L´Europa, cui ci siamo abituati a guardare come al Principe che ha il comando sulle nostre esistenze, sta manifestando preoccupazione, da giorni, per il ritorno di Berlusconi sulla scena italiana. È tutta stupita, come quando un´incattivita folata di vento ci sgomenta.
I giornali europei titolano sul ritorno della mummia, sullo spirito maligno che di nuovo irrompe. Sono desolate anche le autorità comunitarie: «Berlusconi è il contrario della stabilità», deplora Martin Schulz, presidente del Parlamento europeo.
Tanto stupore stupisce. Primo perché non è così vero che l´Unione comandi, e il suo Principe non si sa bene chi sia. Secondo perché i lamenti hanno qualcosa di ipocrita: se il fenomeno Berlusconi ha potuto nascere, e durare, è perché l´Europa della moneta unica lo ha covato, protetto. Una moneta priva di statualità comune, di politica, di fiato democratico, finisce col dare questi risultati. La sola cosa che non vien detta è quella che vorremmo udire, assieme ai compianti: la responsabilità che i vertici dell´Unione (Commissione, Consiglio dei ministri, Parlamento europeo) hanno per quello che succede in Italia, e in Grecia, in Ungheria, in Spagna.
Se in Italia può candidarsi per la sesta volta un boss televisivo che ha rovinato non poco la democrazia; se in Ungheria domina un Premier – Viktor Orbán – che sprezza la stampa libera, i diritti delle minoranze, l´Europa; se in Grecia i neonazisti di Alba Dorata hanno toni euforici in Parlamento e alleati cruciali nell´integralismo cristiano-ortodosso e perfino nella polizia, vuol dire che c´è del marcio nelle singole democrazie, ma anche nell´acefalo regno dell´Unione. Che anche lì, dove si confezionano le ricette contro la crisi, il tempo è uscito fuori dai cardini, senza che nessuno s´adoperi a rimetterlo in sesto. Gli anni di recessione che stiamo traversando, e il rifiuto di vincerla reinventando democrazia e politica nella casa europea, spiegano come mai Berlusconi ci riprovi, e quel che lo motiva: non l´ambizione di tornare a governare, e neppure il calcolo egocentrico di chi si fa adorare da coorti di gregari che con lui pensano di ghermire posti, privilegi, soldi. Ma la decisione – fredda, tutt´altro che folle – di favorire in ogni modo, per l´interesse suo e degli accoliti, l´ingovernabilità dell´Italia. Chi parla di follia non vede il metodo, racchiuso nelle pieghe delle sue mosse. E non vede l´Europa, che consente il caos proprio quando pretende arginarlo.
Cosa serve a Berlusconi? Un mucchietto di voti decisivi, perché il partito vincente non possa durare e agire, senza di lui, poggiando su maggioranze certe alla Camera come al Senato, dove peserà il voto di un Nord (Lombardia in testa) che non da oggi ha disappreso il senso dello Stato. Così fu nell´ultimo governo Prodi, che aveva il governo ma non il potere: quello annidato nell´amministrazione e quello della comunicazione, restato nelle mani di Berlusconi. La guerra odierna non sarà diversa da quella di allora: guerra delle sue televisioni private, e di una Rai in buona parte assoggettata. Guerra contro l´autonomia dei magistrati, mal digerita anche a sinistra. Guerra di frasi fatte contro l´Europa (Che c´importa dello spread?). Guerra del Nord contro il Sud, se risuscita l´asse con la Lega. L´arte del governare gli manca ma non quella del bailamme, su cui costruire un bellicoso potere personale d´interdizione. La democrazia non funziona, senza magistrati e giornali indipendenti, e proprio questo lui vuole: che non funzioni. Se non teme una candidatura Monti, è perché non è detto che essa faciliti la governabilità.
Ma ecco, anche in questo campo l´Europa ha fallito, non meno degli Stati. La libera stampa è malmessa – in Italia, Ungheria, Grecia, dove vai in galera se pubblichi la lista degli evasori fiscali. Ma nessun dignitario dell´Unione, nessun leader democratico ha rammentato in questi anni che il monopolio esercitato da Berlusconi sull´informazione televisiva viola in maniera palese la Carta dei diritti sottoscritta nel 2007. È come se la Carta neanche esistesse, quando importano solo i conti in ordine.
Nessuno ricorda che la Carta non è un proclama: da quando vige il Trattato di Lisbona, nel 2009, i suoi articoli sono pienamente vincolanti, per le istituzioni comuni e gli Stati. Nel libro che ha scritto con l´eurodeputata Sylvie Goulard (La democrazia in Europa), Monti neppure menziona la Carta. Forse non ha orecchie per intendere quel che c´è di realistico (e per nulla comico), nell´ultimo monito di Grillo: «Attenzione alla rabbia degli italiani!». Forse non presentiva, mentre redigeva il libro, il ritorno di Berlusconi e il suo intonso imperio televisivo. Eppure parla chiaro, l´articolo 11 della Carta: «Ogni individuo ha diritto alla libertà di espressione. Tale diritto include la libertà di opinione e la libertà di ricevere o di comunicare informazioni o idee senza che vi possa essere ingerenza da parte delle autorità pubbliche». Niente è stato fatto, in Europa e negli Stati, perché tale legge vivesse, e perché la stabilità evocata da Schulz concernesse lo Stato di diritto accanto ai conti pubblici.
Il silenzio sulla libera stampa non è l´unico peccato di omissione delle autorità europee, nella crisi. Probabilmente era improrogabile, ridurre i debiti pubblici negli Stati del Sud. Ma l´azione disciplinatrice è stata fallimentare da tanti, troppi punti di vista. Non solo perché alimenta recessioni (due, in cinque anni) che aumentano i debiti anziché diminuirli. Ma perché non ha intuito, nella stratificazione dei deficit pubblici, una crisi politica della costruzione europea (una crisi sistemica). Perché l´occhio fissa lo spread, dimentico del nesso fatale tra disoccupazione, miseria, democrazia. Perché senza inquietudine accetta che si riproduca, nell´Unione, un distacco del Nord Europa dal Sud che tristemente echeggia le secessioni della Lega.
L´antieuropeismo che Lega e Grillo hanno captato, e che Berlusconi vuol monopolizzare, è una malattia mortale (una disperazione) che affligge in primis l´Europa, e in subordine le nazioni. È il frutto della sua letale indolenza, della sua mente striminzita, della cocciuta sua tendenza a rinviare la svolta che urge: l´unità politica, la comune gestione dei debiti, la consapevolezza – infine – che il rigore nazionale immiserirà le democrazie fino a sfinirle, se l´Unione non mobiliterà in proprio una crescita che sgravi i bilanci degli Stati.
L´ultimo Consiglio europeo ha toccato uno dei punti più bassi: nessun governo ha respinto la proposta di Van Rompuy, che presiede il Consiglio: la riduzione di 13 miliardi di euro delle comuni risorse (10% in meno) di qui al 2020. L´avviso non poteva essere più chiaro: l´Unione non farà nulla per la crescita, anche se un giorno mutualizzerà parte dei debiti. Di un suo potere impositivo (tassa sulle transazioni finanziarie, carbon tax: ambedue da versare all´Europa, non agli Stati) si è taciuto. Anche se alcune aperture esistono: da qualche settimana si parla di un bilancio specifico per l´euro-zona, quindi di mezzi accresciuti per una solidarietà maggiore fra Stati della moneta unica. Ma la data è incerta, né sappiamo quale Parlamento sovranazionale controllerà il bilancio parallelo.
Non sorprende che l´anti-Europa diventi spirito del tempo, nell´Unione. Che Berlusconi coltivi l´idea di accentuare il caos: condizionando chi governerà, destabilizzando, lucrando su un antieuropeismo popolare oltre che populista. Dilatando risentimenti che reclameranno poi un uomo forte. Un uomo che, come Orbán o i futuri imitatori di Berlusconi, scardinerà le costituzioni ma promettendo in cambio pane, come il Grande Inquisitore di Dostoevskij. È grave che il governo Monti non abbia varato fin dall´inizio un decreto sull´incandidabilità di condannati e corrotti. Che non abbia liberalizzato, dunque liberato, le televisioni. Che abbia trascurato, come la sinistra, la questione del conflitto d´interessi. Magari credeva, come l´Europa prima del 1914, che bastassero buone dottrine economiche, e il prestigio personale di cui godeva nell´economia-mondo, per metter fine alla rabbia dei popoli.
12.12.12
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“Prigionieri del déjà vu”, di FRANCESCO MERLO
Berlusconi è il carceriere dell´Italia perché la imprigiona dentro il déjà vu. Quando per esempio, al telefono del suo déjà téléphoné Belpietro, parla contro l´Europa, contro la Merkel e contro i mercati non c´è italiano che non sappia cosa sta per dire perché Berlusconi lo aveva già detto e tutti lo avevamo già sentito. Anche i suoi tic ormai lividi – «ma guardi», «mi consenta», «ma smettiamola» – sono per ciascuno di noi un déjà entendu, un già ascoltato, che è uno stato confusionale del Paese, una sorta di ekstasis, una fuoriuscita dal tempo reale. È roba da fare ammattire perché il déjà vécu, il già vissuto, è sostenibile solo quando è un lampo di pochi secondi. Qui dura da venti anni e non è mai finita.
E anche le reazioni della Merkel prudenti ma dure, l´angoscia del Partito Popolare europeo, le paure del presidente Martin Schulz, insomma il folclore italiano che di nuovo diventa malessere internazionale è la nostra trance sonnambolica, un deliquio che abbassa i poteri critici perché la dannazione del déjà vu è ormai la via italiana alla crisi internazionale. E i terribili titoli dei giornali più autorevoli del mondo sono il déjà lu, il già letto. Gli articoli scritti sull´Italia sono il déjà écrit. In tutte le lingue del mondo la coazione a ripetere è un´epidemia planetaria di déjà vu.
E anche noi, anche io mi sorprendo a riproporre le parole che avevo già usato e a ritrovarle vuote, sospese nella surrealtà del déjà moi-même, il già me stesso, che è la malattia di chi non diventa grande: così Berlusconi ci nanizza. E i comici, che furono forse i soli a far fortuna grazie a Berlusconi, sputano oggi le bellissime antiche battute come malori dell´anima, perché senza lo slancio vitale non c´è riso, diceva Bergson. E il déjà ri, il già riso, è forse la peggiore tra le patologie del déjà vu: è un ristagno, un impaludamento.
Il déjà vu, che fa diventare seri persino i comici, toglie il respiro e la dignità anche agli intellettuali organici del berlusconismo e ai suoi astuti e abilissimi frondisti perché la ri-fronda è un´autosconfessione, prevedibile come l´obbedienza. E il déjà vu smaschera i collaterali che si fingevano equidistanti e disarma gli organ house perché i cani da guardia che rilatrano lo stesso bau diventano cani da macina che girano attorno a se stessi: il déjà aboyé, il già abbaiato, è un suono sordo e inespressivo. E la struttura delta, la macchina del fango, le campagne di propaganda, i capelli che crescono nelle fotografie, i trucchi di corte del ciambellano Signorini, le promesse da piazzista nei Porta a Porta di Vespa… sono il déjà vu della ciarlataneria, cioè il ciarlatano di se stesso.
Confessiamolo: appena Berlusconi dice che «lo spread è un imbroglio» oppure quando leggiamo il déjà lu, il già letto di Marcello Dell´Utri che si propone come unico ermeneuta accreditato del Cavaliere, noi italiani, compresi i tanti ex elettori del Pdl, ci sentiamo scaraventati in fenomeni paranormali, come in un vortice di metempsicosi, una sovrapposizione del passato sul presente che è l´allergia al futuro dell´Italia presa in ostaggio da un ossesso e dalla sua banda di sopravvissuti.
L´estetica della casa, le maglie nere a giro collo sotto il doppiopetto sempre più largo, le escort e l´ennesima nuova Minetti, la signorina Pascale presentata come fidanzatissima, che alla di nuovo spiritata Santanché pare «una cosa bellissima», il coordinamento di Verdini, la interruptio dei processi, il libro ripaga del ragionieri Spinelli, il conflitto di interessi, la reiterazione dello stalliere fantasma e l´aggiornamento dei soliti mostri da Brunetta a Samorì, da Lavitola a Briatore…: così il déjà vu diventa allucinazione estenuante a cui nessuno può sfuggire.
Ma se davvero Berlusconi provocherà il déjà vu in tutti, non ci saranno buchi di campagna dove nascondersi, dove sottrarsi al contagio di questa malattia. Lui dice «io sono stato uno dei capi di governo più autorevoli» e la frase da megalomane manicomiale risuona come un´eco diabolica perché il déjà vu, sosteneva già Sant´Agostino che di Tempo se ne intendeva, è un´affezione prodotta per influsso degli spiriti maligni, “il tempo a piramide” secondo il bel libro che il filosofo italiano Remo Bodei ha dedicato proprio al déjà vu.
Come possiamo dunque salvarci da questa nuova trappola di Berlusconi che prima cercava di stupire e ora prova a instupidire? Ecco: per non lasciarci trasportare dal fiume di già visto, già vissuto, già detto e già fatto dobbiamo a tutti i costi abbandonare la surrealtà e ributtarci nella realtà. Concentriamoci subito sui veri protagonisti della prossima campagna elettorale, da Bersani a Monti, da Grillo al grande partito dell´astensione. Berlusconi era già ai margini ed è ancora ai margini. Vuole spaventarci con il déjà vu come spaventano la telecinesi, i venti gelidi, i tavolini che ballano, l´apparizione degli spettri. È questo il dinosauro che ha tirato fuori dal cilindro: il déjà vu.
La Repubblica 12.12.12
Pubblicato il 12 Dicembre 2012