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"L’altolà del Colle impatta sulla riforma. Nel mirino c’è il premio di coalizione", di Rudy Francesco Calvo

Il capo dello stato insiste sulla legge elettorale, ma frena su possibili alleanze eterogenee. Giorgio Napolitano è contento a metà. Il capo dello stato ha ricordato a ogni occasione utile al parlamento la necessità di riformare la legge elettorale. Per questo, l’adozione di un testo base da parte della commissione affari costituzionali al senato è un fatto «positivo». Lo ha scritto lui stesso in una lettera inviata al presidente dell’assemblea di palazzo Madama, Renato Schifani. Sul merito, però, non mancano le perplessità del Quirinale. Napolitano, infatti, nel suo messaggio insiste su «nuove regole che consentano agli elettori di compiere scelte determinanti per la composizione del parlamento», ma anche «di evitare il ricorso a incentivi e vincoli tali da indurre a vasti raggruppamenti elettorali di dubbia idoneità a garantire stabilmente il governo del paese ».
L’allarme, lanciato ieri anche da Europa, di una legge elettorale che impedirebbe la formazione di una maggioranza stabile in parlamento preoccupa il capo dello stato. Con i numeri previsti attualmente da tutti i sondaggi, infatti, il premio di maggioranza del 12,5 per cento sarebbe insufficiente a qualsiasi coalizione per riuscire a formare un governo autosufficiente. Una nuova Grosse Koalition sarebbe quindi inevitabile, a meno che Pd e Sel non decidano di allargarsi all’Udc o all’Idv.
È facile immaginare la preoccupazione di Napolitano per una maggioranza di governo che, pur di conquistare il premio di coalizione, possa ricomprendere anche Antonio Di Pietro. O si estenda da Vendola a Casini, o perfino a Fini. Da questo punto di vista, più che Schifani, appare soprattutto il Pd il destinatario del suo messaggio. Mentre alle altre due forze che compongono la “strana” maggioranza, Pdl e Udc, il capo dello stato ricorda la necessità di «un ampio consenso parlamentare » a sostegno della riforma.
A rafforzare l’appello di Napolitano è il sottosegretario alla presidenza del consiglio, Antonio Catricalà, che cita l’insegnamento di Antonio Maccanico: «Vince chi piglia più voti. Il problema è che non tutte le leggi elettorali garantiscono stabilità di governo e noi abbiamo bisogno di governi stabili ».
A esprimere «vivo apprezzamento » per la lettera del capo dello stato è anche il segretario del Pd, Pier Luigi Bersani. I dem condurranno al senato, prima, e alla camera, poi, una aspra battaglia per sostituire, nel testo presentato dal pidiellino Malan, alla quota di parlamentari (i due terzi) scelti con le preferenze l’introduzione dei collegi uninominali. Un correttivo che, oltre a evitare i rischi connessi alle preferenze, introdurrebbe anche un lieve effetto maggioritario. A spingere in quella direzione, tra gli altri, sono stati ieri Stefano Ceccanti e il vicepresidente del senato Vannino Chiti, il quale ha manifestato il proprio «dissenso netto sull’impianto complessivo della legge votata da Pdl, Lega e Terzo polo in commissione». E anche Matteo Renzi si oppone a «pastrocchi», ribadendo la propria preferenza per la «legge elettorale dei sindaci».
Al di là della battaglia sui collegi, però, il Pd non sembra avere intenzione di affossare la riforma. Nessun ostruzionismo, quindi, almeno finché l’ iter parlamentare non assumerà un percorso definito.
Troppo ambigui sono infatti i segnali che giungono ancora del Pdl ai dem: dalla disponibilità a discutere perfino sulle preferenze alla possibilità che questo testo venga affossato dopo l’arrivo a Montecitorio, fino ovviamente, all’intenzione di procedere a testa bassa. Per questo, il Pd non ha ancora deciso quale posizione prendere quando arriverà il momento del voto finale sul testo. Da una parte, ci sono le pressioni del Quirinale per «un ampio consenso parlamentare»; dall’altra, la tentazione (nascosta ma mai sopita) di tornare a votare con il Porcellum.