attualità, partito democratico, politica italiana

"La sede vacante", di Ezio Mauro

So può prevalere nei numeri e nelle percentuali (cosa che certamente conta, e fa la differenza sui competitori) e tuttavia perdere le elezioni. È quel che è accaduto al Pd e alla sinistra italiana. Bisogna dire la verità. La coalizione guidata da Bersani dopo un lunedì di disillusioni e una notte di tormenti ha infine spuntato uno 0,4 per cento in più alla Camera, incassando un premio di maggioranza abnorme, che distorce il principio di rappresentanza, grazie al Porcellum voluto dalla destra. È davanti di un soffio anche al Senato, dove non c’è maggioranza possibile, e dove risiede dunque la nuova ingovernabilità del sistema politico e istituzionale italiano. Ma ha perso nel significato autentico del voto, nel suo risultato morale, nel segnale che hanno ricevuto gli elettori di sinistra e tutti i cittadini.
Il Pd non era solo il vincitore annunciato di un’occasione unica e straordinaria: era l’alternativa in campo ai vent’anni di berlusconismo e soprattutto alla sua fase finale, con l’incapacità a governare coniugata con la crisi di credibilità e la perdita verticale di consensi, e l’azione esterna degli scandali, degli eccessi, dei soprusi e degli abusi. Tutto ciò ha portato Berlusconi non solo alle dimissioni, poco più di un anno fa, ma praticamente all’abbandono della politica, senza più la fiducia nemmeno dei suoi uomini.
Alle prime elezioni dopo la fine di questa avventura, il Pd non riesce a imporsi come forza di governo alternativa a Berlusconi, ma anzi assiste alla resurrezione miracolosa del Cavaliere che gli sbarra il passo e sfiora addirittura la vittoria, al trionfo di Grillo che pesca abbondantemente nel suo campo con la sua proposta di rinnovamento della politica e sullo slancio diventa primo partito, all’afflosciarsi di Monti che doveva essere l’alleato di governo e che non riesce a compiere la trasformazione da bruco a farfalla, perché dal Premier tecnico non è sbocciato un leader politico.
L’ingovernabilità è dovuta a questo, prima ancora che ai numeri. La politica tradizionale – tutta insieme, Monti compreso – non ha capito che la vera posta in palio nelle elezioni era quella del cambiamento, cioè una risposta radicale e concreta alle disfunzioni e alle inefficienze della nostra macchina istituzionale e politica, e soprattutto alla sfiducia drammatica dei cittadini nei confronti del sistema. Quando la fiducia nei partiti scende al cinque per cento, e quella nel parlamento si ferma all’otto, siamo sotto la legge di gravità, nel senso che una democrazia non può stare in piedi, o almeno una repubblica non funziona. Gli scandali e il malgoverno hanno fatto il resto, allontanando ancora di più gli elettori dagli eletti, la lunga semina di antipolitica, per mesi e anni, ha preparato il terreno di coltura agli opposti populismi che si alimentano di crisi reale e fantasmi generici, come l’Europa, l’euro, la Germania, la Bce e le banche. La divaricazione tra la forza del vincolo europeo, che ci condiziona come Paese a rischio, e la debolezza della sua legittimità dal punto di vista del consenso democratico ha prodotto un esorcismo politico che semplifica la crisi mentre la nega, e la attribuisce comunque a colpe esterne, in una de-responsabilizzazione crescente. Col risultato paradossale di un Paese che accetta i sacrifici ma è incapace di elaborare una cultura condivisa della crisi, e un suo meccanismo di governo.
In una parola, è come se il governo della fase che viviamo fosse impossibile, per una fetta di pubblica opinione. O peggio, inutile. Dentro questa rinuncia ipnotica, si scavano percorsi a breve, abitati da illusioni politiche, fantasmi culturali. Nazionalizziamo le banche, anzi chiudiamole. Ignoriamo lo spread, che importa se cresce? Non badiamo ai mercati, tanto sono un po’ pazzi. Se la Germania pretende troppo, usciamo dall’euro. Sciocchezze che funzionano come false rassicurazioni, perché non esistono risposte banali a problemi complessi. Ma funzionano, come le false promesse sulle tasse che si possono restituire, i soldi che arrivano dalla Svizzera, il magnate-demiurgo che in ogni caso, se mancano i miliardi, li metterà di tasca sua.
Come vediamo da questi esempi, tutti presi dalla campagna elettorale, anche la politica è in sede vacante, e qualcos’altro di confuso, semplice ed elementare, consolatorio e primordiale ne ha preso il posto. Un negazionismo autarchico, insieme orgoglioso e compassionevole, che è un prodotto non secondario della crisi sociale del nostro
tempo. I populismi diventano l’es pressione compiuta ed organizzata di tutto questo. A destra, con l’incalzare sorridente e ideologico di Berlusconi. A sinistra (o meglio, in un luogo di pseudosinistra) con la predicazione comica e apocalittica di Grillo. Con una differenza non da poco: che mentre Berlusconi chiede un voto di autotutela, di protezione a breve, conservativo, esaurendo ogni antica spinta rivoluzionaria, Grillo al contrario è capace di intercettare non solo quella spinta ma una vera ansia di cambiamento, a cui si aggiunge una volontà di partecipazione, una disponibilità all’ingaggio, una manifestazione concreta della volontà di realizzare fisicamente il rinnovamento.
Ed è qui la vera energia che ha portato i grillini – nello sganghero del linguaggio mortuario del leader, nel terrore della democrazia interna – a diventare il primo partito. Ed è sempre qui e proprio qui la sconfitta del Pd. Un partito nato con l’ambizione di essere moderno perché nuovo, forte se contendibile, aperto in quanto scalabile, pronto a mettere ogni volta in discussione i suoi assetti locali e nazionali e le sue leadership con la religione delle primarie, non può infatti essere messo fuori gioco dalla sfida per il cambiamento, soprattutto quando diventa il tema centrale delle elezioni e di questa fase. Sembra quasi che la sinistra abbia rinfoderato tutta la spinta che veniva dalle primarie, che Bersani, battuto Renzi, abbia archiviato la questione cruciale del rinnovamento dei dirigenti, che il Pd abbia sotterrato i suoi talenti (frutto della partecipazione dei cittadini) invece di farli fruttare. Un riflesso di conservazione, di garanzia degli apparati e dei gruppi dirigenti, che già si spartivano posti di governo in organigrammi improbabili. Ma soprattutto la rinuncia a giocare la partita del cambiamento preferendo la battaglia navale delle alleanze, come se tutto fosse dentro il Palazzo e la vita non scorresse invece fuori. Come se non esistessero un modo, un codice, una cultura e un linguaggio moderni e capaci di declinare il tema del cambiamento della politica da sinistra, e non solo da postazioni populiste.
Ora il Pd pensa come forza di maggioranza alla Camera di avere il dirittodovere di fare la prima proposta per il governo. E pensa di farlo guardando ai grillini, e aprendo loro la strada per la presidenza della Camera. Ma anche qui, lo schema di gioco è vecchio e difensivo. Grillo non accetterà mai un’intesa di sistema, programmatica e di maggioranza, potrà dare l’appoggio a singole riforme, non di più. E allora la vera formula di sfida e insieme di ingaggio dei grillini è la partita del cambiamento, com inciando dalla politica e dalle istituzioni, con un pacchetto che comprenda il dimezzamento del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo
perfetto, la riduzione drastica dei costi della politica, l’abolizione dei privilegi, una vera legge anticorruzione, il conflitto d’interessi, il cambiamento della legge elettorale.
Questa – insieme con le misure per il lavoro, col rigore combinato con l’equità, con la riduzione delle tasse per i ceti più deboli – deve essere la piattaforma non solo politica ma identitaria della sinistra dopo la sconfitta. Guardando ai cittadini e alla pubblica opinione più che alla società dei partiti. E proponendo il cambiamento invece di subirlo. Su una piattaforma di questo tipo, si può mettere l’onda grillina alla prova del parlamento. Sapendo che c’è una barriera da superare, che è il rispetto degli impegni presi con l’Europa, quando eravamo a rischio default: perché se Grillo in parlamento seguirà una strada che ci porta fuori dall’euro, nessun accordo è possibile, e il Paese giudicherà. A quel punto, potrebbe esserci lo spazio soltanto per una larga coalizione, che gli elettorati del Pdl e del Pd difficilmente potrebbero reggere. E infine resterebbe la carta estrema di un governo allo sbando, senza maggioranze precostituite, che potrebbe diventare un governo di scopo nella drammatica necessità di negoziare con l’Europa gli aiuti che ci toglierebbero l’ultima sovranità, o di tentare disperatamente di scongiurarli.
I mercati ci hanno già messi nel mirino per l’evidente, clamorosa instabilità scelta dagli elettori. Dopo il voto del Senato siamo infatti davanti al caso di scuola del “governo impossibile”, o di governi tutti anomali, impropri e di breve durata. Al fondo, nuove elezioni come la Grecia, con la rabbia e la protesta ingigantite nelle urne. Perché non provare a riformare davvero la politica, subito e radicalmente, invece di aspettare che venga sepolta dall’onda dell’antipolitica? È una convenienza per il Paese, un’opportunità per tutti, ma è una necessità per la sinistra. A patto di essere credibili, ecco il problema. E dunque di avere il coraggio di mettere subito e davvero in gioco tutto, dopo la sconfitta: leadership, premiership, partito e consenso elettorale pur di salvarsi l’anima e approdare nel mondo nuovo.

La Repubblica 27.02.13