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"Un segnale per tutti", di Carlo Galli

Non c’è la viltà all’origine del Gran Rifiuto di Veltroni. Certo, il Pd di oggi è diverso da quello che da lui è stato fondato cinque anni fa: la vocazione maggioritaria non è più all’ordine del giorno, e la contrapposizione fra Veltroni e D’Alema appartiene decisamente al passato – semmai, i due sono oggi dalla stessa parte, dalla parte dei notabili – . Certo, per Veltroni, stretto fra la solitaria battaglia di Bersani – che ne fa il dominus del partito, almeno agli occhi dell’opinione pubblica – e la sfida provocatoria di Renzi, lo spazio politico si era oggettivamente ristretto. Gli equilibri politici dentro il Pd stanno subendo modifiche che Veltroni ha forse anticipato. Ma ciò non vale per lui più di quanto valga per gli altri big del Pd; in ogni caso, non c’era nulla di irreparabile, nulla che con un po’ di spirito di adattamento non si sarebbe potuto aggiustare e superare, per garantirsi una più che decorosa permanenza al potere.
No. Probabilmente il gesto di Veltroni – reso pubblico lo stesso giorno in cui Bersani lancia la sua campagna elettorale, evento al quale l’annuncio veltroniano rischia di sovrapporsi – va letto in positivo; non come una rinuncia né come un colpo basso, ma come un atto politico, dotato di una valenza generale, che va al di là della vicenda personale. Un atto che non chiude col presente, ma che anzi interviene con perizia, e con spirito innovativo, su uno dei fronti polemici più esposti e più caldi: sulla contrapposizione fra vecchio e nuovo, a cui Renzi, il vero destinatario del messaggio, ha voluto dare una comoda e propagandistica declinazione generazionale, interpretandola come lo scontro fra vecchi e giovani. E trasformando così il rinnovamento, di cui l’Italia tutta (e non solo la politica) ha veramente bisogno, in rottamazione – un termine che ha in sé una carica di disprezzo e di violenza per nulla rassicurante.
Sia chiaro. Se si è giunti a ciò, se questa ipotesi semplicistica ha trovato tanto consenso, è perché dalla politica sono giunti, finora, segnali di sordità (e cecità) davanti a un’esigenza che è invece sotto gli occhi di tutti: il radicale cambio di passo del Paese. Che continua a sprofondare nella sua crisi sistemica con un misto di rassegnazione e di panico anche perché il ceto politico non sembra in grado, finora, di fornire indicazioni, modelli, esempi, di autentico cambiamento, di vera assunzione di responsabilità. Dopo Fiorito e Polverini – strappati alle loro poltrone a furore di popolo (e di magistratura) – è ora dalla Lombardia, da Formigoni, che giunge l’ennesimo segnale di resistenza a oltranza su posizioni indifendibili, su crinali esposti alle raffiche di
ogni critica, su poltrone che in ogni altro Paese occidentale sarebbero state, con vergogna, abbandonate da mesi. La richiesta di rottamazione – che è sbagliata perché pretende di esaurire la politica e la sua complessità in una sorta di meccanico passaggio di consegne generazionale – trova la sua origine proprio in questo tenace, impudico, patetico, arrogante, attaccamento al potere, anche in condizioni disperate. È la risposta sbagliata a una situazione esasperante.
Ecco: la rinuncia di Veltroni al Parlamento è un atto politico perché è un altro tipo di risposta, tanto ai tenaci occupatori di cariche pubbliche quanto alle demagogie dei rottamatori. I primi sono sfidati da un abbandono che è esemplare perché non forzato, perché non avviene sull’onda di scandali e di malversazioni; i secondi sono privati di un pretesto, e la loro rabbia si rivela quindi per quello che è: la copertura dell’arrivismo dei capi e del qualunquismo (o del semplicismo) dei seguaci. Il gesto di Veltroni non è un addio alla politica per ragioni soggettive: lo stesso interessato, citando Prodi e Amato, mostra di prefigurarsi un avvenire di intenso coinvolgimento nella politica, anche se non più negli spazi istituzionali. Ma non è un addio alla politica anche per ragioni oggettive: e non solo perché questa decisione avrà necessariamente riflessi sulle dinamiche interne del Pd ma soprattutto perché mostra che la politica, se vuole, sa rinnovarsi da sola, senza avere bisogno né della magistratura né delle urla di piazza; e che in tale rinnovamento si rafforza, perde l’aspetto dell’attaccamento al potere personale e diviene (o ridiventa) ciò che deve essere: la costante volontà di contribuire con l’azione e con l’esperienza all’interesse generale. È insomma, quel gesto, l’indicazione che la politica non è solo il “posto”, e che è bella, grande, importante proprio per questo. Perché coincide con la vita intera di una persona, con la sua voglia di agire responsabilmente in società, non con la sua permanenza su una poltrona – come invece pensano tanto i devoti del potere quanto i rottamatori – . Un messaggio che oggi è di un singolo, e che dovrebbe diventare di molti.

La Repubblica 15.10.12