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"Nell’attesa del diluvio come nel Medioevo", di Mario Tozzi

Vi scrivo mentre fa notte nell’attesa del diluvio su Roma. Come gli uomini del Medioevo, che si asserragliavano nelle case mentre le guardie spegnevano le ultime fiaccole e si chiudevano i cancelli delle città, così i romani aspettano le ultime ore di quiete prima della tempesta. Fa un caldo ancora esagerato, e questa è una delle ragioni dell’acuirsi dei fenomeni meteorologici violenti: c’è troppo calore atmosferico in giro, come a dire molto alimento per le tempeste. La Protezione Civile ha diramato messaggi inquietanti e ha suggerito di non mettersi in movimento per 72 ore. Forse è rimasta scottata dalle ultime polemiche con gli amministratori locali, che hanno sempre sostenuto di non essere stati avvertiti in modo soddisfacente, e allora solleva allarmi pure quando non è indispensabile.

Ma forse si è semplicemente arrivati alla convinzione che il clima sta cambiando rapidamente e che oggi si rovesciano in pochi minuti quantità d’acqua che un tempo cadevano in settimane.

E del resto come condannare questo atteggiamento iperprudente, quando si ripensa alle ultime emergenze capitoline in cui gli amministratori locali hanno fatto spesso la figura di coloro che non capiscono e non vogliono capire. Hanno confuso i centimetri di neve con i millimetri di pioggia, hanno sottovalutato le ondate di calore, hanno visto la città eterna affogare sotto un metro di acqua e fango mentre i tombini erano occlusi dalle foglie morte. Peggio di così è difficile. Ma anche il loro comportamento denuncia una verità che non si può più sottacere: siamo oggi indifesi rispetto agli eventi climatici né più né meno di quanto lo fossero i nostri antenati medievali. Ci siamo modernizzati negli allarmi, però, e la Roma di questa vigilia del diluvio assomiglia a New York che aspetta il tifone o a Miami che viene evacuata nelle imminenze di un uragano. Strumenti di monitoraggio sofisticatissimi ci permettono di seguire le tempeste minuto per minuto dalla loro formazione. Ma nessuno strumento ci riesce ancora a difendere dal vento, dai fulmini, dalla pioggia e dalla neve.

E così me ne sto chiuso in casa e domani non mi sposterò ne porterò mio figlio alle elementari, mentre ancora non si sa se le scuole saranno chiuse d’ufficio oppure no. Purtroppo la nostra percezione degli eventi naturali a carattere catastrofico è sempre la stessa: ne abbiamo una paura tremenda ma non facciamo nulla, ma proprio nulla, per prevenirli. Soprattutto nelle grandi città, dove vive ormai oltre la metà delle persone del pianeta, sclerotizzate dal cemento e da argini impossibili e ponti strettissimi, dimentichi di quei fiumi che pure sono stati padri delle loro civiltà. Chi si ricorda oggi del Tevere a Roma? Eppure senza il fiume sacro non ci sarebbero stati civiltà, acquedotti e strade. Oggi è ridotto a un rigagnolo di acqua melmosa precipitato in fondo a argini di pietra che lo sottraggono al respiro dei cittadini. Però non è ancora del tutto domato, e sarebbe in grado di esondare a Ponte Milvio e invadere perfino la Città del Vaticano e Trastevere in poche ore.

Il nostro territorio è sempre più impreparato alle bombe d’acqua che arriveranno e certamente non è una questione tecnologica o di saperi scientifici che ormai sono acquisiti. E’ una questione di mancanza di cultura del rischio naturale in una popolazione che si ritiene generalmente immune fino a che un’impossibile previsione di terremoto o di tempesta non gli sbatte in faccia la realtà naturale che cerca di tenere fuori di casa per la maggior parte dell’anno. E abbiamo così tanti problemi che è meglio contare sulla buona sorte: vedrai che la scampiamo anche stavolta.

La Stampa 15.10.12