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"Patto produttività, 72 ore per l'accordo", di Massimo Franchi

Il 18 ottobre si avvicina. La deadline di giovedì fissata da Mario Monti per trovare un’intesa imprese-sindacati sulla produttività (con cui il premier vorrebbe presentarsi al vertice Europeo) è sempre più vicina. Nel pomeriggio è previsto un nuovo incontro tra le parti nel quale, per la prima volta, dovrebbe essere presentato e discusso un testo preparato da Confindustria, la parte che più spinge per arrivare ad un accordo. Da qua a dire che entro giovedì quel testo sarà sottoscritto, ce ne passa. Non pochi sono i nodi, fin qui solo accennati. Molti e diversi sono i capitoli a cui i vari attori danno importanza. Se per le imprese i temi fondamentali sono flessibilità dell’orario e inquadramento, per i sindacati invece il capitolo più importante è quello di un possibile aumento dei salari netti e (in primis per la Cgil) quello della certificazione della rappresentanza. Molte sono anche le particolarità di una trattativa cominciata a palazzo Chigi l’11 settembre con l’invito del governo a tornarvi con un accordo tra le parti: la produttività è strettamente legata all’accordo sottoscritto da Confindustria e sindacati confederali il 28 giugno 2011 e in gran parte rimasto ancora lettera morta. L’altra stranezza riguarda l’incentivo preparato dal governo. Se per il ministro dello Sviluppo Corrado Passera «la produttività è uno spread che ci costa molto più di quello finanziario: il primo ci costa 5 miliardi, quello sulla produttività 70 miliardi di fatturato in meno», nella Legge di stabilità le cifre sono molto diverse, ma ugualmente ballerine: si parla di uno stanziamento per defiscalizzare gli accordi aziendali di produttività per 1,2 miliardi nel 2013 e di 400 milioni nel 2014, ma tutti concordano sul fatto che, in caso di mancato accordo tra le parti entro giovedì, d’incanto quei soldi sparirebbero, venendo dirottati verso altri capitoli di spesa. Un “ricatto”, una spada di Damocle che ha molto infastidito i sindacati. «Noi lavoriamo fino all’ultimo per trovare una soluzione, ma il governo non può scaricare sulle parti sociali un tema così complesso come la produttività, né fissare una data invalicabile che rischia di compromettere la qualità dell’accordo», attacca Elena Lattuada, segretaria confederale Cgil, che assieme al collega Fabrizio Solari è al tavolo per Corso Italia. «Siamo in alto mare le fa eco Paolo Pirani, segretario confederale Uil vedremo se ci sono le condizioni per chiudere, ma di certo i tempi sono molto stretti: possiamo realisticamente puntare a linee guida per la contrattazione in essere ed ad affermare un percorso imperniato sulla produttività indicando le materie che vengono delegate alla contrattazione secondaria». Più pragmatico Giorgio Santini, segretario generale aggiunto della Cisl: «Di questi tempi buttare a mare la possibilità che il governo finanzi più di un miliardo di sgravi fiscali mi sembra un grave errore. Cerchiamo di trovare il miglior accordo possibile, ma non perdiamo questa occasione: i lavoratori prenderebbero un piccolo rischio demandando alla produttività una parte del loro salario, ma recupererebbero con meno tassazione su quella quota di stipendio». Fin qui il metodo. È però sul merito che si concentrano le difficoltà più forti da superare. Governo e imprese puntano dunque a demandare ai contratti aziendali di secondo livello accordi sulla produttività che verrebbero defiscalizzati. La quota di aziende che, a oggi in Italia, applica il contratto di secondo livello è di circa il 30 per cento. È chiaro che un eventuale incentivo produrrebbe uno squilibrio tra contratto nazionale e aziendale, a favore del secondo. Una prospettiva vista come fumo negli occhi da molte federazioni della Cgil che considerano il contratto nazionale il cardine della contrattazione, quello in cui si stabilisce il potere d’acquisto del lavoratore. Il compromesso possibile sarebbe quello di fissare gli aumenti a livello nazionale e demandarli a livello aziendale per “sfruttare” la defiscalizzazione. C’è poi il tema del rinnovo dei contratti in corso. Le nuove regole si applicherebbero anche nei contratti (tessili, energia, telecomunicazioni, alimentaristi, edili) già in discussione? I sindacati sono per il “No” visto che in molti casi sono state presentate piattaforme unitarie. Il capitolo più delicato è quello del demansionamento. In tempo di crisi, le imprese chiedono a gran voce di poter far cambiare mansione ad un proprio dipendente, abbassandolo di livello. Ad oggi il Codice civile (articolo 2103) lo vieta: in teoria l’azienda deve licenziare il dipendente e riassumerlo con il nuovo inquadramento. I sindacati vedono il rischio di un via libera al demansionamento e chiedono paletti. Discorso similie per l’orario flessibile. In entrambi casi il possibile accordo tra le parti sociali andrà poi tradotto in legge da governo e Parlamento. L’unico punto dato per (abbastanza) definito è quello sulla certificazione della rappresentanza. Dando attuazione all’accordo del 28 giugno, sindacati e Confindustria (le altre imprese non lo hanno mai firmato) di dare rapidamente corpo alla certificazione degli iscritti ai sindacati (tramite l’Inps) e dei voti nelle varie Rsu (e qua i tempi si allungano). Rimane però il problema del terzo di eletti riservato in modo proporzionale ai sindacati firmatari degli accordi: nei metalmeccanici la Fiom-Cgil è esclusa.
L’Unità 15.10.12