attualità, lavoro

"Nuove ricette per creare lavoro", di Laura Pennacchi

Per qualunque Governo oggi la priorità delle priorità è il lavoro. Finalmente anche l’Unione europea sta arrivando alla consapevolezza che alla straordinarietà – per natura, profondità, durata – della crisi economica e del suo impatto occupazionale occorre rispondere con politiche altrettanto straordinarie, come la Youth Garantee (Garanzia Giovani) di cui si parla da mesi e su cui dovrebbe gravitare il Consiglio del prossimo giugno. Mentre la disoccupazione americana è scesa al 7,5%, il minimo dal 2008, in conseguenza delle politiche espansive di Obama che hanno portato alla creazione nel 2013 di un numero medio mensile di posti di lavoro di 200.000 unità, nel vecchio continente la disoccupazione rimane ai massimi storici, i112,2%, che vuol dire 26 milioni di disoccupati di cui 5 milioni giovani. Alle punte del 27% raggiunte in Spagna e Grecia fa riscontro l’Italia, con una disoccupazione (ora all’11,8%) destinata a salire, in assenza di interventi, al 12,2% nel 2014. Di fronte a tale eccezionale criticità non appare adeguata l’inerziale ripetizione di misure che già in passato si sono dimostrate insufficienti, misure utili – quali gli incentivi fiscali all’assunzione di giovani ventilate dal governo Letta – ma pur sempre tradizionali, volte a sollecitare in modo incrementale l’occupabilità e l’attivazione dei soggetti, o addirittura interne all’armamentario di quella supply side economics (flessibilizzazione del mercato del lavoro, concorrenza, liberalizzazioni e privatizzazioni) che è stato uno dei pilastri dell’austerità autodistruttiva di marca tedesca. Non deve sfuggirci che gli Usa invertono il trend della occupazione americana grazie agli investimenti pubblici che Obama ha collocato al centro delle sue politiche espansive, quegli investimenti pubblici che da noi il duo Berlusconi-Tremonti ha pervicacemente e sistematicamente tagliato per anni, fino al punto di azzerarli come è avvenuto con il Fondo per le politiche sociali. La «non convenzionalità » che Obama ha impresso alla politica economica governativa americana – associandola alla «non convenzionalità » della politica monetaria della Fed, la quale inonda mensilmente i mercati di 85 miliardi di dollari di liquidità – è ciò che consente agli Usa di sostenere la crescita e rigenerare l’occupazione. Il loro esempio viene solo parzialmente seguito dalla Bce europea – per i vizi di impostazione originaria che hanno presieduto alla creazione dell’euro mentre è enfatizzato dal Giappone e dallo stesso Regno Unito. Dunque, per poter tornare a generare lavoro, dobbiamo prendere atto di tre cose: 1) servono politiche, macroeconomiche e microeconomiche, «non convenzionali» che rompano con il paradigma dominante; 2) la «non convenzionalità» ha un compito duplice, rilanciare la crescita e cambiarne in corso d’opera la natura e la qualità mettendo le basi di un nuovo modello di sviluppo; 3) il motore di questa «non convenzionalità » non può che essere che pubblico e valersi del big push degli investimenti pubblici, traducendosi in primo luogo in un grande Piano del lavoro che contempli anche progetti di creazione diretta di occupazione, facendo uscire dal dimenticatoio nobilissimi strumenti dell’eredità keynesiana, tra cui la figura del «lavoro socialmente utile». Se ieri la teoria e la politica economica hanno fallito nel prevenire un eccessivo indebitamento privato rivelatosi alla fine insostenibile, oggi la principale sfida macroeconomica scaturisce dagli effetti deflazionistici del deleveraging (riduzione dell’indebitamento) del settore privato, il quale – essenziale per riconquistare la stabilità finanziaria di lungo termine – crea un ambiente macroeconomico immensamente rischioso, in quanto le sofferenze della bassa crescita possono durare non per anni ma per decenni. In condizioni di balance sheet recession (recessione indotta da riequilibrio dell’indebitamento) aumenta considerevolmente l’inelasticità degli operatori dell’economia reale, si approfondisce la «trappola della liquidità» in cui siamo entrati e in cui ogni nuova sostituzione di moneta con titoli ha effetti minimi sui comportamenti, la distruzione di valore patrimoniale netto e una paradossale illiquidità feriscono tutti gli operatori, i profitti flettono e gli investimenti privati crollano. L’esigenza di un motore pubblico per gli investimenti e la possibilità di generare occupazione tornano a configurarsi come un binomio inscindibile. Per questo Obama si ispira al New Deal e riscopre l’attualità di Keynes, il quale giunse a parlare di «socializzazione dell’investimento », nell’analisi di Minsky spinta fino a comprendere la «socializzazione della banca» (e Obama crea una banca pubblica per le infrastrutture) e la «socializzazione dell’occupazione ». Beni sociali, beni comuni, green economy possono essere l’orizzonte strategico complessivo dei singoli progetti: «il mondo ha fame di beni pubblici», dice Martin Wolf. I campi di estrinsecazione di questa progettualità possono essere molteplici, dalle reti alla ristrutturazione urbanistica delle città, dalle infrastrutture alla riqualificazione del territorio, dai bisogni emergenti – attinenti all’infanzia, l’adolescenza, la non autosufficienza – al rilancio del welfare state, per il quale, invece, vanno contrastate le persistenti intenzioni di privatizzazione (che albergano anche tra le componenti di destra del governo Letta). La creatività istituzionale del New Deal di Roosevelt è un antecedente a cui ispirarsi, come lo sono il Piano del lavoro della Cgil del 1949 e l’antiveggente proposta di Ernesto Rossi di innestare la generalizzazione del servizio civile nella creazione di uno straordinario «esercito del lavoro». Si dirà: ma l’Italia non è un Paese grande e potente come gli Usa, utilizzanti tra l’altro la forza del signoraggio del dollaro. Eppure non è un’obiezione valida. Intanto è ovvio che la battaglia cruciale si combatte oggi in Europa. Ma allargamenti delle possibilità di manovra sono possibili anche a scala nazionale e anzi sono la leva su cui spingere per indurre più incisivi cambiamenti a scala continetale. Che cosa impedirebbe oggi all’Italia, se non una diversa visione – segnata da quella discriminante destra/sinistra che è ben lungi dall’essere scomparsa – di destinare una parte dei proventi di una eventuale tassazione patrimoniale a finanziare un grande Piano per la creazione di lavoro per giovani e donne basato sulla green economy, i beni comuni, i beni sociali?

L’Unità 11.05.13