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“Impopolare anche in Europa, il Cavaliere è solo”, di Pierluigi Castagnetti

Lo sapevamo e l’abbiamo anche detto, Bersani in particolare da settimane sta dicendo che senza di noi al governo l’Italia diventa un problema per tutti, per l’Europa e per il mondo. La reazione del capogruppo Ppe nel parlamento europeo Joseph Daul è di una durezza e una chiarezza esemplari: la sfiducia al governo Monti da parte del Pdl è stato semplicemente un atto di irresponsabilità.
Una posizione condivisa da tutti i capi delegazione nazionali di quel gruppo a partire dall’italiano Mario Mauro. Non c’è da attendersi che nei prossimi giorni venga decisa l’espulsione del partito di Berlusconi dal Ppe, perché i numeri contano e quello del drappello di parlamentari italiani del Pdl è piuttosto consistente, ma è certo che ieri è cominciato il processo di una sua progressiva marginalizzazione politica.
Il fatto che a distanza di poche ore Angela Merkel abbia ribadito lo stesso giudizio esprimendo la fiducia che gli italiani non dissiperanno il lavoro del governo Monti significa che i democristiani tedeschi invitano gli italiani a votare ogni partito fuorché il Pdl. Ciò che Berlusconi ha sottovalutato è che l’Unione europea in questo momento di crisi finanziaria che la investe direttamente richiede una compattezza straordinaria e un’affidabilità senza riserve a tutti i partner.
L’Unione non può tollerare una campagna antieuropea in un paese strategico come l’Italia. In Europa non capiscono come ci possa essere chi in questo momento mette in discussione gli impegni sottoscritti e la necessità di una sostanziale sovranità finanziaria a livello comunitario, quando persino la Grecia e la Spagna, guidate da leader democristiani sfidati da una situazione drammatica con la disoccupazione che supera il 20 per cento continuano a fare ciò che è loro richiesto. In Italia invece oltre a movimenti antisistema come quello “5 Stelle” si sta costituendo una coalizione fra Pdl e la Lega che intende cavalcare gli stessi argomenti.
C’è poco da gridare all’interferenza straniera o alla lesione della nostra autonomia quando le scelte di un paese minacciano di produrre ricadute drammatiche negli altri paesi. La questione è semplicemente questa: nessuno in Italia può ignorare quali possano essere le conseguenze sistemiche di una soluzione di continuità con il lavoro del governo Monti, ancor meno chi si candida a un ruolo politico nazionale importante, fosse anche solo quello del maggior partito di opposizione. È evidente che i nostri partner possono e debbono essere politicamente indifferenti all’esito delle nostre elezioni nazionali, vinca una sinistra democratica o un centro democratico o una destra democratica, ma non possiamo pretendere da loro che siano indifferenti rispetto a una campagna elettorale che tendesse a capovolgere la cosiddetta agenda Monti e, di fatto, a cancellare gli impegni assunti in questo anno.
La presa di posizione del Ppe di ieri ha, dunque, un valore che va oltre una rottura all’interno dello stesso gruppo politico e rivela una volta di più come nell’era della globalizzazione e del predominio dei mercati finanziari il tema delle sovranità nazionali, almeno all’interno dell’Unione europea, va declinato in modo nuovo. Il Pd ne è ben consapevole e, infatti, non dice che le sovranità nazionali si sono ridotte, preferendo dire che si sono dilatate in un perimetro largo che comprende tutti i partner dell’Unione, in cui ognuno è interessato e in parte partecipe delle decisioni dell’altro poiché le decisioni dell’altro avranno ricadute positive o negative a casa propria.
Gli elettori continuano a essere giustamente liberi di scegliere quale partito politico ritengono più adeguato a gestire in modo giusto ed equo i passaggi che portano verso il futuro, ma non hanno la libertà di mettere in discussione unilateralmente le fondamenta di una Unione politica, almeno fino a quando si pretende di farne parte.
da Europa Quotidiano 12.12.12

“Dal lavoro ai migranti, come cambiare l’Italia”, di Pietro Soldini

La crisi della politica si combatte con la politica ed il dibattito sul merito è ancora inadeguato. Penso che il problema principale, oggi in Italia, sia riuscire a dare un’altra offerta di partecipazione, di cittadinanza attiva e di devoluzione di poteri dai partiti e e dalle istituzioni verso i cittadini. Le primarie sul leader del centro sinistra hanno sicuramente alzato la qualità e quindi bisogna insistere con le primarie per scegliere i parlamentari. Ma si deve anche andare oltre e sperimentare nuove forme di partecipazione democratica. Per esempio si può pensare di far eleggere il presidente della Rai dagli abbonati, quello dell’Inps dagli assicurati o quello dell’Acea dagli utenti utilizzando i nuovi strumenti comunicativi e tecnologici della rete. Sarebbe una nuova idea di «comunitarizzazione» dei beni comuni alternativa alle liberalizzazioni e di irrobustimento della democrazia e dei suoi corpi intermedi. L’altra questione riguarda il Piano del lavoro: c’è la necessità, infatti, di puntare su un progetto di messa in sicurezza del territorio, degli ambienti di vita, di studio e di lavoro, su un piano di legalizzazione del lavoro nero e di lotta alla precarietà e allo sfruttamento. La lotta al lavoro nero significa anche recupero di risorse fiscali e contributive ingenti. Occorre un reddito minimo di cittadinanza legato ad un sistema di lavori «socialmente utili» e di «servizio civile» per un’altra idea di produttività economico-sociale. E questo può rappresentare una risposta non solo occupazionale, ma anche motivazionale per le nuove generazioni. Restando sui temi del lavoro bisogna uscire dal terreno scelto dall’amministratore della Fiat Marchionne che vuole compressione del costo del lavoro per recuperare competitività. Perché in questo ragionamento c’è qualcosa che non torna. Il costo del lavoro sul prodotto auto, chiavi in mano, incide infatti per il 17%. Una macchina che costa 10 mila euro, se si azzerasse per miracolo il costo del lavoro, costerebbe 8.300 euro. Pensate che se ne potrebbero vendere molte di più di oggi? E sull’altro 83% di costi, che sembrano incomprimibili e che sono diventati, al contrario del salario, «variabili indipendenti», noi che cosa diciamo? Parliamo di questioni che riguardano energia, progettazione, brevettazione, costo del denaro, pubblicità: spesso il costo pubblicitario di un prodotto è superiore allo stesso costo del lavoro e non vale solo per l’auto. Fra l’altro la pubblicità rappresenta il «potere temporale» che ha consentito a un uomo di spadroneggiare e sgovernare, fino allo sfinimento, il nostro Paese. Infine un altro argomento è l’immigrazione che rappresenta una prova del fuoco delle società moderne, sulla quale si esercitano nuove e vecchie destre alimentando razzismo e xenofobia da una parte e dumping sociale dall’altra ed è del tutto evidente l’inadeguatezza dell’impianto strategico della sinistra. I dati dell’Onu ci dicono che i migranti nel mondo sono circa 220 milioni, un terzo di essi migra all’interno dei Paesi sottosviluppati, un altro terzo migra verso i Paesi sviluppati ed il terzo restante migra dai Paesi sviluppati verso il resto del mondo. È un tema globale e non può essere affrontato in termini di accoglienza o respingimento, nè come conflitto fra i Paesi di emigrazione e di immigrazione. Sono infatti sempre di più i Paesi e l’Italia è fra questi che vivono contemporaneamente la condizione di Paesi d’immigrazione, emigrazione e transito. La questione migratoria va affrontata in termini di economia, lavoro, redistribuzione del reddito, riequilibrio demografico, cittadinanza, diritti, norme e tutele internazionali. E sarebbe un punto di qualità per un programma di governo nuovo per l’Italia. Sono questi i temi che devono diventare centrali nell’esercizio di nuovi conflitti e di una nuova contrattazione sociale per riuscire ad alimentare nuove opportunità, nuove professioni, una nuova centralità del lavoro. Insomma bisogna mettere in campo tutta la strumentazione programmatica in grado di aprire una nuova fase delle società cosiddette avanzate. Una fase che sia più sobria, equa, inclusiva e diversamente ricca.
*Responsabile immigrazione CGIL
L’Unità 12.12.12

“Lo spirito del tempo”, di Barbara Spinelli

L´Europa, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un´incattivita folata di vento ci sgomenta.
I giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: «Berlusconi è il contrario della stabilità», deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.
Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l´Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l´Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell´Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.
Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier – Viktor Orbán – che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l´Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell´integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c´è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell´acefalo regno dell´Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s´adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l´ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione – fredda, tutt´altro che folle – di favorire in ogni modo, per l´interesse suo e degli accoliti, l´ingovernabilità dell´Italia. Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l´Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo.
Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell´ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell´amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l´autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l´Europa (Che c´importa dello spread?). Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l´asse con la Lega. L´arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d´interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità.
Ma ecco, anche in questo campo l´Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa – in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell´Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull´informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.
Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l´eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c´è di realistico (e per nulla comico), nell´ultimo monito di Grillo: «Attenzione alla rabbia degli italiani!». Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l´articolo 11 della Carta: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche». Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici.
Il silenzio sulla libera stampa non è l´unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l´azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica). Perché l´occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell´Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega.
L´antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l´Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l´unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza – infine – che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l´Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.
L´ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L´avviso non poteva essere più chiaro: l´Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all´Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l´euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.
Non sorprende che l´anti-Europa diventi spirito del tempo, nell´Unione. Che Berlusconi coltivi l´idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall´inizio un decreto sull´incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d´interessi. Magari credeva, come l´Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell´economia-mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.
12.12.12
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“Prigionieri del déjà vu”, di FRANCESCO MERLO
Berlusconi è il carceriere dell´Italia perché la imprigiona dentro il déjà vu. Quando per esempio, al telefono del suo déjà téléphoné Belpietro, parla contro l´Europa, contro la Merkel e contro i mercati non c´è italiano che non sappia cosa sta per dire perché Berlusconi lo aveva già detto e tutti lo avevamo già sentito. Anche i suoi tic ormai lividi – «ma guardi», «mi consenta», «ma smettiamola» – sono per ciascuno di noi un déjà entendu, un già ascoltato, che è uno stato confusionale del Paese, una sorta di ekstasis, una fuoriuscita dal tempo reale. È roba da fare ammattire perché il déjà vécu, il già vissuto, è sostenibile solo quando è un lampo di pochi secondi. Qui dura da venti anni e non è mai finita.
E anche le reazioni della Merkel prudenti ma dure, l´angoscia del Partito Popolare europeo, le paure del presidente Martin Schulz, insomma il folclore italiano che di nuovo diventa malessere internazionale è la nostra trance sonnambolica, un deliquio che abbassa i poteri critici perché la dannazione del déjà vu è ormai la via italiana alla crisi internazionale. E i terribili titoli dei giornali più autorevoli del mondo sono il déjà lu, il già letto. Gli articoli scritti sull´Italia sono il déjà écrit. In tutte le lingue del mondo la coazione a ripetere è un´epidemia planetaria di déjà vu.
E anche noi, anche io mi sorprendo a riproporre le parole che avevo già usato e a ritrovarle vuote, sospese nella surrealtà del déjà moi-même, il già me stesso, che è la malattia di chi non diventa grande: così Berlusconi ci nanizza. E i comici, che furono forse i soli a far fortuna grazie a Berlusconi, sputano oggi le bellissime antiche battute come malori dell´anima, perché senza lo slancio vitale non c´è riso, diceva Bergson. E il déjà ri, il già riso, è forse la peggiore tra le patologie del déjà vu: è un ristagno, un impaludamento.
Il déjà vu, che fa diventare seri persino i comici, toglie il respiro e la dignità anche agli intellettuali organici del berlusconismo e ai suoi astuti e abilissimi frondisti perché la ri-fronda è un´autosconfessione, prevedibile come l´obbedienza. E il déjà vu smaschera i collaterali che si fingevano equidistanti e disarma gli organ house perché i cani da guardia che rilatrano lo stesso bau diventano cani da macina che girano attorno a se stessi: il déjà aboyé, il già abbaiato, è un suono sordo e inespressivo. E la struttura delta, la macchina del fango, le campagne di propaganda, i capelli che crescono nelle fotografie, i trucchi di corte del ciambellano Signorini, le promesse da piazzista nei Porta a Porta di Vespa… sono il déjà vu della ciarlataneria, cioè il ciarlatano di se stesso.
Confessiamolo: appena Berlusconi dice che «lo spread è un imbroglio» oppure quando leggiamo il déjà lu, il già letto di Marcello Dell´Utri che si propone come unico ermeneuta accreditato del Cavaliere, noi italiani, compresi i tanti ex elettori del Pdl, ci sentiamo scaraventati in fenomeni paranormali, come in un vortice di metempsicosi, una sovrapposizione del passato sul presente che è l´allergia al futuro dell´Italia presa in ostaggio da un ossesso e dalla sua banda di sopravvissuti.
L´estetica della casa, le maglie nere a giro collo sotto il doppiopetto sempre più largo, le escort e l´ennesima nuova Minetti, la signorina Pascale presentata come fidanzatissima, che alla di nuovo spiritata Santanché pare «una cosa bellissima», il coordinamento di Verdini, la interruptio dei processi, il libro ripaga del ragionieri Spinelli, il conflitto di interessi, la reiterazione dello stalliere fantasma e l´aggiornamento dei soliti mostri da Brunetta a Samorì, da Lavitola a Briatore…: così il déjà vu diventa allucinazione estenuante a cui nessuno può sfuggire.
Ma se davvero Berlusconi provocherà il déjà vu in tutti, non ci saranno buchi di campagna dove nascondersi, dove sottrarsi al contagio di questa malattia. Lui dice «io sono stato uno dei capi di governo più autorevoli» e la frase da megalomane manicomiale risuona come un´eco diabolica perché il déjà vu, sosteneva già Sant´Agostino che di Tempo se ne intendeva, è un´affezione prodotta per influsso degli spiriti maligni, “il tempo a piramide” secondo il bel libro che il filosofo italiano Remo Bodei ha dedicato proprio al déjà vu.
Come possiamo dunque salvarci da questa nuova trappola di Berlusconi che prima cercava di stupire e ora prova a instupidire? Ecco: per non lasciarci trasportare dal fiume di già visto, già vissuto, già detto e già fatto dobbiamo a tutti i costi abbandonare la surrealtà e ributtarci nella realtà. Concentriamoci subito sui veri protagonisti della prossima campagna elettorale, da Bersani a Monti, da Grillo al grande partito dell´astensione. Berlusconi era già ai margini ed è ancora ai margini. Vuole spaventarci con il déjà vu come spaventano la telecinesi, i venti gelidi, i tavolini che ballano, l´apparizione degli spettri. È questo il dinosauro che ha tirato fuori dal cilindro: il déjà vu.
La Repubblica 12.12.12

Beni culturali: Ghizzoni e Orfini (PD), provvedimento sul restauro in legge di stabilità

Necessario colmare vuoto normativo in settore strategico per l’Italia. “Il governo e i relatori colmino il vuoto legislativo e assumano il lavoro svolto in Parlamento all’interno della Legge di Stabilità, per dare finalmente risposta ai professionisti di un settore strategico per il nostro Paese, quale è il restauro dei Beni Culturali. – lo dichiarano Manuela Ghizzoni, presidente della Commissione Cultura, Scienza e Istruzione della Camera dei Deputati, e Matteo Orfini, responsabile Cultura del Partito Democratico – Alla Camera non ci sono i tempi tecnici per l’approvazione del disegno di legge per il conseguimento delle qualifiche professionali di restauratore di beni culturali, licenziato in prima lettura dal Senato, ma – spiega Ghizzoni – non possiamo, a causa delle scelte scellerate del PdL, lasciare cadere un provvedimento di cui hanno bisogno i lavoratori, per vedere riconosciuti i propri diritti, e lo Stato, per avere garanzie di qualità. Regolamentare le figure professionali che operano nel settore del restauro e della conservazione dei beni culturali è un passo necessario – concludono Ghizzoni e Orfini – per riconoscere la professionalità e la dignità del lavoro di più di 20 mila esperti che operano per il nostro Patrimonio Culturale.”

“Tre giorni, tre omicidi l’infinita strage delle donne”, di Michela Marzano

Aancora tre vittime. Che si aggiungono, nel giro di pochi giorni, alle tantissime donne che continuano a morire nonostante non si smetta più di denunciare in tutti i modi questa violenza inaudita e senza senso. Che cosa sta succedendo? Perché non si riesce a fermare il femminicidio? Che cosa non riusciamo
ancora a capire?Il problema, di fronte a questo tipo di tragedie, è che le ragioni e le spiegazioni non bastano mai. Perché non ha senso accoltellare una donna solo perché ci sta lasciando. Non ha senso ucciderla solo perché non la si sopporta più o perché non si riesce a controllarsi. Non ha senso. Almeno se si parte dal presupposto che anche le donne, come gli uomini, sono degli esseri umani. E che, in quanto tali, non possono e non devono essere trattate come dei semplici oggetti. Solo un oggetto può essere distrutto per un capriccio o per rabbia. Solo di fronte ad un oggetto ci si può lasciare andare alle pulsioni distruttive senza remore e senza rimorsi. Ma forse il dramma è proprio qui: alcuni uomini trattano le donne come semplici “cose”. Se ne invaghiscono. Fanno di tutto per averle. Le usano. E quando qualcosa va storto, se ne sbarazzano. Quando le donne non ubbidiscono, non sopportano il modo in cui vengono trattate oppure dicono semplicemente di volersene andare, allora questi uomini le buttano via e le distruggono. Come farebbe un bambino con un vecchio giocattolo che non funziona più.
Quando Primo Levi racconta l’orrore vissuto durante la Shoah, si chiede se colui “che non conosce pace” e “che muore per un sì o per un no” possa ancora essere considerato un uomo. Descrive con lucidità e coraggio quello che lui e gli altri prigionieri hanno subito nel momento in cui, arrivati ad Auschwitz, vengono definitivamente reificati. Non sono più degli esseri umani, sono dei semplici
stück, dei “pezzi”. Ecco perché i colpi che ricevono sono inferti con indifferenza. Ecco perché le SS non provano più alcuna compassione e si accaniscono contro di loro “senza alcuna ragione”. Nei campi di concentramento – come gli risponde una SS quando Levi si permette di chiedergli il “perché” di tanto odio – non c’è nessuna spiegazione. È così: terribile e semplice al tempo stesso. Perché quando l’umanità viene annientata, tutto diventa possibile. Al punto che le stesse vittime, pian piano, finiscono con l’interiorizzare il comportamento e il pensiero di essere “meno di un uomo”, come spiegherà poi anche lo psicanalista Bruno Bettelheim nel suo capolavoro La fortezza vuota.
Il male, anche quello radicale, è sempre banale, come direbbe Hannah Arendt. Non perché il massacro di un popolo o il femminicidio siano banali. Di banale, nella morte di essere umano, non c’è proprio niente. Il male è banale solo perché lo si compie banalmente. Soprattutto quando non si riconosce più l’umanità delle persone che si violentano, accoltellano e uccidono. È l’unica spiegazione che si può tentate di dare a questo moltiplicarsi di violenze contro le donne. È l’unico “perché” che si riesce a trovare di fronte a questi uomini che non tollerano di perdere il controllo sulle proprie mogli o sulle proprie fidanzate; che non accettano la possibilità di essere lasciati; che non capiscono come mai un “oggetto” possa sottrarsi al proprio volere. Uomini che riducono la donna ad una semplice “cosa” priva di dignità. Uomini che si illudono di conservare la propria virilità e il proprio potere distruggendo questi “oggetti” che considerano come una loro “proprietà”. Come se l’altra persona non contasse nulla. Non avesse alcun valore. Non fosse niente. Niente altro che una cosa da buttare via quando non serve più. Jacques Lacan direbbe che si tratta di “sadici che rigettano nell’Altro il dolore di esistere”. Forse ha ragione. Peccato che il “dolore di esistere” di questi aguzzini si trasformi poi, per troppe donne, nella tragedia di non esistere più.
La Republica 11.12.12

“Scuole diverse, organico unico”, di Antimo Di Geronimo

Organico unico negli istituti di istruzione superiore che comprendono diversi tipi di scuole. E maggiore spendibilità delle abilitazioni possedute dai docenti titolari. Che potranno evitare di andare in soprannumero se ci saranno ore a sufficienza anche in scuole di diverso tipo, purché comprese nello stesso istituto superiore. La novità è contenuta nella bozza di decreto sulle nuove classi di concorso predisposta dal ministero dell’istruzione ed inviata al Consiglio nazionale della pubblica istruzione per il prescritto parere. In particolare la fusione degli organici delle scuole di cui si compongono gli istituti superiori è prevista dal comma 6 dell’articolo 4. Il dispositivo prevede che «a decorrere dall’entrata in vigore del presente decreto, l’organico delle istituzioni scolastiche della scuola secondaria di secondo grado è gestito unitariamente anche in presenza di percorsi di istruzione liceale, tecnica e professionale».
La chiave di lettura è contenuta nella relazione illustrativa. Che individua la ratio della nuova disposizione nella necessità di una più razionale, efficace ed economica gestione degli organici.
Il tutto per il tramite del trattamento unitario dell’organico assegnato a ogni istituzione scolastica. Attualmente, infatti, l’organico risulta separato per percorsi, eredi dei vecchi ordini dell’istruzione liceale, tecnica e professionale. Che derivano dalla vecchia e ormai dismessa organizzazione dell’istruzione secondaria per ordini (istruzione liceale, istruzione artistica, istruzione tecnica, istruzione professionale) e tipologie (gli istituti magistrali, i licei classici). Oggi, invece, sempre secondo l’amministrazione scolastica, la diffusione degli istituti di istruzione superiore, che vedono la convivenza di diversi percorsi di istruzione liceale, tecnica, professionale presso un’unica istituzione scolastica, rendono la rigida divisione gestionale desueta e foriera di paradossi nella gestione degli esuberi, dei soprannumeri, degli spezzoni. In questi anni, infatti, docenti con incarico a tempo indeterminato sono stati costretti a trasferirsi nonostante la disponibilità di insegnamenti per la stessa classe di concorso presso la stessa istituzione scolastica. Si sono moltiplicati inutilmente i così detti spezzoni. Una gestione compatta dell’organico , invece, secondo il ministero, garantirebbe sensibili miglioramenti sotto l’aspetto qualitativo e organizzativo. E rispecchierebbe in prospettiva la configurazione delle classi di concorso proposte dalla bozza di decreto che supera le divisioni tra classi di concorso per i licei, per i tecnici e per i professionali definita dal vecchio decreto 39/1998. In buona sostanza, dunque, l’amministrazione avrebbe intenzione di sistematizzare definitivamente il sistema delle confluenze. Superando, quindi, gli steccati della specificità delle scuole e valorizzando la spendibilità delle discipline anche in tipi di scuole diverse da quelle dove tradizionalmente vengono insegnate.
Per fare questo, più che consentire maggiori chanches ai docenti in sede di mobilità, l’amministrazione avrebbe intenzione di dare più potere ai dirigenti scolastici nella collocazione dei docenti interni all’istituzione scolastica. Anche in scuole di tipo diverso da quelle dove tradizionalmente avrebbero dovuto trovare impiego. Ciò per consentire di limitare al minimo l’insorgenza di situazioni di soprannumerarietà e di esubero.
Quanto alla scelta dello strumento amministrativo del decreto ministeriale in luogo del decreto del Presidente della Repubblica, previsto dall’art.64 del decreto legge 112/2008, secondo il ministero sarebbe legittima. Perché le economie di spesa che il legislatore intendeva perseguire con dpr sono state già raggiunte. Peraltro per effetto di legge ordinaria. E cioè con l’art.14 commi 17-21 del decreto legge 95/2012. Pertanto l’amministrazione avrebbe pieno titolo ad agire con decreto, giovandosi della facoltà prevista dall’articolo 405 del decreto legislativo 297/94.
da ItaliaOggi 11.12.12

“Ultimo scatto del governo Monti”, di Alessandra Ricciardi

Governo Monti, ultimo atto. Il precipitare della crisi politica rischia di lasciare sul campo alcuni provvedimenti messi a punto dal ministro dell’istruzione, Francesco Profumo. Tra questi, il nuovo regolamento sul reclutamento a cui dedichiamo un servizio nelle pagine a seguire. E così l’ultimo atto potrebbe essere la chiusura all’Aran dell’intesa per il recupero degli scatti di anzianità. Domani un nuovo vertice. Si tratta di aumenti automatici legati all’anzianità di servizio, che valgono dai 289 euro in più l’anno del primo scatto del personale ausiliario, tecnico e amministrativo fino ai 1600 euro dell’ultimo scatto, dopo 35 anni di servizio, di un docente delle scuole superiori. Bloccati dall’allora ministro dell’economia, Giulio Tremonti, poi da questi sbloccati, sono stati pagati per il 2010. Per il 2011, l’Economia aveva rilevato l’incapienza dei fondi, pari a una quota dei risparmi di spesa inferti con il decreto legge 112/2008, ovvero la cura dimagrante che ha tagliato alla scuola 8 miliardi e più di 100 mila posti. Dopo un lungo tira e molla tra i ministeri dell’economia, dell’istruzione e della funzione pubblica, e uno sciopero (poi confermato solo dalla Flc-Cgil), il governo ha deciso di delegare, tramite direttiva, Aran e sindacati a reperire i fondi che mancano. Una situazione che si è sbloccata solo dopo che il ministro dell’economia, Vittorio Grilli, ha messo da parte la sua contrarietà al meccanismo degli automatismi, che la Commissione europea aveva già avuto modo di bacchettare. I fondi mancanti ammontano a circa 300 milioni di euro su 384. Le risorse vanno scovate nel Mof, recita la direttiva, ovvero il fondo per il miglioramento dell’offerta formativa che ammonta a circa 1,3 miliardi di euro. Con alcuni paletti, recita la direttiva, come i finanziamenti per i corsi di recupero, che non vanno intaccati, e i trattamenti accessori ritenuti incomprimibili. Il ministero dell’economia, in una nota a margine inviata all’Aran, ha poi precisato che per le attività aggiuntive le scuole dovranno stare attente a non formulare, dopo i tagli, richieste in eccesso, perché non saranno evase. Come sia, domani dovrebbe essere la giornata definitiva per la chiusura dell’accordo, sempre che gli uffici tecnici dell’Aran diano il via libera. E la produttività? Già, perché il ministro dell’economia Grilli a Palazzo Chigi, in sede di accordo politico, aveva sottolineato ai sindacati la necessità di definire un sistema di maggiore produttività. Alla fine però si è deciso che sarà compito della prossima contrattazione nazionale, ha precisato Profumo, decidere come realizzare un reale confronto su «un nuovo modello di scuola e di docente». Sugli scatti si sta consumando anche l’ultimo scontro tra i sindacati, con la Flc-Cgil di Mimmo Pantaleo che attacca le altre sigle per «accordi al ribasso», e Cisl scuola, Uil scuola, Snals-Confsal e Gilda, guidate rispettivamente da Francesco Scrima, Massimo Di Menna, Marco Nigi e Rino Di Meglio, che invece ribadiscono che i tagli al Mof non intaccheranno il buon funzionamento della scuola e che «l’intesa tutela in concreto gli interessi di tutti i lavoratori». Lo scatto 2011 interessa circa 200 mila lavoratori. L’anno pagato però consente a tutti di maturare il periodo necessario a scattare in futuro. Fermo restando che bisognerà vedere che progressioni di carriera ci saranno con il prossimo rinnovo contrattuale. Un rinnovo che non è affatto imminente
da ItaliaOggi 11.12.12