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"Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo", di Mario Tozzi

Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile.

Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane.

E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve.

E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore.

Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta.

La Stampa 15.10.12

"Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo", di Mario Tozzi

Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile.
Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane.
E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve.
E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore.
Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta.
La Stampa 15.10.12

"Il Joker che ride sulle sue rovine", di Curzio Maltese

L’inutile nuova sede della regione Lombardia, un pugno all’occhio e l’altro allo stomaco del contribuente, costruita come recita la lussuosa brochure “per favorire l’incontro coi cittadini”, è piantonata anche oggi dalla polizia per evitare incontri troppo ravvicinati. Si manifesta un giorno sì e uno no, al grido
“Formigoni dimettiti”. DENTRO rimane asserragliata una classe politica che perfino i boss della ’ndrangheta schifano sul piano etico. La brava gente che va a lavorare per le strade dell’Isola, già bellissimo quartiere sventrato da colate di cemento, leva lo sguardo al “grattacielo dell’eccellenza”, com’è stato battezzato nel delirio generale, e lancia crudeli auspici. L’altro giorno il corteo degli studenti ha provato ad avvicinarsi e sono partite le manganellate. Per simpatia i commercianti di corso Como hanno poi offerto da bere ai ragazzi.
Al trentacinquesimo piano, nel punto più alto della città, molto sopra la Madonnina, c’è un uomo solo che guarda i resti di una capitale morale e ride. Roberto Formigoni ride. Gli indagano il quattordicesimo consigliere e il settimo assessore, gli arrestano collaboratori e amici, lo scoprono a mentire su rapporti e vacanze, gli pende sulla testa un rinvio a giudizio per corruzione. E lui ride. Ride in televisione e in conferenza stampa, mentre insulta un altro giornalista di Repubblica, rideva anche prima di essere aggredito a Lecco.
Il ghigno di Formigoni è ormai un tratto grafico, un logo, un simbolo. Sembra il Joker dei fumetti. Negli ultimi tempi veste anche con gli stessi colori pastello, dalla giacca arancione boom in giù. È il simbolo di una povera Milano ridotta a una Gotham nostrana, percorsa dalla peste della corruzione, dove il Joker siede al centro del potere e non si vede un Batman all’orizzonte. Se si esclude qualche macchietta, come quel simpatico pirla, nel senso di girovago, del figlio della Moratti, che si era fatto la bat-casa abusiva.
Formi-joker ride perché è ancora convinto di cavarsela, nonostante tutto. Per vent’anni ha governato un sistema politico affaristico senza paragoni nella storia d’Italia, sostenuto da un consenso quasi plebiscitario e da un ferreo controllo del territorio. Un sistema dal quale perfino la ’ndrangheta ha ancora molto da imparare. Il Celeste non può credere che tutto stia crollando così. Per mano di chi, poi? La Lega del dopo Bossi è debole e divisa fra le colombe di Bobo Maroni e i falchi di Matteo Salvini, Berlusconi può giusto dare ordini ad Alfano, la sinistra in Lombardia non esiste da alcuni decenni e le occorrerà tempo per reinventarsi come alternativa. Formigoni si sente ancora più forte di loro, risponde con perentori ultimatum ai timidi penultimatum di Maroni, studia contromosse e strategie, minaccia elezioni subito per ottenere il contrario, una proroga di mesi, forse un anno. A Maroni e Alfano offre in cambio
una nuova legge elettorale proporzionale, oggi di gran moda, che salvi la destra dalla disfatta e con la gentile collaborazione del Movimento 5 Stelle consegni una regione ingovernabile a un qualche simulacro di governo tecnico. Una specie di parodia lombarda del governo Monti, con qualche professore pescato da Bocconi e Cattolica. Meglio se fra gli amici di Cl, che sono tanti e ovunque.
Riuscirà il nostro antieroe nell’ennesima impresa? Mai dire mai, nella povera Gotham meneghina. Ma l’impressione è che il Formigoni ridens sia fuori dalla realtà ormai da tempo. Chi è troppo sicuro non è più abbastanza vigile e sono mesi che il Celeste sottovaluta la portata degli eventi, il battere alle porte di una rivoluzione più profonda di quella del ‘92, abortita nel berlusconismo. Formigoni ha sottovalutato le consetale
dei tre traumi che, uno in fila all’altro, hanno sconvolto l’anno scorso la mappa dei poteri milanesi e lombardi, cristallizzati per un ventennio. Nell’ordine, la vittoria di Pisapia, il crac del San Raffaele e gli sviluppi dell’inchiesta del pool di Milano sulla ’ndrangheta.
La vittoria di Giuliano Pisapia ha spazzato in un colpo solo il campo dal berlusconismo, nella sua capitale, e dall’opposizione di sua maestà, incarnata dal Pd di Penati e del «sistema Sesto». Con il nuovo sindaco il governatore pensava di trovare comunque
un accordo sul tavolo dell’Expo, ma non l’ha mai trovato. Al
contrario si è visto bloccare dall’amministratore delegato Giuseppe Sala ogni appalto al minimo sospetto. Un mese dopo la rivoluzione arancione di Pisapia, l’esplosione della colossale bolla del San Raffaele, un miliardo e mezzo di buco in un ospedale solo, ha demolito il mito fondante della fortuna politica del governatore, l’eccellenza della sanità lombarda. Lo scandalo, il crac, il suicidio di Mario Cal e le inchieste hanno portato alla luce il ruolo chiave del munifico finanziatore di svaghi presidenziali, quel Pierluigi Daccò che il governatore fingeva al principio di non conoscere. Il terzo errore capiguenze
è stato di sottostimare la capacità di «resistere, resistere, resistere» del palazzo di giustizia di Milano.
In fondo a un ventennio di sistematica demolizione politica e mediatica, di guerra quotidiana alle “toghe rosse” da parte dell’apparato berlusconiano con la complicità di un bel pezzo d’opposizione, di pestaggi mirati come quello a Ilda Boccassini, di pensionamenti e promozioni e rimozioni di tutti i magistrati del pool di Mani Pulite, ebbene il “sistema lombardo” pensava di essersi tolto dalle scatole il principale ostacolo al felice trionfo della corruzione. E invece per uno dei rari gloriosi misteri italiani, il palazzo di giustizia milanese continua a produrre grandi e clamorose inchieste, dalla sanità all’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Quella sulla ’ndrangheta è avviata verso risultati devastanti. Fra un mese o due, ci assicura un magistrato, i voti comprati da Zambetti si ridurranno a un episodio minore, quasi pittoresco.
In questo quadro di disfacimento dell’impero, le ghignanti tattiche del Celeste appaiono espedienti disperati.
Un modo per non prendere atto che l’hanno mollato tutti, avversari e alleati, compagni di partito e compari di vacanze, perfino la Curia, dalla quale il nuovo arcivescovo Scola continua a lanciare appelli alla moralità vagamente allusivi. Perfino gli amici di Comunione e Liberazione che sono alla ricerca di nuovi padrini, sempre svelti quelli. Se fosse un’altra storia e un’altra Milano, Formigoni troverebbe magari il coraggio di chiudere con un gesto comunque all’altezza di una grandiosa parabola. Dimettersi e cominciare a raccontare che cosa è stato davvero il sistema. Una delle canzoni più belle di Bob Dylan è dedicata alla figura di un Joker, dice: «La libertà è dietro l’angolo, ma che cosa può venirtene di buono se la verità è così lontana?».

La Repubblica 15.10.12

"Il Joker che ride sulle sue rovine", di Curzio Maltese

L’inutile nuova sede della regione Lombardia, un pugno all’occhio e l’altro allo stomaco del contribuente, costruita come recita la lussuosa brochure “per favorire l’incontro coi cittadini”, è piantonata anche oggi dalla polizia per evitare incontri troppo ravvicinati. Si manifesta un giorno sì e uno no, al grido
“Formigoni dimettiti”. DENTRO rimane asserragliata una classe politica che perfino i boss della ’ndrangheta schifano sul piano etico. La brava gente che va a lavorare per le strade dell’Isola, già bellissimo quartiere sventrato da colate di cemento, leva lo sguardo al “grattacielo dell’eccellenza”, com’è stato battezzato nel delirio generale, e lancia crudeli auspici. L’altro giorno il corteo degli studenti ha provato ad avvicinarsi e sono partite le manganellate. Per simpatia i commercianti di corso Como hanno poi offerto da bere ai ragazzi.
Al trentacinquesimo piano, nel punto più alto della città, molto sopra la Madonnina, c’è un uomo solo che guarda i resti di una capitale morale e ride. Roberto Formigoni ride. Gli indagano il quattordicesimo consigliere e il settimo assessore, gli arrestano collaboratori e amici, lo scoprono a mentire su rapporti e vacanze, gli pende sulla testa un rinvio a giudizio per corruzione. E lui ride. Ride in televisione e in conferenza stampa, mentre insulta un altro giornalista di Repubblica, rideva anche prima di essere aggredito a Lecco.
Il ghigno di Formigoni è ormai un tratto grafico, un logo, un simbolo. Sembra il Joker dei fumetti. Negli ultimi tempi veste anche con gli stessi colori pastello, dalla giacca arancione boom in giù. È il simbolo di una povera Milano ridotta a una Gotham nostrana, percorsa dalla peste della corruzione, dove il Joker siede al centro del potere e non si vede un Batman all’orizzonte. Se si esclude qualche macchietta, come quel simpatico pirla, nel senso di girovago, del figlio della Moratti, che si era fatto la bat-casa abusiva.
Formi-joker ride perché è ancora convinto di cavarsela, nonostante tutto. Per vent’anni ha governato un sistema politico affaristico senza paragoni nella storia d’Italia, sostenuto da un consenso quasi plebiscitario e da un ferreo controllo del territorio. Un sistema dal quale perfino la ’ndrangheta ha ancora molto da imparare. Il Celeste non può credere che tutto stia crollando così. Per mano di chi, poi? La Lega del dopo Bossi è debole e divisa fra le colombe di Bobo Maroni e i falchi di Matteo Salvini, Berlusconi può giusto dare ordini ad Alfano, la sinistra in Lombardia non esiste da alcuni decenni e le occorrerà tempo per reinventarsi come alternativa. Formigoni si sente ancora più forte di loro, risponde con perentori ultimatum ai timidi penultimatum di Maroni, studia contromosse e strategie, minaccia elezioni subito per ottenere il contrario, una proroga di mesi, forse un anno. A Maroni e Alfano offre in cambio
una nuova legge elettorale proporzionale, oggi di gran moda, che salvi la destra dalla disfatta e con la gentile collaborazione del Movimento 5 Stelle consegni una regione ingovernabile a un qualche simulacro di governo tecnico. Una specie di parodia lombarda del governo Monti, con qualche professore pescato da Bocconi e Cattolica. Meglio se fra gli amici di Cl, che sono tanti e ovunque.
Riuscirà il nostro antieroe nell’ennesima impresa? Mai dire mai, nella povera Gotham meneghina. Ma l’impressione è che il Formigoni ridens sia fuori dalla realtà ormai da tempo. Chi è troppo sicuro non è più abbastanza vigile e sono mesi che il Celeste sottovaluta la portata degli eventi, il battere alle porte di una rivoluzione più profonda di quella del ‘92, abortita nel berlusconismo. Formigoni ha sottovalutato le consetale
dei tre traumi che, uno in fila all’altro, hanno sconvolto l’anno scorso la mappa dei poteri milanesi e lombardi, cristallizzati per un ventennio. Nell’ordine, la vittoria di Pisapia, il crac del San Raffaele e gli sviluppi dell’inchiesta del pool di Milano sulla ’ndrangheta.
La vittoria di Giuliano Pisapia ha spazzato in un colpo solo il campo dal berlusconismo, nella sua capitale, e dall’opposizione di sua maestà, incarnata dal Pd di Penati e del «sistema Sesto». Con il nuovo sindaco il governatore pensava di trovare comunque
un accordo sul tavolo dell’Expo, ma non l’ha mai trovato. Al
contrario si è visto bloccare dall’amministratore delegato Giuseppe Sala ogni appalto al minimo sospetto. Un mese dopo la rivoluzione arancione di Pisapia, l’esplosione della colossale bolla del San Raffaele, un miliardo e mezzo di buco in un ospedale solo, ha demolito il mito fondante della fortuna politica del governatore, l’eccellenza della sanità lombarda. Lo scandalo, il crac, il suicidio di Mario Cal e le inchieste hanno portato alla luce il ruolo chiave del munifico finanziatore di svaghi presidenziali, quel Pierluigi Daccò che il governatore fingeva al principio di non conoscere. Il terzo errore capiguenze
è stato di sottostimare la capacità di «resistere, resistere, resistere» del palazzo di giustizia di Milano.
In fondo a un ventennio di sistematica demolizione politica e mediatica, di guerra quotidiana alle “toghe rosse” da parte dell’apparato berlusconiano con la complicità di un bel pezzo d’opposizione, di pestaggi mirati come quello a Ilda Boccassini, di pensionamenti e promozioni e rimozioni di tutti i magistrati del pool di Mani Pulite, ebbene il “sistema lombardo” pensava di essersi tolto dalle scatole il principale ostacolo al felice trionfo della corruzione. E invece per uno dei rari gloriosi misteri italiani, il palazzo di giustizia milanese continua a produrre grandi e clamorose inchieste, dalla sanità all’infiltrazione mafiosa nelle istituzioni. Quella sulla ’ndrangheta è avviata verso risultati devastanti. Fra un mese o due, ci assicura un magistrato, i voti comprati da Zambetti si ridurranno a un episodio minore, quasi pittoresco.
In questo quadro di disfacimento dell’impero, le ghignanti tattiche del Celeste appaiono espedienti disperati.
Un modo per non prendere atto che l’hanno mollato tutti, avversari e alleati, compagni di partito e compari di vacanze, perfino la Curia, dalla quale il nuovo arcivescovo Scola continua a lanciare appelli alla moralità vagamente allusivi. Perfino gli amici di Comunione e Liberazione che sono alla ricerca di nuovi padrini, sempre svelti quelli. Se fosse un’altra storia e un’altra Milano, Formigoni troverebbe magari il coraggio di chiudere con un gesto comunque all’altezza di una grandiosa parabola. Dimettersi e cominciare a raccontare che cosa è stato davvero il sistema. Una delle canzoni più belle di Bob Dylan è dedicata alla figura di un Joker, dice: «La libertà è dietro l’angolo, ma che cosa può venirtene di buono se la verità è così lontana?».
La Repubblica 15.10.12

Roma – Seminario: Diritto d'Asilo sul diritto all'educazione 0-6 anni

Camera dei Deputati- Palazzo Marini- Sala della Mercede Roma, via della Mercede, 55 (Per gli uomini è obbligatorio indossare la giacca)

Vogliamo confrontarci sul sistema educativo-scolastico 0-6 anni, sulla sua importanza, sulle sue potenzialità. Vogliamo farlo in un momento di crisi economica e di tagli ai bilanci degli Enti Locali che, mettendo a rischio la sostenibilità dei ‘servizi’, va a ledere ciò che noi da sempre definiamo ‘diritti’ delle bambine e dei bambini. In particolare dobbiamo affrontare l’emergenza scuola dell’infanzia. Poiché troppi bambini e bambine vedono negarsi quello che per legge è un diritto. Per questo ti invitiamo al seminario di studio dove parleremo di definizione dei livelli essenziali, di Titolo V, di patto di stabilità interno che sta soffocando i comuni. Vogliamo preparare una nuova strada per il nostro Paese, facendo diventare patrimonio comune le esperienze più evolute e affermando che i servizi educativi non semplicemente una voce di bilancio del welfare, ma una scommessa sul futuro dell’Italia.
Con
Giovanni Bachelet, Deputato Pd, Presidente Forum Pd Politiche dell’Istruzione Mariangela Bastico, Senatrice Pd
Lorenzo Campioni, Presidente Gruppo Nazionale Nidi e Infanzia
Maria Coscia, Capogruppo Pd VII Commissione Camera dei Deputati Manuela Ghizzoni, Presidente VII Commissione Camera dei Deputati
Andrea Giorgis, Costituzionalista
Claudia Giudici, Presidente Istituzione Scuole e Nidi d’infanzia – Comune di Reggio Emilia Francesca Puglisi, Responsabile Scuola della segreteria nazionale PD
Giancarlo Sacchi, Direttore del Forum Nazionale Politiche Istruzione PD
Anna Serafini, Senatrice Pd, Presidente Forum Pd Politiche per l’Infanzia
Stella Targetti, Vice Presidente Regione Toscana

"Un modo alternativo di difendere il principio", di Eugenio Mazzarella

Mi stupisce, e davvero non comprendo come Armando Massarenti (su «Domenica» del 30 settembre) possa ritenere la mozione da me firmata con i colleghi Gelmini e Binetti, che chiede al Ministro di intervenire sul problema delle mediane in termini tali da consentire un più sereno e sensato svolgersi delle prossime abilitazioni nazionali, cioè di non disperdere tra ricorsi e impasse di varia natura il pur problematico (come Massarenti stesso riconosce ad abundantiam nel suo intervento) lavoro del l’Anvur, un attacco al principio stesso del l’Agenzia, segno della difficoltà a recepire in Italia una cultura della valutazione. Niente di più lontano dalle intenzioni dei firmatari della mozione, peraltro appartenenti alla forze politiche che l’Anvur l’hanno istituita, non essendo la preoccupazione del merito nella ricerca e nell’università, mi creda sulla parola Massarenti, esclusiva dei pur autorevoli firmatari del Manifesto per il merito. La questione non è se valutare il merito. Questo va da sé. La questione è come valutarlo, perché se valuti male è di tutta evidenza che il merito diventa fortemente problematico da individuare.
Le polemiche che hanno accompagnato e accolto tutta la vicenda delle mediane, puntualmente descritte nell’intervento sempre su Il Sole di Alessandro Schiesaro, fotografano errori estremamente gravi in tutta la vicenda, sia sul piano tecnico che giuridico, ed è a questi che la mozione che Massarenti censura intende porre riparo. Degli errori ancora più gravi sul piano culturale, da cui molto discende di quanto è accaduto, non posso, a ragione dello spazio discorsivo e non per slogan che richiederebbero, dire. Ma invito Massarenti ad aprire un dibattito sul tema, disponibile ad iscrivermi fin d’adesso per il modesto contributo che potrò dare. Un solo errore culturale voglio segnalare, e mi spiace dirlo è nelle conclusioni di Massarenti stesso: dandosi un altro fallimento del “pubblico” con l’Anvur, sarebbe necessario un’Agenzia privata di valutazione. Considero questo approccio non la soluzione ai problemi del pubblico che ci sono e gravi, ma parte del problema: la resa davanti al compito di ridare efficienza al pubblico. Avverto che questa perdita di “senso del pubblico” è parte di quella perdita di senso dello Stato che affligge il nostro Paese. E quanto alle virtù a priori delle agenzie private invito a riflettere al contributo che le private agenzie finanziarie di rating internazionali, che parlano rigorosamente inglese, hanno dato alla crisi dell’economia reale e dei conti pubblici dei Paesi. Né credo sfugga a nessuno il rischio tradizionale nel nostro Paese del privato: di esserlo con soldi pubblici. Se in Italia sorgesse un’agenzia privata di valutazione della ricerca con risorse rigorosamente private, e che poi non viva di commesse statali, per la funzione pubblica che andrebbe a svolgere sua sponte, e che i propri giudizi e le proprie classifiche mettesse gratuitamente a disposizione del l’università e della ricerca, per aiutarle a far meglio, sarei il primo a felicitarmi di un contributo liberale dei privati al progresso del Paese.
***
Gentile On. Mazzarella, abbiamo volentieri ospitato in queste pagine anche posizioni assai critiche nei confronti dell’Anvur, che, nonostante i suoi difetti, mi pare abbia avuto proprio il merito di dare un minimo di ordine a quel calderone indecifrabile di correnti e discipline, spesso autodefinite di eccellenza, che sono le facoltà umanistiche. Credo che molti problemi siano derivati proprio dal fatto che si tratta di un’agenzia pubblica, ma ciò non implica una svalutazione generale di ciò che è pubblico. È solo che ogni istituzione, quando è tale, rischia di essere percorsa da poteri e tentativi di egemonia che possono creare danni assai seri. Veda ad esempio il caso della Rai. Per questo scrivevo che, nel caso di fallimento, si poteva pensare a un’agenzia privata. Ma “privato” non significa di «proprietà di qualcuno che ha degli interessi, soprattutto economici, nascosti, e che è disposto a tutto pur di far profitto», che è l’idea deformata di “privato” che circola in Italia. Significa che la qualità delle prestazioni che vengono fornite sono state scremate dal mercato, che rimane fino a prova contraria, nei sistemi liberaldemocratici, il sistema più efficiente per selezionare competenze, soprattutto se e quando il sistema pubblico è in una fase degenerativa a causa di processi clientelari, di corruzione, di conflitti di interesse. Continuo dunque a difendere l’idea di un’agenzia privata, insieme al principio della necessità di una valutazione dei saperi. Augurandomi però, nel contempo, che l’Anvur riesca nell’intento.
Ar.M.

"Un modo alternativo di difendere il principio", di Eugenio Mazzarella

Mi stupisce, e davvero non comprendo come Armando Massarenti (su «Domenica» del 30 settembre) possa ritenere la mozione da me firmata con i colleghi Gelmini e Binetti, che chiede al Ministro di intervenire sul problema delle mediane in termini tali da consentire un più sereno e sensato svolgersi delle prossime abilitazioni nazionali, cioè di non disperdere tra ricorsi e impasse di varia natura il pur problematico (come Massarenti stesso riconosce ad abundantiam nel suo intervento) lavoro del l’Anvur, un attacco al principio stesso del l’Agenzia, segno della difficoltà a recepire in Italia una cultura della valutazione. Niente di più lontano dalle intenzioni dei firmatari della mozione, peraltro appartenenti alla forze politiche che l’Anvur l’hanno istituita, non essendo la preoccupazione del merito nella ricerca e nell’università, mi creda sulla parola Massarenti, esclusiva dei pur autorevoli firmatari del Manifesto per il merito. La questione non è se valutare il merito. Questo va da sé. La questione è come valutarlo, perché se valuti male è di tutta evidenza che il merito diventa fortemente problematico da individuare.
Le polemiche che hanno accompagnato e accolto tutta la vicenda delle mediane, puntualmente descritte nell’intervento sempre su Il Sole di Alessandro Schiesaro, fotografano errori estremamente gravi in tutta la vicenda, sia sul piano tecnico che giuridico, ed è a questi che la mozione che Massarenti censura intende porre riparo. Degli errori ancora più gravi sul piano culturale, da cui molto discende di quanto è accaduto, non posso, a ragione dello spazio discorsivo e non per slogan che richiederebbero, dire. Ma invito Massarenti ad aprire un dibattito sul tema, disponibile ad iscrivermi fin d’adesso per il modesto contributo che potrò dare. Un solo errore culturale voglio segnalare, e mi spiace dirlo è nelle conclusioni di Massarenti stesso: dandosi un altro fallimento del “pubblico” con l’Anvur, sarebbe necessario un’Agenzia privata di valutazione. Considero questo approccio non la soluzione ai problemi del pubblico che ci sono e gravi, ma parte del problema: la resa davanti al compito di ridare efficienza al pubblico. Avverto che questa perdita di “senso del pubblico” è parte di quella perdita di senso dello Stato che affligge il nostro Paese. E quanto alle virtù a priori delle agenzie private invito a riflettere al contributo che le private agenzie finanziarie di rating internazionali, che parlano rigorosamente inglese, hanno dato alla crisi dell’economia reale e dei conti pubblici dei Paesi. Né credo sfugga a nessuno il rischio tradizionale nel nostro Paese del privato: di esserlo con soldi pubblici. Se in Italia sorgesse un’agenzia privata di valutazione della ricerca con risorse rigorosamente private, e che poi non viva di commesse statali, per la funzione pubblica che andrebbe a svolgere sua sponte, e che i propri giudizi e le proprie classifiche mettesse gratuitamente a disposizione del l’università e della ricerca, per aiutarle a far meglio, sarei il primo a felicitarmi di un contributo liberale dei privati al progresso del Paese.
***
Gentile On. Mazzarella, abbiamo volentieri ospitato in queste pagine anche posizioni assai critiche nei confronti dell’Anvur, che, nonostante i suoi difetti, mi pare abbia avuto proprio il merito di dare un minimo di ordine a quel calderone indecifrabile di correnti e discipline, spesso autodefinite di eccellenza, che sono le facoltà umanistiche. Credo che molti problemi siano derivati proprio dal fatto che si tratta di un’agenzia pubblica, ma ciò non implica una svalutazione generale di ciò che è pubblico. È solo che ogni istituzione, quando è tale, rischia di essere percorsa da poteri e tentativi di egemonia che possono creare danni assai seri. Veda ad esempio il caso della Rai. Per questo scrivevo che, nel caso di fallimento, si poteva pensare a un’agenzia privata. Ma “privato” non significa di «proprietà di qualcuno che ha degli interessi, soprattutto economici, nascosti, e che è disposto a tutto pur di far profitto», che è l’idea deformata di “privato” che circola in Italia. Significa che la qualità delle prestazioni che vengono fornite sono state scremate dal mercato, che rimane fino a prova contraria, nei sistemi liberaldemocratici, il sistema più efficiente per selezionare competenze, soprattutto se e quando il sistema pubblico è in una fase degenerativa a causa di processi clientelari, di corruzione, di conflitti di interesse. Continuo dunque a difendere l’idea di un’agenzia privata, insieme al principio della necessità di una valutazione dei saperi. Augurandomi però, nel contempo, che l’Anvur riesca nell’intento.
Ar.M.