attualità, memoria, politica italiana

"La leggenda di Belzebù", di Eugenio Scalfari

Giulio Andreotti è stato il vero – e mai risolto – mistero della prima Repubblica. Una cosa è certa: Andreotti è stato un personaggio inquietante e indecifrabile, l’incrocio accuratamente dosato d’un mandarino cinese e d’un cardinale settecentesco. Ha tessuto per quarant’anni, infaticabilmente, una complicatissima ragnatela servendosi di tutti i materiali disponibili, dai più nobili ai più scadenti e sordidi. È stato lambito da una quantità di scandali senza che mai si venisse a capo di alcuno. L’elenco è lungo: lo scandalo del Sifar (era ministro della Difesa all’epoca dei dossier di De Lorenzo e di Allavena).
E poi lo scandalo Montedison-Rovelli (allora era presidente del Consiglio), lo scandalo Eni-Petromin (di nuovo presidente del Consiglio), quello Caltagirone, l’arresto del direttore generale della Banca d’Italia, Mario Sarcinelli, e l’incriminazione del governatore Paolo Baffi (che furono ricondotti ad una sua vendetta), lo scandalo Sindona al quale era legato da una dubbia amicizia, quello del Banco Ambrosiano, quello del comandante della Guardia di Finanza in combutta con i contrabbandieri del petrolio e, infine, lo scandalo della P2 che in un certo senso tutti li riassume.
Ciascuno di questi casi può assumere l’aspetto geometrico di una piramide tronca di cui non si riesce a vedere il culmine. Ci sono indizi, amicizie, legami, luogotenenti che mantengono contatti e in caso di necessità si assumono in prima persona le responsabilità (vedi il caso Evangelisti che diede le dimissioni da ministro quando si scoprì che aveva ricevuto denari da Caltagirone). Tutti questi elementi ruotano attorno ad Andreotti e lasciano intuire che potrebbe essere stato lui il Grande Protettore, il Padrino, comunque il punto di riferimento, ma niente di più.
Quest’uomo così discusso esercitò una grandissima influenza ma non dette mai ordini. Suggeriva, consigliava, incoraggiava, proteggeva. Aveva una memoria tenace, una zona segreta della mente nella quale annotava gli sgarbi ricevuti e i favori resi, i nemici e gli amici. Quegli occhi leggermente obliqui sembravano due fessure attraverso le quali entrava tutto ciò che doveva entrare senza che ne uscisse nulla, non un moto d’ira o di gioia, non un risentimento percepibile né di odio né di riconoscenza. Quelle labbra sottili, quella testa incassata tra le spalle ingobbite, quel colorito giallognolo, quell’immagine fisica di fragilità non disgiunta da una certa eleganza, una vita privata senza ostentazione alcuna, quel tratto al tempo stesso alla mano ma distante da tutti, ne fanno un
enigma vivente. Se indossasse un kimono di seta e babbucce ai piedi e aggiungesse ai radi capelli un posticcio codino, Andreotti sarebbe l’immagine d’un alto consigliere della Città Proibita dell’impero celeste. Ma con una sottana violetta e la berretta cardinalizia in capo potrebbe essere un personaggio ritratto di scorcio dal Tiziano, tra un cardinal de’ Medici e un cardinal Barberini. Oppure, in talare nera e fascia di seta alla vita, un potente generale dei gesuiti del diciottesimo secolo.
Nel partito ebbe sempre scarso seguito, la sua corrente numericamente non era forte, i grandi del capitale, sia pubblico che privato, non sono mai stati suoi alleati: Mattei, Petrilli, Cefis, Schimberni, Cuccia, nessuno di questi uomini ha mai avuto con lui rapporti organici mentre alcuni di loro ne hanno avuti con altri leader politici magari anche meno dotati.
Non so se sia stata un’inclinazione o una necessità, ma Andreotti si è sempre posto come il leader di forze eterogenee e minoritarie con l’obiettivo di riunirle intorno a sé trasformandole in una maggioranza sia pure provvisoria. Qualche esempio. È stato il protettore di Rovelli contro Cefis, di Sindona contro Cuccia, del Banco di Roma contro la Commerciale e il Credito Italiano. Di Roberto Calvi contro tutti. Ha avuto in mano per molti anni l’importantissima Procura della Repubblica di Roma, attraverso Claudio Vitalone. Gelli ha lasciato più volte intendere di considerarlo il suo referente principale. Il generale Maletti, capo dei servizi del controspionaggio, gli fu devotissimo. Orazio Bagnasco non mosse passo nella finanza senza consultarlo.
In Vaticano, questo cardinale mancato non è mai stato nelle grazie dei Segretari di Stato in carica, a conferma di quell’inclinazione del carattere di cui abbiamo detto che lo spingeva a lavorare non di fronte ma di sponda; ma sempre mantenne contatti solidi e profondi con i capi di alcune potenti congregazioni, con lo Ior, con il Vicariato di Roma e con alcuni dei sostituti della Segreteria.
Il suo vero avversario a pari livello di intelligenza politica è stato Moro, non Fanfani. Moro privilegiava la strategia, Andreotti la tattica. Ma in alcune cose importanti i due si somigliavano. Per esempio nel radicarsi al centrodestra per meglio aprire sulla sinistra. Per esempio, nel servirsi di personaggi discutibili come procuratori d’affari: se Andreotti ha avuto i suoi Sindona e i suoi Caltagirone, non dimentichiamoci che anche Moro ha avuto i suoi Sereno Freato.
Ma Moro, proprio perché aveva il gusto della strategia, puntò fin dall’inizio sul partito come strumento indispensabile per attuarli. Andreotti invece sul partito non puntò mai. In un’ideale partita a quel classico gioco che è lo scopone, Moro può raffigurarsi come il giocatore che dà le carte e gioca per “apparigliare”, mentre Andreotti è il giocatore “sotto mano” che gioca per “sparigliare”.
Nella corsa al Quirinale sono caduti tutti e due. Ad eliminare il primo hanno provveduto le raffiche di mitra dei brigatisti, il secondo è malamente scivolato sul caso Gelli-P2.
Poi, nel 1992, cadde la prima Repubblica e ogni possibilità che il “divo” avesse ancora una prospettiva politica. Negli anni del berlusconismo è stato il testimone di un’epoca tramontata per sempre.
Che possiamo dire oggi di lui se non augurargli che riposi in pace? “Sic transit gloria mundi” oppure “Ai posteri l’ardua sentenza”, ma i posteri sono già tra noi e c’è da scommettere che molti di loro che hanno appena vent’anni non sanno neppure che sia mai esistito.

La Repubblica 07.05.13

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“Zio Giulio e gli aforismi di una piccola Italietta”, di FRANCESCO MERLO

State attenti: il monumento che in queste ore stiamo innalzando al caro estinto è il monumento che l’Italia fa a se stessa, al peggio di sé. E la lingua di Belzebù, che per sua natura è sempre biforcuta, diventa revival. «Meglio tirare a campare che tirare le cuoia» suona dunque come la sigla di Carosello. «I verdi sono come i cocomeri, rossi dentro e verdi fuori» è nostalgia, proprio come «e la pioggia che va» dei Rokes o «apro gli occhi e ti penso» dell’Equipe 84.
E INVECE quel linguaggio, quell’antologia di detti e contraddetti, al di là della solennità della morte, esprime solo l’impenetrabilità di quella lorda pozza che è stata la nostra storia politica nel dopoguerra.
E cominciamo col dire che non è vero che i suoi aforismi erano musiliani o spengleriani, da grande pensatore del Novecento. «Il potere logora chi non ce l’ha», per esempio era solo un’intelligente stupidaggine alla Catalano e non una profondità alla Junger, perché è ovvio che il potere fa bene alla salute e chi può non si logora, mentre al contrario stanno male quelli che non possono. Ancora più sciocca è «non basta avere ragione bisogna che ci sia qualcuno disposto a dartela». Eppure l’Italia rideva.
Sull’aereo per Palermo, Andreotti una volta mi disse «sono fiducioso in un’assurdità», ma io gli risposi, sia pur con grande gentilezza, che non sempre riuscivo a ridere alle sue battute «forse perché non sono andreottiano». E lui: «Neppure io». Poi ascoltammo insieme la canzone di Francesco Baccini: “Chi ha mangiato la torta? Chi ha sbagliato la manovra? Chi c’è dietro la piovra?”. E ogni volta il coro rispondeva: “Andreotti”. Ricordo bene come i suoi occhiali da presbite rendevano grandi quegli occhi naturalmente piccoli: «Mi piace. Sembra scritta da me. Ha messo in musica quello che io penso di me stesso e cioè che a parte le guerre puniche, perché ero troppo giovane, mi viene attribuito di tutto».
Andreotti copriva con l’arguzia realistica la pesantezza e l’infelicità sua e dell’Italia del dopoguerra, il Paese di cui era al tempo stesso lo statista e il diavolo. La sua ironia — «io sono una specie di mania nazionale» — esprimeva sempre ambiguità, complicità e complessità, evidenti ma imprendibili. E infatti ridacchiava. Perché ogni volta che confezionava una delle sue frasi si compiaceva di commettere un reato intellettuale: «Il generale Dalla Chiesa cambiava spesso programma. Era abituato, forse per mestiere, a non fare quello che diceva». La disse, questa frase, commemorando in un’intervista il suo grande amico Franco Evangelisti, quando appunto l’onorevole “a fra’ che te serve?” era appena morto, e ovviamente era morto anche il generale. E tutti in coro risero, di allegria e di tenerezza, come hanno poi riso e ancora ridono alle barzellette di Berlusconi. Risero perché l’Italia è sempre serva di risata ostello. Ma pensate a quanto ruminare da boss c’era in quella frase sul generale, quanta innocenza e al tempo stesso quanta colpevolezza conteneva, e quanto ammiccava alle polemiche, alle denunzie, al mistero mai risolto dell’omicidio Dalla Chiesa.
Giuseppe Alessi, storico e pulitissimo fondatore della Dc siciliana, il solo che non fu mai coinvolto e neppure sospettato di contiguità con la mafia, ci disse in un’intervista: «Dovevamo fermare il comunismo a qualsiasi costo, il comunismo pesante, quello che non avete conosciuto. Nell’immediato dopoguerra era meglio governare con i mafiosi piuttosto che consegnare il Paese ai comunisti di Stalin». Ebbene, per commentare questa terribile e rassegnata denunzia di Alessi, che partiva dalla guerra fredda e arrivava al processo di Palermo, Andreotti, che non perdeva mai il controllo di sé, si alzò in piedi: «Non credo che Alessi si sia espresso davvero in questo modo, ma sicuramente la storia d’Italia non è andata così. Anche perché così si coprono con la politica le eventuali responsabilità delle singole persone. La politica diventerebbe una specie di scudo stellare e la storia della Sicilia la notte in tutte le vacche sono nere». Di quella innegabile contiguità tra la mafia siciliana e la Dc, dell’innervatura dell’una nell’altra, sino ai cugini Salvo e a Salvo Lima, Andreotti diceva: «Ho cercato di approfondire quelle insinuazioni che sono state fatte. E non ho trovato mai nulla, nemmeno un indizio. Io mi sono sempre affidato al tempo. Ci creda anche lei: il tempo è galantuomo sul serio. E con il tempo, chi solleva polveroni vedrà la polvere ricadergli addosso ». Poi però, il suo realismo comico lo richiamava in servizio: «Non bisogna lasciare tracce».
Quali tracce ha lasciato Andreotti? Ogni volta che ho provato a tradurre i suoi aforismi a degli stranieri nessuno ha mai riso e non perché siano difficili da capire ma perché sono chiusi nel cortile-Italia, cifra stilistica di un mondo residuale. Anche il diavolo italiano all’estero è un povero diavolo di provincia,
e quel finto umorismo curiale si sfalda, non supera i confini e neppure dura nel tempo, come i merletti di donna Felicita. È la solita Italia dei baci perugina, dei pensierini che Andreotti infilava come prodigi di campagna di elettorale. Quando Craxi, presidente del Consiglio, andò in Cina con tutta la sua corte di nani e ballerine, Andreotti tirò fuori questa battuta: «Craxi è andato in Cina, accompagnato dai suoi … cari». Beppe Grillo, in quegli stessi giorni, ne fece una di pura dinamite: «Se in Cina sono tutti socialisti, a chi rubano?». L’Italia si complimentò con Andreotti, ma solo la battuta di Grillo può ancora essere tradotta e capita all’estero.
E invece l’insipida battuta sul «potere che logora chi non ce l’ha» è entrata nella leggenda nazionale e oggi ogni italiano che si vuol dare arie da cinico la ripete compiaciuto. Quell’altra, per esempio, «vorrei esserci alla mia riabilitazione» allude, al tempo stesso, alla malinconia e alla tracotanza, rimanda al dolore per i tempi della giustizia ma anche alla simpatia canagliesca per l impunità, esprime con falsa allegria la doppia presunzione di essere contemporaneamente un altro Tortora e un altro marchese del Grillo. Una volta disse: «Se si sparge la voce che davvero non invecchio, rischio seriamente la polpetta avvelenata». Ed era, quella battuta, la forma greve dell’elisir dell’immortalità che il dottor Scapagnini, pace all’anima sua, avrebbe qualche anno dopo somministrato a Berlusconi. C’era l’idea superandreottiana che il potere italiano può essere abbattuto ma non battuto: la morte innaturale, il caffè corretto, il veleno a Sindona, il nodo alla gola del banchiere Calvi, i colpi di pistola all’avvocato Ambrosoli, la mitraglietta Skorpion che il brigatista Germano Maccari scaricò sul povero Moro rannicchiato nel bagagliaio della Renault rossa nel garage di via Montalcini. Andreotti era intraducibile perché era il piccolo Machiavelli di un cortile bloccato dal fattore K dove la Dc era più forte delle bombe e dei morti per strada, del caffè corretto al veleno e delle stragi sui treni, della finanza criminale e delle trame dei servizi segreti stranieri, un piccolo bruttissimo mondo antico la cui storia per dirla con Luciano Cafagna era allogena, veniva decisa sempre altrove.
E Andreotti ha trafficato con la propria longevità di potente proprio come avrebbe fatto Berlusconi, che ricorreva anche alle medicine vitalistiche di don Verzé: qual era l’età biologica del cuore di tenebra? Una volta Oscar Luigi Scalfaro disse: «Le battute di Andreotti sono tutte accuratamente preparate. La sua genialità consiste nello spenderle al momento giusto». Chissà se era vero. Gli archivi sono pieni di andreottate e in queste ore di commemorazioni è tutto un rifiorire di quel linguaggio che aggirava il problema grazie a un umorismo che ti lasciava soddisfatto solo in apparenza, allusioni, elusioni e di nuovo battute: «Ci sono due tipi di matti, i matti matti e quelli che vogliono risanare le ferrovie ». Quando smettevi di sorridere ti accorgevi che Andreotti non aveva detto nulla, ma che il senso era comunque e sempre miserabile: «Bisogna sempre tenere un diario. Ed è bene che qualcuno lo sappia». Quando gli chiesero se era vero che Gelli, da capo della P2, gli telefonava tutti i giorni, Andreotti rispose: «Neanche con mia moglie, da fidanzati, ci sentivamo tutti i giorni».
Lo ricordo nel suo studio di San Lorenzo in Lucina e poi in quello di Palazzo Giustiniani, quando ripeteva, con sarcasmo, queste due parole: «Associazione mafiosa». E poi mostrava di fronte sé la collezione di campanelli, la libreria con il dono che gli aveva fatto Gorbaciov, le lettere di De Gasperi, la kefiah di Arafat, ma ogni tanto tornava a ripetere, senza cambiare espressione, «associazione mafiosa», e un poco si scaldava, se così si può dire, quando ricorreva, per nemesi, ai complotti che lo avevano visto per tutta la vita stratega, e ora lo vedevano vittima, i complotti americani, le misteriose vie attraverso le quali qualcuno nel mondo voleva fargli pagare chissà cosa… Ebbene, anche in quel momento, quando pareva finalmente curvo sugli anni profondi della sua e nostra Italia, sulla Sicilia lontana e detestata, quando pareva che stesse guardando il proprio riflesso nella acque torbide del passato, ecco che improvvisamente recuperava se stesso: «Nascosto nell’ombra c’è un Andreotti più Andreotti di me?». Ma come è possibile che lei sia amico di Gorbaciov e di Totò Riina? Risposta: «Credo che Totò Riina sarà inorgoglito dall’equiparazione con Gorbaciov». Di sicuro fu amico di Sbardella, di Lima, di Ciarrapico… È stato amatissimo dalla peggiore politica italiana ed è vero che a Palermo è stato assolto, ma gli incontri con Badalamenti ci sono stati, secondo quella stessa sentenza di assoluzione.
Forse è vero che Andreotti in un certo senso era “morto” quando è stato assolto, quando finì in modo così ambiguo anche il processo del secolo che dopo avergli allungato la vita, lo ha assolto e prescritto, reso per sempre imprendibile come il senso delle sue battute e come Roma, con la quale si identificava sin dagli anni trenta fra sacrestie e conferenze, quando andava a trovare a Rebibbia il suo amico comunista Adriano Ossicini e gli portava le torte di mamma Rosa e già frequentava la segreteria di stato di Pio XII: «Non processano me, processano Roma», disse più di una volta. Roma che come lui era circondata dalla storia, Roma che esprime il senso delle cose senza mai dannarsi l’anima, una Roma da osteria quando disse: «Amo così tanto la Germania da desiderare che ce ne siano due». Solo in un Paese come l’Italia uno statista poteva permettersi di rimpiangere il muro di Berlino, solo in Italia si poteva spacciare per arguzia la pesantezza di una frase così reazionaria.
Diciamo la verità: che cosa rimarrà di tutte le sue battute se non la terribile densità del processo del secolo, con la sua mezza assoluzione finale? Cosa rimarrà di lui se non quel che non è stato sin in fondo, cioè il colpevole? C’è qualche studioso che possa seriamente citare uno dei tanti libri che Andreotti ha scritto, o una legge che ci abbia cambiato, o una vittoria sociale, o una significativa opera pubblica, una reale gloria politica, una riforma, un orfanotrofio, un grattacielo, una nave? O non è stato invece Andreotti un pretesto per costruire questo vuoto chiacchiericcio, la lingua sbrindellata della politica italiana dove «a pensar male degli altri si fa peccato, ma spesso si indovina»?

La Repubblica 07.05.13

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“Andreottwitter”, di MASSIMO GRAMELLINI

Una volta Montanelli scrisse che in chiesa De Gasperi e Andreotti si dividevano i compiti: De Gasperi parlava con Dio e Andreotti col prete. «Sì, ma a me il prete rispondeva», gli replicò Andreotti. Forse ora toccherà a lui parlare con Dio e non se la potrà cavare con una delle sue battute. Ciniche, gelide, brevi: da star di Twitter prima di Twitter. Se Dio esiste, ci sono forti dubbi che sia democristiano (ecco, questa potrebbe averla detta lui) e meno che mai della sua corrente, per un pregiudizio anzitutto estetico (Sbardella, Vitalone, Evangelisti: più che ritratti sono foto segnaletiche).

Senza l’ambizione di rubare il mestiere al pubblico ministero celeste, un lungo soggiorno in purgatorio deve averlo messo in preventivo anche Andreotti. Fin dal giorno in cui, ancora imberbe, decise di sporcarsi le mani con il potere. Perché il potere logora chi non ce l’ha, ma sporca tutti coloro che lo toccano, e chi sostiene il contrario è solo un fanatico, o un ipocrita.

Resta l’ironia, molto andreottiana, della scomparsa di un uomo che dopo sessant’anni di vita pubblica sembrava incarnare la prova dell’immortalità: non dell’anima, ma del corpo. Se ne va col suo carico intatto di misteri, ma dopo averne chiarito almeno uno: non è vero che tirare a campare è sempre meglio che tirare le cuoia, come recita uno dei suoi tweet più celebri. Proprio perché a tutti succede di tirarle, prima o poi, tanto vale campare a testa alta e a cuore acceso.

La Stampa 07.05.13

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“Andreotti, gli storici si divideranno”, di LUIGI LA SPINA

Come al solito, è stato Napolitano a indicare la strada sulla quale si dovevano incamminare i commenti: bisogna riconoscere l’eccezionale ruolo svolto da Andreotti nelle vicende della nostra Repubblica, ma il giudizio su di lui va affidato alla storia.

Così, nella scia della duplicità, peraltro simbolo di una vita che per i suoi detrattori aveva l’accezione della doppiezza, si sono indirizzate quasi tutte le dichiarazioni d’ordinanza in occasione della sua morte. Eppure, questa volta il nostro presidente-bis della Repubblica potrebbe essersi sbagliato ad affidare con tanta fiducia al supremo tribunale del tempo. Se la politica, infatti, si è ritirata nel limbo dell’imbarazzo di fronte alla sua indecifrabile personalità, anche la giustizia, almeno quella terrena, non è riuscita, dopo anni e anni di indagini, a emettere una sentenza che non avesse, appunto, il carattere dell’ambiguità e della doppiezza: per metà assoluzione e per metà condanna. È possibile quindi, anzi è molto probabile, che anche gli storici futuri si divideranno sulla sua figura e finiranno per arrendersi, pure loro, di fronte al vero incrollabile muro di ingiudicabilità che impedisce di emettere il verdetto definitivo su di lui: il mistero.

L’uomo che per sessant’anni è stato sempre sul palcoscenico della vita pubblica, sempre in prima fila, sempre protagonista delle luci della politica e persino dello spettacolo, se ne è andato senza accendere neanche il più piccolo spiraglio sul retroscena di quella ribalta. Come per suggellare la sua vita nella definizione dell’uomo più misterioso della nostra Prima Repubblica e per lanciare, da accanito scommettitore alle corse quale era, l’ultima sua sfida, proprio alla storia: far breccia, finalmente, nel muro del suo mistero.

L’imbarazzo della politica d’oggi nei confronti di Andreotti non deriva, però, solo dall’indecifrabilità dello statista romano, ma da un sottile legame, forse persino un po’ inquietante legame, del nostro presente a quel passato. Come se il richiamo di quella presenza non si spegnesse neanche con la sua morte e, anzi, il momento della sua scomparsa segnasse, per una beffa della cronaca di questi giorni, una coincidenza di segni che riaccende il ricordo e l’attualità della sua esperienza politica.

Se Andreotti è stato l’essenza della cosiddetta «democristianità» nella storia della nostra Repubblica, è quasi banale osservare che Letta, con Alfano suo vice, sono i giovani dc a cui è affidato il rinnovamento della politica italiana, perché forse quel carattere è l’araba fenice della nazione. Meno ovvio dell’anagrafe partitica, è il metodo di governo proclamato dal neopresidente del Consiglio nel suo discorso di investitura alle Camere, la concretezza. Non è stata sempre questa la maniera con cui Andreotti ha definito il suo modo di governare gli italiani, fino a intitolare la sua storica rivista di corrente con il nome di «Concretezza», appunto? Da tutti i commentatori, poi, è stato rievocato il precedente storico delle «larghe intese» sulle quali si regge il governo Letta, il primo esperimento del genere, quello inaugurato nel ’76 proprio da Andreotti, definito della «non sfiducia» e proseguito, due anni dopo, sempre da lui a palazzo Chigi, con il ministero della solidarietà nazionale.

I brividi della memoria, però, non si fermano qui, perché, purtroppo, richiamano altri ricordi, più sanguinosi. Perché quel governo con cui Andreotti ebbe la fiducia anche dei comunisti, nel marzo ’78, nacque sull’onda del rapimento di Moro e dell’uccisione dei suoi uomini di scorta come l’esecutivo Letta è stato battezzato dalla sparatoria contro i carabinieri davanti al Parlamento.

Non bisogna, naturalmente, dar troppo peso a quelle che sono solo suggestioni di eredità partitiche e coincidenze di tempi molto diversi per formulare confronti, e meno che mai, previsioni del tutto ingannevoli. Ma la scomparsa dell’ultimo grande statista democristiano e i troppi chiaroscuri dei commenti di ieri una lezione utile la danno, invece. Fino a quando l’Italia non sarà capace di fare i conti con la sua storia, anche recente, di riconoscerne virtù e vizi senza sempre voler assolvere la propria parte e sempre condannare quella avversaria, ma ammettendo l’inestricabile partecipazione di tutti sia alle prime sia ai secondi, l’ombra di Andreotti e del suo mistero continueranno a incombere sulla politica italiana.

La Stampa 07.05.13

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