attualità, politica italiana

“Il ritornello dei fucili”, di Filippo Ceccarelli

Passi per il bastone, che è il cuginetto più generico e meno rustico del già invocatissimo forcone, ma anche questa storia dei fucili, purtroppo, suona abbastanza famigliare. La chiamata alle armi è infatti un classico della Seconda Repubblica. E il fatto che Bossi, massimo specialista in materia pseudo- bellica, sia oggi ridotto com’è ridotto, aiuta senz’altro ad approfondire e forse anche a comprendere tale rischiosa retorica, ma certo non consola né, pur facendo un po’ ridere, allarga l’orizzonte del buonsenso.
Era comunque il 1992 quando il leader della Lega, memore di una massima maoista orecchiata nella sua turbolenta giovinezza, proclamò che il potere nasceva dalla canna del fucile. Dopo di che, esclusa la Lega dalla spartizione delle vicepresidenze a Montecitorio, disse: «Prendete il moschetto, zaino in spalla e via!». Via dove, non era chiaro. Via come, almeno in teoria, parve appena più chiaro allorché l’allora (improvvido) ministro dell’Interno Mancino posticipò certe elezioni in Lombardia: «Cristo — inveì Bossi con il consueto garbo — ma allora questi capiscono solo i kalashnikov!».
In seguito gli capitò di soffermarsi su possibili modalità di rifornimento: «Ci vuol poco a far arrivare qualche camion di armi dalla Slovenia o dalla Croazia» —
e in quel caso, dato ciò che accadeva da quelle parti, corse un brivido. Ciò che probabilmente costrinse il
Senatur a una specie di marcia indietro, tra le prime di una interminabile serie: si trattava di «esagerazione, paradosso, scherzo», comunque colpa dei giornali.
Due anni dopo, arrivato al governo con Berlusconi, si registra altresì il momento più alto della infatuazione militaresca bossiana, e il culmine dell’epopea eroicomica, forse anche perché espressa in vacanza, per la precisione su una spiaggia sarda, in canotta
e
scarp del tennis,
e l’attimo fondante fu la rivelazione che nei mesi o addirittura negli anni precedenti, non era chiaro, l’Italia del Nord aveva rischiato un’autentica insurrezione.
Agosto 1994, dunque: «C’erano 300 mila persone armate e pronte. Pensavano che non ci fosse nulla per battere la vecchia politica ». Dovunque Bossi andasse, era un coro: «”Se ci dai l’ordine siamo pronti a tirare”. Avrebbero fatto cento, mille morti» calcolava lui, militesente. Sia come sia, la mobilitazione si era rivelata particolarmente intensa nella zona di Bergamo (che pure alle penultime elezioni aveva stra-votato il cassiere della Dc Severino Citaristi, futuro recordman di Mani Pulite). Sta di fatto che per Bossi «l’urlo dei 300 mila rimbombava di valle in valle».
Anche tale altisonante notazione non spingeva a prendere sul serio l’allarme. Così come, in fin dei conti, suscitarono un moderato scandalo le ulteriori uscite parabelliche della fase per così dire secessionista (1995-1998) sul costo delle cartucce, su possibili attentati ai tralicci e perfino ai ripetitori tv di quello stesso Berlusconi, oltretutto, con cui di lì a poco sarebbe tornato ad allearsi e che alla Padania avrebbe saldato anche qualche debituccio.
E tuttavia, passando con un balzo ventennale dai fucili di Bossi a quelli di Grillo, ciò che più colpisce e fa pensare è che sia l’uno che l’altro leader abbiano sentito il bisogno, e quasi con le stesse parole, di enfatizzare il proprio ruolo di felice contenimento ed efficace trattenimento: «Se non ci fossi stato io a fermarli…». Vecchio trucco di scena: prima si evoca il pericolo della polvere da sparo e poi ci si presenta in prima persona,
e magari in camicia verde, come l’unica soluzione.
Con il che, sia nel caso di Umberto che nel caso di Beppe, la faccenda sarà anche buffa e riprovevole, ma è piuttosto antica e come tale attiene eminentemente all’universo degli spettacoli politici, e in Italia, tanto per cambiare, alla commedia. Grillo, che è un professionista, conosce senz’altro il Miles gloriosus, il soldato smargiasso e fanfarone di Plauto, una maschera che nel periodo della dominazione spagnola si fece «Matamoro» per poi evolversi in «Tecoppa», «Sparafucile», «Capitan Fracassa», «Capitan Spavento » e via dicendo.
E di tutti loro si può sempre ridere, perché questa in fondo è la loro vocazione, ma occorre anche riconoscere che quando la scena pubblica rapidamente si affolla di bastoni dipietreschi, forconi siciliani, fucili a cinque stelle e adesso anche eserciti di Silvio, beh, insomma, non è mai un bel segno.
Nel frattempo si alimenta il mito degli immancabili e onnipresenti servizi segreti. Ieri sempre Grillo ha individuato in un bravo giornalista un agente dei medesimi. Anche questo è un vecchio trucco e anche Bossi aveva questo
genere di paranoie.

La Repubblica 11.07.13