attualità, politica italiana

"L'esecutivo appena nato a Brescia rischia il crac", di Eugenio Scalfari

L’uscita in piazza di Silvio Berlusconi a Brescia per attaccare la magistratura e i giudici che l’hanno condannato in appello a pene severe, commisurate alle malefatte da lui ripetutamente commesse, si è svolta – e questo è l’aspetto politicamente più grave – con la presenza e la partecipazione di Angelino Alfano, vicepresidente del Consiglio e ministro dell’Interno, e dei ministri Gaetano Quagliariello (Riforme) e Maurizio Lupi (Trasporti e Infrastrutture). Enrico Letta, parlando nella mattinata di ieri all’assemblea del Pd, aveva già manifestato il suo dissenso dalla presenza di ministri del suo governo all’iniziativa di Berlusconi. Parleremo più dettagliatamente nel seguito di questo articolo delle conseguenze che quel che è accaduto a Brescia può avere, ma intanto ne segnaliamo la gravità e la necessità assoluta che mai pi ù si ripetano fatti analoghi.
Fatta questa premessa che tra poco svilupperemo, seguiamo ora i fatti accaduti ieri e le loro implicazioni secondo l’ordine cronologico in cui si sono svolti.
È la prima volta che un ex leader della Cgil diventa segretario del maggior partito della sinistra italiana che è in qualche modo l’erede del Pci.
Non ci riuscì Giuseppe Di Vittorio né Bruno Trentin né Luciano Lama e neppure Cofferati sebbene ne avessero tutti i numeri. Ce l’ha fatta invece Epifani, sindacalista al cento per cento ma di fede socialista nella corrente guidata allora da Antonio Giolitti.
Epifani governerà fino al prossimo ottobre, quando avrà luogo il congresso del partito. A stretto rigore nulla impedisce che il ‘traghettatore’, come molti lo chiamano per indicare il compito che gli è stato assegnato, si candidi alla successione di se stesso, ma i concorrenti sono molti, a cominciare da Matteo Renzi, la Bindi, Speranza, Cuperlo, Civati, Orfini, Zingaretti, Franceschini, per non parlare di Fabrizio Barca.
Comunque Epifani oggi c’è. Guider à il partito nei prossimi cinque mesi con compiti estremamente impegnativi che lui stesso ha indicato ieri nel suo discorso di presentazione.
Il primo sarà di assicurare la compattezza del Pd nell’appoggiare il governo Letta; il secondo di far sì che quell’appoggio sia attivo e non di rimessa, cioè intessuto di proposte che restituiscano al Pd la primogenitura e quindi la forza per disputare a Berlusconi il ruolo d’ispiratore numero uno del governo. L’appoggio attivo presuppone che il governo sia vissuto come necessario, utile e senza alternative in questa fase di crisi economica e sociale che l’Italia e l’Europa stanno attraversando.
Infine il terzo compito che riguarda la ricostruzione del partito, la partecipazione della base, il rinnovamento della squadra che affiancherà il segretario e, nei limiti
del possibile, lo smantellamento delle correnti che ne sono da tempo diventate altrettanti tarli, altrettanti feudi, altrettante confraternite di potere.
Cinque mesi, durante i quali Epifani dovrà attraversare le fiamme a piedi scalzi. Se ci riuscirà, quei cinque mesi diventeranno una fase essenziale nella storia della sinistra italiana e lui meriterà un oscar per averla guidata.

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Enrico Letta è consapevole di quanto è accaduto all’assemblea del suo partito: se a partire da domani il Pd non gli assicurerà quell’appoggio attivo del quale abbiamo già detto, Letta vedrà aumentare il ruolo di Berlusconi e le sue pretese, la principale delle quali è che le promesse da lui fatte in campagna elettorale costituiscano la base dell’attuale governo. L’indipendenza del governo Letta e la stessa sua credibilità europea ne risulterebbero fortemente diminuite.
È pur vero che l’iniziativa del Pd che abbiamo chiamato appoggio attivo al governo non deve
andare al di là del limite implicito in un governo definito di larghe intese.
Ma su questo punto diventa preminente il ruolo del presidente del Consiglio poiché è a lui che spetta di stabilire e tradurre in atti esecutivi il programma del governo.
L’ha già fatto nel discorso di presentazione alle Camere, ma il discorso non basta anche perché in esso erano delineati due distinti piani di lavoro e due distinte finalità che hanno già suscitato pericolosi equivoci e inquietanti strumentalizzazioni che a nostro avviso debbono esser chiariti con la massima urgenza.
I due piani di lavoro sono da un lato gli interventi di politica economica e sociale necessari per avviare una concreta politica di crescita e di equità in Italia e in Europa nel rispetto degli impegni già presi con le autorità di Bruxelles e con i governi degli altri Paesi a cominciare dalla Germania.
Dall’altra parte le riforme costituzionali e istituzionali senza le quali la politica economica non avrebbe a sua disposizione gli strumenti adeguati e la democrazia italiana rischierebbe un tracollo già in parte verificatosi.
Quanto alle due (pericolose) finalità, esse sono gli scopi concreti per adempiere i quali è nato questo governo e la “pacificazione” auspicata tra le forze politiche che lo sostengono.
Se la pacificazione è limitata all’esistenza di questo governo, è ovvio che essa sia un requisito indispensabile d’una maggioranza parlamentare, sia pure di necessità; non significa buttarsi con le braccia al collo gli uni con gli altri, ma rispettare i legittimi interessi, l’equa ripartizione dei compiti, lo spirito di servizio e di squadra per i rappresentanti dei partiti chiamati a far parte del governo. Il che vuol dire che i ministri e sottosegretari, come pure i presidenti delle commissioni parlamentari, debbono avere rispettivamente come referenti primari il governo stesso e i presidenti delle Camere.
Ma se invece il concetto di pacificazione viene visto come un definitivo oblio di quanto ha diviso e divide le forze politiche presenti in Parlamento e nel Paese, se si tratta d’una definitiva cancellazione dell’incompatibilità tra le parti in questione; allora va detto che quest’obiettivo non è accettabile e non lo sarà fino a quando il centrodestra sarà guidato da Silvio Berlusconi.
Si è fatta molta polemica sulla parola “impresentabilità” ma francamente il vocabolario non ne contempla un’altra per esprimere un dato di fatto oggettivo. Un personaggio con una biografia come quella di Berlusconi non può avere il ruolo che da vent’anni riveste senza che lo spirito stesso della vita pubblica e delle istituzioni ne siano profondamente deturpati. In nessuna delle democrazie occidentali quest’elemento di degradazione sarebbe mai stato accettato e infatti nessun governo occidentale ha accettato Berlusconi e l’Italia da lui rappresentata come un partner credibile e affidabile.
Non si tratta d’una questione personale e soggettiva, ma politica e oggettiva: Berlusconi non è presentabile e non si tratta di un giudizio morale ma politico. Purtroppo il partito da lui fondato non ha saputo né potuto n é voluto uscire dalla minorità ed è tuttora, dopo vent’anni, di sua personale proprietà. Ecco perché una pacificazione non è possibile. Chiederla al Partito democratico significa precludere che esso partecipi ad un governo reso necessario dall’esito delle elezioni dello scorso febbraio e questo è il punto che Enrico Letta deve al più presto chiarire; se non con le parole, con i fatti.
Con le parole l’aveva in parte già chiarito nel suo discorso d’insediamento parlamentare quando, ricordando il pensiero di Nino Andreatta che fu il suo maestro, disse: «Questo governo non si propone di fare la politica ma le politiche, cioè le cose concrete delle quali la gente ha necessità e bisogno». Dunque un governo di scopo come lo fu quello Ciampi del 1993 e poi quello Dini del 1994.
Del resto l’incompatibilità di Berlusconi è stata plasticamente riconfermata da quanto è avvenuto a Brescia con l’aggravante che a quella manifestazione contro la magistratura milanese, accusata d’avere emesso una sentenza sfavorevole a Berlusconi, hanno partecipato non solo tutti i dirigenti del Pdl ma anche il vicepresidente e ministro dell’Interno, Angelino Alfano. Nello stesso contesto (Alfano sempre presente e partecipe) Berlusconi ha anche definito la Corte costituzionale come un’istituzione infeudata alla sinistra politica. Ripeto: ad una pubblica manifestazione di piazza contro la magistratura. Cioè i rappresentanti del potere esecutivo che interferiscono sull’autonomia del potere giudiziario. Berlusconi, imputato e privo di cariche di governo, può spingere la sua protesta fino al ricorso alla piazza, ma i membri del governo no. Sarebbe intollerabile che questo “vulnus” si ripetesse.
Crediamo dunque indispensabile che il presidente Letta intervenga ancora con la massima ed esplicita chiarezza al riguardo. Un aut-aut è indispensabile se il governo vuole continuare ad esistere con l’appoggio del Pd e della pubblica opinione democratica.

La Repubblica 12.05.13