attualità, politica italiana

"Il ribaltone del Quirinale", di Claudio Sardo

Ci mancava solo l’inutile polemica sui saggi. È ovvio che non avranno il compito di sostituirsi al Parlamento, né di comporre una coalizione di governo, né di scrivere il programma del futuro presidente del Consiglio. I saggi non sono nulla di costituzionalmente rilevante. Giorgio Napolitano li ha chiamati come «facilitatori», di fronte alla paralisi tripolare, per offrire al suo successore qualche strumento utile al fine di dirimere una crisi politica così drammatica.

Sarebbe un grande risultato se il comitato riuscisse a definire un percorso condiviso per la Convenzione sulle riforme, con tempi ben scanditi e con un piano di lavoro finalizzato anche alla nuova legge elettorale e alle necessarie modifiche dei regolamenti parlamentari.
Ma il cuore della decisione del Capo dello Stato non sta nei saggi, bensì nel ribaltamento dell’ordine del giorno politico. Congelando la crisi, Napolitano ha stabilito di fatto che l’elezione del nuovo presidente della Repubblica precederà la formazione del nuovo governo. E questo cambia molte cose nelle strategie dei vari protagonisti. Il Pdl, ad esempio, ha fin qui bloccato il tentativo di Bersani, pretendendo come contropartita o un uomo di centrodestra sul Colle, o un salvacondotto per Berlusconi. Il leader del Pd si è opposto allo scambio, giustamente considerato «inaccettabile», ma non ha avuto la possibilità di superare l’ostacolo perché il potere di interdizione del Cavaliere è stato rafforzato dall’assoluta indisponibilità del Movimento Cinque stelle a giocare in qualche modo la partita del governo.
Ora questo ricatto potrebbe svanire. O cambiare segno. Perché l’anticipo dell’elezione del presidente della Repubblica pone il centrosinistra (che ha 480 grandi elettori sui 505 necessari per l’elezione) in una condizione di maggiore libertà. E non è un caso che Berlusconi sia andato su tutte le furie. Non sono certo i saggi a preoccuparlo, né i limiti «istituzionali» del loro mandato. Il Cavaliere voleva portare la trattativa per il governo al tavolo della trattativa per il presidente. E adesso grida che, se non ci sarà il governo prima della convocazione delle Camere in seduta comune, la legislatura si chiuderà inesorabilmente dopo l’insediamento del nuovo Capo dello Stato.
Ovviamente non è detto che la minaccia abbia corso. Ma, di certo, è una minaccia che oggi fa meno paura. Chissà se la richiesta, avanzata ieri da Alfano, di riprendere le consultazioni al Quirinale contenga una disponibilità a riconsiderare il «piano A» del Pd. Un piano A – va ricordato – che consiste in un governo sotto la responsabilità del centrosinistra (con otto punti di programma e l’apertura a «maggioranze variabili» in Parlamento) e in un secondo binario di riforme guidate dal Pdl, dalla Lega, dai Cinque stelle, cioè dalle forze che non faranno parte della compagine ministeriale.
Una cosa comunque pare inaccettabile per il Pd, per il centrosinistra e per i suoi elettori. Che si accantoni il piano A senza alcuna verifica parlamentare e si provi a discutere soltanto del piano B, come se gli elettori del centrosinistra fossero figli di un dio minore, come se alla Camera Pd e Sel non avessero la maggioranza assoluta dei seggi, come se tutti i Paesi europei – nessuno escluso – non fossero oggi guidati dal leader del partito che ha più parlamentari.
Questo è un pro-memoria valido anche per il presidente della Repubblica prossimo venturo. Giorgio Napolitano ha gestito questa prima fase della crisi con grande prudenza, senza pregiudicare le possibilità di Bersani (a cui ancora non è stato assegnato l’incarico), né le prerogative del suo successore (il quale, se vorrà, potrà anche ripartire da zero), né la libertà delle forze politiche e del Parlamento (quest’ultimo ancora non ha espresso un voto). Il Capo dello Stato ha cercato di battere la «via negoziale», la meno comprottente sul piano istituzionale per un presidente nel semestre bianco. Purtroppo questa strada non ha dato finora risultati. Il tripolarismo si è manifestato nelle forme di tre minoranze di blocco.
Il nuovo presidente della Repubblica dovrà avere le caratteristiche di un uomo di garanzia, fedele alla Costituzione ben prima del giuramento solenne, capace di rassicurare l’Europa e il mondo, ma anche di cogliere la forte domanda di innovazione politica e di orientarla verso la rigenerazione della democrazia e dei partiti. Un presidente non presidenzialista, ma in grado di portare finalmente il Paese fuori dalle macerie istituzionali della seconda Repubblica e, quindi, fino alle riforme promesse e mai attuate nell’ultimo ventennio. Non serve un presidente vendicatore, un presidente che divide. Serve un presidente con un largo apprezzamento tra le forze politiche e nel Paese. I mille grandi elettori avranno un compito importante, che dovranno svolgere senza faziosità, ma con coraggio e lungimiranza. Dietro le tante parole della crisi, c’è infatti un’Italia in bilico. Un’Italia che ha paura e nella quale cresce la sfiducia e diminuisce il lavoro. Bisogna ripartire. Il cambiamento è il solo atto possibile di responsabilità. Poi, il nuovo presidente dovrà ripagare la fiducia, imboccando finalmente la «via parlamentare» della crisi. L’ordinaria amministrazione di Monti non può durare a lungo, checché ne dica il costituzionalista Grillo. Si assuma il Parlamento la responsabilità di dire sì o no. Se non sarà capace di esprimere un governo, si tornerà al voto. Ma forse, davanti a un presidente con il potere di scioglimento delle Camere, qualcuno diventerà più ragionevole.

L’Unità 02.04.13

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“Aspettando il decreto sulle imprese, per Giovannini&co ecco le cose da fare”, di Raffaella Cascioli

Oggi i saggi al Quirinale da Napolitano: per le 11 sono attesi quelli che si occuperanno dei temi economico-sociali. Intanto la Camera è chiamata ad approvare la nota di variazione al Def. Domani il governo potrebbe varare il decreto sui debiti della pubblica amministrazione. Che l’emergenza economica sia in cima alla lista dei pensieri del presidente della Repubblica lo si è visto dalla scelta dei sei saggi che da oggi dovranno lavorare per indicare le riforme economico-sociali necessarie al paese. Che l’urgenza di nuovi provvedimenti da varare già domani da parte del governo dimissionario, chiamato ad agire al di là dell’ordinaria amministrazione, sia tale da bruciare le tappe in parlamento non c’è dubbio. Che la commissione speciale, l’unica ad essere formata sia alla camera che al senato, sarà chiamata a lavorare a pieno regime e, probabilmente in raccordo con i saggi del Presidente, pure.

Già perchè se a livello economico l’emergenza sociale, occupazionale e finanziaria è stata finora analizzata e sviscerata ma non ancora aggredita con provvedimenti ad hoc, quel che serve a questo punto è un governo che decida, un parlamento che approvi, un’amministrazione che sappia dare attuazione ai provvedimenti e vigilare che siano osservati. Il resto spetterà al mondo produttivo che aspetta solo di essere messo alla prova. Oggi l’aula della camera è chiamata a votare la risoluzione del relatore di maggioranza Marco Causi del Pd che, al termine delle sedute della Commissione speciale, è stato incaricato di riferire a Montecitorio affinchè sia dato il via libera alla nota di aggiornamento al Def.

Un atto propedeutico al varo del decreto operativo per il pagamento della prima tranche dei crediti pregressi vantati dalle imprese nei confronti della pubblica amministrazione. Se così fosse il consiglio dei ministri di domani potrà varare il provvedimento a cui sta lavorando in questi giorni il ministero dell’economia e che prevede l’erogazione di una prima tranche di 20 miliardi nella seconda metà del 2013 e una seconda sempre di 20 miliardi all’inizio del 2014. Rispetto ai 91 miliardi di debiti arretrati, contabilizzati di recente dalla Banca d’Italia, si tratterebbe di procedere al pagamento di una somma in grado di far lievitare il rapporto deficit-Pil dello 0,5% che si andrebbe ad aggiungere al 2,4% stimato dal governo così da mantenersi al di sotto della soglia del 3% e da non mettere a rischio la chiusura della procedura di infrazione per deficit eccessivo.

Una volta varato il decreto, Comuni e province potrebbero veder allentato il patto di stabilità interno con il pagamento di una quota dei 12 miliardi programmati per il 2013 a fronte dei 3 dello stato e di 5 miliardi delle regioni. È anche possibile che sempre mercoledì il governo decida di procedere al rinvio del pagamento della Tares, la nuova tassa sui rifiuti che rischia a luglio di creare più di un problema a bilanci di famiglie e imprese. «Mi aspetto uno stretto raccordo tra la Commissione speciale e i saggi – spiega a Europa il deputato del Pd Pier Paolo Baretta – Chiederò al presidente Giorgetti di riferire e di aprire un dialogo e confronto».

Un confronto che sarà tanto maggiore quanto più ci si avvicinerà alla presentazione del Def che entro i primi giorni di aprile dovrà essere discusso in parlamento. Di qui è possibile che i sei (Giovannini, Pitruzzella, Rossi, Giorgetti, Bubbico e Moavero) – che oggi si riuniranno alle 11 al Quirinale – interagiscano con il Tesoro per approntare Def e Piano delle riforme che saranno poi implementati dal parlamento.

da EuropaQuotidiano 02.04.13