrazione condominiale che Gabriele Albertini offriva a Milano e l’altro il ritorno al Washington Consensus. Non sono questioni astratte. Di praticismo si muore, dopo la Lehman.
La vicenda berlusconiana ha alimentato la rappresentazione di una interminabile emergenza democratica. Che spesso varcano i confini dell’ipocrisia. I professionisti dell’antiberlusconismo gridano al golpe imminente o, addirittura, già consumato e poi vanno al mare a prendere il sole, invece di salire in montagna a fare la Resistenza come nel 1943 o a convocare lo sciopero generale (vero) come nel luglio del 1960. Ma sarebbe superficiale ridurre queste contraddizioni alla retorica trombona, sempre viva sotto tutte le bandiere. L’antiberlusconismo ha consentito di tenere nascoste le difficoltà del centro-sinistra. È possibile la politica della concorrenza come architrave di tutto in un continente solo? Ci provò l’Unione Sovietica a realizzare il socialismo in un Paese solo, e si è visto com’è finita. Che senso ha una zona di libero scambio transatlantica quando gli Usa battono moneta, varano aiuti di Stato a man salva e hanno ormai l’indipendenza energetica, mentre l’Europa non manovra liberamente la base monetaria, importa olio e gas, boccia il salvataggio del Monte dei Paschi e promuove quello delle banche inglesi? Campioni nazionali, con la regia del governo quando necessaria, o liberi tutti, salvo piangere lacrime di coccodrillo quando Loro Piana vende ad Arnault? Mass media liberati dai conflitti d’interesse anche con qualche iniziativa del legislatore o il Corriere in mano alla Fiat che ritiene impossibile investire in Italia e tuttavia riceve la benedizione di Intesa Sanpaolo, sedicente banca del Paese? In queste partite, e in altre che non cito per brevità, Berlusconi non era e non è il problema. I problemi – e questi sulla vita delle persone pesano assai – stanno anche dentro le case del centro-sinistra e in quelle dei suoi amici, nei poteri reali, dai sindacati alle banche.

L’Unità 02.08.13